Il dualismo alla base della violenza sulle donne. Un'interpretazione filosofica

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All’articolo 3, par. 1, della Convenzione di Istanbul - Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica - la violenza contro le donne è definita come “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne”. Il significato della violenza contro le donne si configura quindi all’interno di un determinato contesto normativo, ovvero la violazione dei diritti umani e la discriminazione di un soggetto in quanto appartenente a un determinato gruppo sociale, in questo caso le donne.

Oltre al contesto strettamente legato alle leggi in materia, si è sviluppato un dibattito filosofico molto ampio su identità, parità e differenza di genere.  Ne abbiamo parlato con Laura Candiotto, ricercatrice in Filosofia - già cafoscarina ora Marie Curie Fellow all'università di Edimburgo-, che propone la tesi del dualismo tra maschile e femminile come fondamento di tale violenza. Dualismo da intendere come un isolamento reciproco che produce la violenza oppositiva per l’affermazione identitaria.

«Ritengo che alla radice dell’oppressione femminile emerga quella particolare configurazione concettuale – che ha però importanti conseguenze nella vita reale – per cui il reale è scisso in due realtà contrapposte tra loro, dove l'una ha il potere sull’altra: il dualismo – spiega Laura Candiotto. - La negazione insita nel dualismo è la violenza originaria dell’esclusione dell’altro da sé, perpetrata storicamente dal maschile nei confronti del femminile. Il dualismo e la negazione hanno assunto la forma di uno specifico meccanismo sociale, capillare e diffusissimo, quello del  “mettere a tacere” (silencing) la voce delle donne. Questo meccanismo, congiunto alla costituzione normativa di corpi – pensiamo alla pornografia - e all’elaborazione di ruoli funzionali alla propagazione di uno stereotipo di genere, è una forma di violenza quotidiana che, nella sua banalità, credo tutti noi possiamo riconoscere. Essa è però anche specchio di forme più estreme di violenza nei confronti delle donne, dagli aborti forzati e le mutilazioni genitali fino ad arrivare al “femminicidio” di cui si parla molto in questi giorni.

Il Novecento è stato però anche il secolo delle lotte femminili – pensiamo ad esempio alle rivendicazioni per il diritto di voto o per la legge sull'aborto –, dove la voce delle donne ha iniziato a farsi sentire anche a livello istituzionale, non da ultimo quello accademico.  In merito a questo vorrei sottolineare come anche ai livelli delle speculazioni che possono sembrare più astratte,  e quindi non solo nel campo dell’etica e della politica, le studiose hanno iniziato a denunciare la violenza e il gender bias sotteso a dottrine proposte come “universali”. Si sono così sviluppate aree di ricerca interessantissime e iniziative per promuovere la ricerca femminile (care colleghe e cari colleghi, provate ad esempio a pensare, quando preparate il programma per un corso universitario, a quante sono le donne indicate in bibliografia…). Penso ad esempio alla feminist epistemology dove, tra le altre cose, si studia la violenza come ingiustizia epistemica o come produzione di una ignoranza funzionale al sapere prestabilito".