Rapporto più che intenso, quello che ormai lega la Mostra del Cinema di Venezia con la produzione cinematografica dell'Oriente, in particolare estremo. E questo non solo per i contatti privilegiati che da sempre l'attuale direttore Marco Muller ha con i migliori esponenti dell’orizzonte filmico orientale.

Rapporto più che intenso, quello che ormai lega la Mostra del Cinema di Venezia con la produzione cinematografica dell'Oriente, in particolare estremo. E questo non solo per i contatti privilegiati che da sempre l'attuale direttore Marco Muller ha con i migliori esponenti dell'orizzonte filmico orientale. In realtà c'è qualcosa in più, come emerge dall'interesse esplicito a voler approfondire una certa cultura nella sua interezza, in particolare nella grande retrospettiva che la Biennale ha voluto dedicare sin da quest'anno alla "Storia segreta del cinema asiatico". Si tratta di una scelta di film che offre davvero uno sguardo ad ampio raggio su una filmografia per lo più sconosciuta in Italia: una proposta di rara qualità affiancata dal giusto omaggio tributato a un grande maestro come Hayao Myazaki, leone d'oro alla carriera.

D'altra parte, è evidente che anche per quello che riguarda la produzione contemporanea, la Mostra del Cinema offre ormai una scelta molto ampia di film orientali, per numero e qualità senz'altro maggiore di quella proposta dagli altri maggiori festival (Cannes in testa). Ottima scelta,oltre tutto. Rilevabile non solo nello stesso Leone d'oro vinto da Ang Lee (Brokeback Mountain,  una pellicola che ovviamente è in tutto e per tutto "americana"), o in un film come Seven Swords di Tsui Hark (in fondo, uno dei meno convincenti del cineasta hongkonghese) ma soprattutto a partire dall'ultima fatica di Kitano Takeshi intitolata emblematicamente Takeshi's : più che un del grande artista, una sorta di parabola straniata sul destino della maschera stessa di Beat Takeshi, quasi un affresco terminale insieme sul "fare cinema" kitaniano e sulla ricezione dei suoi film, in Giappone e nel resto del mondo.

Sempre il concorso inoltre ci ha proposto due opere di grandissimo interesse e per certi aspetti di "culto". Perché anche di culto si tratta evidentemente nel caso del cinema di Park Chan-wook e della sua ultima fatica Simpathy for Lady Vengeance, una pellicola che pur continuando a muoversi nel solco figurativamente iperreale e fumettistico del regista, ci sembra più matura e interessante del precedente Old Boy. Terzo capitolo della cosidetta "trilogia sulla vendetta", il film di Park Chan-wook sembra confermare il sospetto che solo in certo cinema orientale l'estetica postmoderna possa trovare una sua coniugazione plausibile e non totalmente inautentica. Così come, dal canto suo, un film come Everlastin Regret di Stanley Kwan ribadisce la capacità dell'autore a muoversi nella riscruttura del genere del melodramma con una forza che è ingiusto etichettare come semplice esercizio di estetismo.

Nella sezione Orizzonti, è particolarmente intenso e riuscito il secondo lungometraggio di Li Yu, Hongyan, non solo come cronaca puntuale e credibile della rapida trasformazione della quotidianeità nella recente storia cinese, ma soprattutto come ritratto a tratti anche commuovente dell'adolescenza, con momenti che avrebbero fatto la gioia di un maestro come Truffaut. Mentre più di maniera appare l'ultima fatica di Ning Ying, Wu qiong dong, un film che conferma la vena di una regista che è (fin troppo) sempre presente nei concorsi dei festival, ma che si dimostra poco proponibile al di fuori dei riti cari ai giurati della Fipresci.

Più interessante, come era logico aspettarsi, Yokai Daisenso, inaspettatta scorribanda nei territori della favola e del "cinema per ragazzi" da parte di Mike Takashi, del tutto a suo agio nella sua deriva fantastica, come sempre piacevomente (ed esageratamente) sopra le righe, con una libertà e una freschezza che invece certo manca  all'ultimo capitolo della saga di Final Fantasy Final Fantasy VII: Advent Children: classica pellicola di sperimentazione delle presunte virtù del digitale, alla quale manca ancora però la capacità di articolare l'emozione della novità tecnica in una credibilità narrativa. Molto meglio, a questo punto (fuori concorso), Ru guo ai (Perhaps Love) di Peter Ho-sun Chan: anche questo un film esagerato, apoteosi del musical e del melodramma, accozzaglia se volete di stili, ma assemblati con maestria e passione anche cinefila (non è diffcile cogliere echi di un Demy, o della migliore tradizione hongkonghese), e con una riflessione e una consapevolezza sulla natura dello spettacolo (e del cinema) che è raro trovare in analoghi film della produzione occidentale.

Nel complesso, una selezione che ha coperto l'oriente non solo sul piano geografico, ma anche nella diversità degli stili e delle proposte che il cinema orientale ci sa offrire in questi anni. Non resta che aspettare la prossima edizione: ancora più orientale, c'è da scommeterci…

Roberta Parizzi