Il moderno archeologo: paracadutista o cercatore di tartufi?

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Paracadutisti e cercatori di tartufi: così, in una riuscita metafora, si è soliti dividere gli archeologi. La metafora riguarda gli strumenti dell’indagine: la vecchia fotografia in bianco e nero della RAF oggi soppiantata dalle più sofisticate riprese satellitari; il piccone dello sterratore del secolo scorso sostituito dalla trowel quando non dal bisturi. Ma la metafora riguarda anche il modo attraverso il quale si osservano le cose, lo sguardo con il quale si analizzano i processi e si tentano narrazioni: uno sguardo che deve essere attento e meticoloso come quello del cercatore di tartufi, ma deve anche saper osare oltre lo specifico del dettaglio, osservando il mondo dall’alto come uno spericolato paracadutista.

E' in questa prospettiva che si colloca l’incontro "Parachutists and Truffle-hunters: Archeologia dal satellite al microscopio, dal territorio al paleoambiente" organizzato dall’Insegnamento di Archeologia Medievale del Dipartimento di Studi Umanistici mercoledì 5 aprile che ha lo scopo di mettere a confronto diversi sguardi, cercando di farli dialogare tra loro, alla presenza di autorevoli specialisti italiani e stranieri.

LOCANDINA

In quest'occasione abbiamo posto alcune domande sull'evoluzione dell'archeologia al prof. Sauro Gelichi, ordinario di Archeologia medievale e organizzatore dell'incontro.

1) Come si sta evolvendo la moderna archeologia e quanto sono importanti le innovazioni tecnologiche per contribuire a fornire ulteriori elementi per la comprensione e la ricostruzione del passato?


Le tecnologie sono sempre state un supporto per la ricerca archeologica, più che in altre discipline storiche perché l’archeologia si confronta con documenti materiali. Dunque fare ricorso alle tecnologie non solo è utile, è indispensabile. Tuttavia negli ultimi anni, un’accelerazione della tecnologia – quella velocità della tecnica che, come avverte Aldo Schiavone, ha spiazzato la nostra civiltà – rischia di disorientarci, facendoci perdere in molti casi la bussola. Dunque è sempre bene tornare ai ‘fondamentali’ del nostro mestiere per comprendere fin dove è possibile, meglio utile, fare ricorso alle nuove tecnologie, soprattutto per dare loro un senso e una direzione.       

2) Geografia, geologia e geopedologia, biologia, chimica, fisica, storia dell'arte, antropologia, tante discipline che concorrono a fare luce sul passato da angolature diverse e che ricostruiscono un'unica storia. L'archeologo moderno come un investigatore trae da tutte informazioni e ricostruisce un suggestivo puzzle. Il futuro dell'archeologia va in questa direzione?


Che il futuro dell’archeologia consista nel’interdisciplinarietà è dire un’ovvietà, anche perché l’interdisciplinarietà è già insita nei soggetti che si indagano. Tuttavia non è una domanda peregrina, perché questa interdisciplinarietà si è colorata negli ultimi tempi di soggetti disciplinari nuovi e particolarmente performativi. Dunque è su questo che si dovrebbe riflettere, per declinare al meglio le numerose suggestioni che ci arrivano da questi territori di confine. Rispetto ad altre discipline storico-antropologiche, inoltre, l’archeologia ha il grande vantaggio di poter rinnovare le proprie fonti, creandone di nuove, in grado di aprire insospettate prospettive di lettura sul passato. Questa è la sua grande duttilità, sulla quale gli archeologi dovrebbero scommettere di più.

  
3) Dal tanto piccolo al tanto grande, dal dettaglio alla visione dall'alto, l'archeologia cambia prospettiva e sguardo, un confronto utile?


Le diversità dello sguardo dell’archeologo non sono assiomi dati, ma componenti continuamente negoziabili in quello spazio affascinante di confronto che è un progetto di ricerca. E’ lì che si decidono strategie, metodi, strumenti. E’ quello il luogo dove bisogna sempre riandare per offrire sostanza e spessore a ciò che facciamo. L’archeologia è transitata da una dimensione  meramente ‘conservativa’ (le testimonianze del passato che vanno conosciute perché devono essere preservate per le generazioni future) ad una dimensione ‘narrativa’, nel quale la costruzione stessa del documento archeologico costituisce un momento fondante perché già carico di significati storici. Comprendere questo passaggio, e introiettarlo nel proprio codice deontologico, è determinante per gli archeologi, che hanno sempre l’obbligo di ridefinire i confini della propria azione e proiettarla nel futuro. Ma è un  passaggio determinante in generale per la collettività, che di quelle ‘narrazioni’ è il destinatario e in quelle ‘narrazioni’ può forse trovare il senso vero e genuino del concetto di patrimonio.


4) Lei ha parlato di narrazioni, ma come comunicare?


La comunicazione è fondamentale, ma non perché la nostra società ne abbia fatto un discutibile strumento di affermazione e di riconoscibilità (esisti solo se appari). La comunicazione è eticamente necessaria, perché solo attraverso di essa la complessità e la specificità delle discipline, come l’archeologia, che si occupano di patrimonio (dunque di un bene comune) acquistano un valore sociale. Troppo spesso gli archeologi hanno condiviso solo con i loro simili i risultati delle loro ricerche, usando codici incomprensibili e parlando linguaggi da iniziati. Questo è forse uno dei motivi perché, nel nostro Paese specialmente, l’archeologia arriva al grande pubblico quasi solo attraverso la spettacolarizzazione e la banalizzazione. Riuscire ad essere rigorosi nelle procedure analitiche – sapendo padroneggiare o guidare saperi scientifici diversi-, avere delle serie domande a cui rispondere ma poi, nel contempo, riuscire ad essere chiari ed efficaci nella disseminazione è un equilibrio difficile da raggiungere ma a cui dovremmo sempre aspirare.                          

Federica Ferrarin