E' scomparso Renzo Bianchi. Un ricordo di Ignazio Musu e Paolo Puppa

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Ricordo di Renzo Bianchi

di Ignazio Musu

Con la scomparsa di Renzo Bianchi, la scienza economica italiana e l’Università di Ca’ Foscari hanno perso un economista di grande finezza e spessore intellettuale.
Lo possiamo dedurre innanzitutto dalla sua formazione, diversa da quella accademica tradizionale. Dopo essersi laureato a Ca’ Foscari alla fine degli anni cinquanta, Renzo Bianchi iniziò un periodo di ricerca a Roma presso la Società per lo Sviluppo del Mezzogiorno (che divenne poi nota come Svimez), che era stata fondata da Pasquale Saraceno nel 1953. Molti ricordano come la Scuola per la formazione allo sviluppo economico della Svimez abbia svolto un ruolo cruciale nella formazione degli economisti più critici e attenti nell’Italia del dopoguerra.
Alla Svimez Renzo Bianchi si legò a Claudio Napoleoni, uno dei più importanti economisti italiani del nostro tempo, che poi lo volle con lui a Ancona dove Giorgio Fuà lo aveva chiamato all’inizio degli anni sessanta quando decise di fondare una facoltà di economia rimasta memorabile per per il suo ruolo cruciale nella formazione degli economisti italiani alle problematiche macroeconomiche e dello sviluppo economico.
In Napoleoni Renzo Bianchi aveva trovato conferma della sua convinzione che non si poteva fare seria ricerca e formazione in economia se non collegando la capacità analitica con la storia economica (disciplina nella quale si era laureato), e con una continua attenzione critica alla evoluzione del pensiero economico.
Tradusse questa convinzione nei suoi scritti, nei quali spiccano le analisi innovative sulla teoria dell’oligopolio e sui distretti industriali, tematica che affrontò in collaborazione con un altro grande economista italiano, Giacomo Beccattini.
Dopo alcuni anni di insegnamento a Bologna (dove era stato chiamato da Nino Andreatta) e poi vinse la cattedra di Economia Politica all’Università di Ca’ Foscari tornandovi dopo oltre trent’anni e dove fu anche direttore del Dipartimento di Scienze Economiche.
La grandezza di Renzo Bianchi è di essere stato sempre un economista critico. I libri di testo che usava non erano quelli tradizionali; avevano sempre un taglio critico che riteneva componente essenziale della formazione degli studenti.
Ha sempre svolto il ruolo di coscienza critica nei confronti di chi faceva ricerca accettando passivamente l’ultima moda teorica, nella consapevolezza che una teoria economica non deve mai essere succube dell’ideologia dominante, deve sempre saper misurarsi con le sfide storiche e quelle dei valori etici.
Chi ha lavorato con lui ha sempre potuto beneficiare di questo suo spirito critico, anche se, purtroppo, non lo ha sempre seguito; certamente ne hanno beneficiato gli studenti che lo hanno avuto come professore.

 

Ricordo di Renzo Bianchi
di Paolo Puppa

Ci incrociavamo una vita fa quando andavano a prendere i figli dall’animatrice Mariella Dorigo. Il familismo, a questo proposito, credo abbia rappresentato per lui una sorta di scienza sentimentale, di dovere assimilato come piacere personale. Un giardino, del resto, divideva le nostre case. Ci siamo rivisti con continuità, diciamo almeno 15 anni fa, nelle riunioni dei direttori di dipartimento, io per quello delle arti e lui per uno dei due di economia e commercio. E poi ci sedevamo assieme al tavolo  per la commissione del teatro universitario di Santa Marta, ognuno dei due rappresentante della propria struttura. Qui arrivava sempre fresco di doccia, leggero nelle vesti e senza una goccia di sudore, nonostante a volte le calure insopportabili della laguna. Qualcosa di British nell’atteggiamento e nell’aspetto casual. Interveniva nelle dispute di rado, con una mansueta e incalzante precisione, sempre attento ai dettagli nella sua indagine critica. Mai travolto dalla noia, davanti a certe interminabili discussioni dettate da aspetti procedurali astrusi e ai sadismi delle direttive ministeriali. Avevi l’impressione che volesse in ogni situazione cogliere gli aspetti positivi, intento soprattutto a proteggere le rivendicazioni legittime degli studenti. In più bussava spesso alla porta del mio studiolo, a cercare film del collega e amico Fabrizio Borin con cui condividevo la stanza, titolare della disciplina cinematografica. Erano le pellicole che interessavano alla mitica Cati, la moglie Caterina, per cui era pronto a soddisfare ogni desiderio culturale con sobria devozione. E in effetti, Renzo, lo scorgevi in sua compagnia nelle mostre e negli spettacoli di ricerca (magari del cognato Gianni), non di routine. Non era certo presenzialismo il suo, privo com’era di qualsiasi forma di vanità. Si intravedeva altresì in lui un lutto mai elaborato forse, per il fratello prete morto durante un’escursione alpina coi suoi ragazzi. Un giorno, ho provato ad accennarne con pudore e ho visto all’istante erigersi un muro di dolore e di resistenza. Mi colpiva la sua curiosità culturale dispiegata a 360 gradi, un gran gusto che gli derivava dalla famiglia di artisti in cui era entrato e di cui subiva, con muto orgoglio, carisma e fascinazione. Per cui, nelle nostre conversazioni, se io ero inibito a parlare del suo territorio, a me astruso, lui, pur cattedratico in economia politica, era perfettamente in grado di discettare da competente in molti ambiti estetici. Anzi, a volte si spingeva a correggermi con onestà di amico in alcune affermazioni che aveva riscontrato in un mio scritto e che non condivideva. Nel suo intercalare, ricorreva una buffa espressione, in qualche modo indecifrabile sul senso ultimo, “Ma ti figuri!”, che lo appaiava, come gli facevo notare,  ai “Figurarse” e a “Vegnimo a dire el merito” dei Rusteghi goldoniani. Gli ultimi tempi sono stati umilianti per lui e disperanti per chi gli voleva bene. Quando lo avvistavi arrancare, appoggiato a qualche parente o a qualche badante in campo Santa Margherita, le gambe incerte per scompensi neurologici, i suoi  occhi arguti e severi ti fulminavano, ti inchiodavano quasi obbligandoti a fermarti, a scambiare qualche battuta banale. E capivi quanto fosse arrabbiato coll’esistenza. Solo se gli accennavo alla brillante carriera del figlio Giovanni, detto Ivan, l’unico dei quattro amatissimi figli a seguirlo nella perigliosa strada di docente universitario, la luce si accendeva ancora in quel pallore disfatto.