Ciò che si ama del Far East Film Festival non è la mole di film provenienti dall'estremo oriente, o le retrospettive di materiali quasi introvabili, bensì la dimensione popolare che, dall'edizione zero ad ora, permea questa rassegna del cinema asiatico.

 

Ciò che si ama del Far East Film Festival non è la mole di film provenienti dall'estremo oriente, non sono le retrospettive di materiali quasi introvabili o le feste notturne, ma bensì la dimensione popolare che, dall'edizione zero ad ora, permea questa rassegna, divulgatrice consapevole del cinema asiatico.

Non è un mistero quindi che molti registi oramai non possano più fare a meno di questa mostra, dall'immenso Johnnie To, amico di lunga data del festival, che non a caso ha girato alcune scene del suo Yesterday Once More tra Udine (casa del FeFF) e Gemona del Friuli, a Pang Ho-Cheung, che ha presentato in anteprima mondiale il suo ultimo lavoro (Dream Home proiettato prima a Udine che a Hong Kong), passando per Erik Matti, Yuthler Sippapak, Soi Cheung e molti altri.

Ad aiutare il tutto vi è la mancanza di barriere, sia fisiche che non, tra il pubblico e gli ospiti in sala e la gentilezza e disponibilità di tutta l'organizzazione nei confronti di chiunque, dai giornalisti agli studenti, ai semplici appassionati, stranieri o nostrani.

Il pubblico apprezza e premia ogni anno l'appuntamento fisso nella “capitale del Friuli”, crescendo oltremisura, occupando sempre più frequentemente tutti i posti disponibili del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, sede oramai fissa di questo festival.

La stessa città si anima e si adegua ad una settimana in puro stile orientale tra mercatini, mostre, cosplayers, dimostrazioni di arti marziali e dj-set internazionali.

Nonostante il fato sia stato avverso a questa XII edizione (la nube del vulcano islandese che ha tenuto a casa alcuni tra gli ospiti attesi, i forti tagli al budget subiti in “tempo di crisi”), i ragazzi del Feff ancora una volta ce l'hanno fatta portando a casa un risultato importante dopo tredici anni di fiducia riposta in questo cinema e nei suoi fedeli.

Non è un caso che sia uno dei pochi festival dove parte del pubblico è uno zoccolo duro e testardo che ogni anno si presenta puntuale all'appuntamento, che considera questo evento come una seconda “casa”.

La sorte vuole che sia proprio questa parte di spettatori la più critica e se vogliamo “cattiva” nei confronti del Feff, ma questo perché il legame che li unisce al festival è profondo e radicato.

Ben due quest'anno le retrospettive presentate: la prima, organizzata in collaborazione con l' Hong Kong Film Archive, sul cinema di Patrick Lung Kong; la seconda sulla scomparsa casa di produzione nipponica Shintoho.

Piccole perle introvabili nei nostri lidi.

Siamo lontani da quelle edizioni che oramai sono divenute “cult”, ma chi ama questo festival e forse anche chi vi si avvicina per la prima volta, non guarda solo al palinsesto o alla scenografia del teatro.

Ciò non toglie che anche questa edizione abbia avuto le sue gemme rare e splendenti, ma forse rinnovare per sperimentare una nuova formula con piccoli cambiamenti potrebbe solo che giovare a questo nostro piccolo tesoro.

 

Luca Pili

 

 

Accidental Kidnapper

 

 

(Yukai Rhapsody)

tr.: Rapitore per caso

Japan, 2010, 111' Dir. Sakaki Hideo

 

Il finto rapimento di un bambino, in realtà scappato di casa, da parte di uomo che si stà per suicidare è il pretesto con il quale il regista (alla sua opera prima) sviluppa un rapporto allo stesso tempo tenero ed estremamente buffo che, tra molte gag ed equivoci divertenti, permetterà  di riportare ognuno alla propria condizione. Per l’uomo “infantilmente immaturo”, a cui non riesce niente, sarà l’occasione per accettare le proprie responsabilità nella vita e scoprire il rapporto padre-figlio, mentre per il bambino, fin troppo serio all’inizio, diventerà un’avventura in cui ritrovare  la fanciullezza e il rapporto con (l’improvvisato) genitore. Questo perché il padre (uno Sho Aikawa in un ruolo stranamente serio) è un boss della yakuza che ha poco tempo per pensare alla famiglia, ma che farà di tutto per riprendersi il figlio (e il riscatto incautamente consegnato), mandando tutti i suoi uomini contro il “rapinatore improvvisato”.

 

Eugenio De Angelis

 

Boys on the run

(Boizu on za Ran)

tr.: Ragazzi in fuga

Japan, 2010, 114' Dir. Miura Daisuke

 

Prendete un giovane “sfigato” nipponico, mescolatelo con vari problemi sociali a piacere, versatelo in un mondo in cui è sopraffatto ed umiliato ed avrete una commedia giapponese. Il lieto fine in cui il povero protagonista si prende la sua parte di felicità sembra scontato, ma forse “Boys On the Run” qualche sorpresa riuscirà a darcela.

Lo “sfigato” di turno è in questo caso Tanishi, ossessionato dal porno e da una collega di lavoro che trova carina. Il nostro protagonista cercherà di conquistarla in vari modi, portando il film all’ilarità più totale. Il film scorre bene tra battute e scene esilaranti che faranno provare al pubblico anche un po’ di compassione verso il protagonista, senza riuscire però a trattenersi dal ridere per ciò che gli succede.

 

Riccardo Bragato

 

Dream Home

 

(Wai Do Lei Ah Yat Ho)

tr.: La casa sognata

Hong Kong, 2010, 96' Dir. Pang Ho-Cheung

 

Una modesta impiegata di banca, sogna da sempre di comprarsi un appartamento nel quartiere “buono” di Hong Kong. Per farlo sta mettendo da parte i soldi, ma quando finalmente trova l’offerta giusta, si accorge che non le bastano. Da questo momento, la tranquilla impiegata si trasformerà di notte in efferato killer, che uccide brutalmente i futuri vicini così da far scendere il prezzo dell’offerta. La geniale idea di Pang è quella di coniugare la crisi economica/immobiliare (il film è non a caso ambientato nel 2008, al tempo dello scoppio della bolla immobiliare negli USA) alle meccaniche e all’estetica degli slasher più efferati. Gli omicidi sono di una violenza rara anche per questo genere e non risparmiano nessuno, dai poliziotti ad una donna incinta, e non è sicuramente adatta a tutti gli spettatori (tanto che anche al Teatro Nuovo di Udine si sono verificati svenimenti), pur mitigata da momenti di stemperamento auto ironico che rimarranno nella mente dello spettatore come momenti “cult” della pellicola. Impossibile non rimanere quantomeno stupiti dalla doppia faccia dell’ottima protagonista ma d’altronde, come ci suggerisce il regista in apertura di film, “in un mondo di pazzi, bisogna esserlo ancora di più per sopravvivere”.

 

Eugenio De Angelis

 

Golden slumber

 

(Goruden Suranba)

Japan, 2010, 139' Dir. Nakamura Yoshihiro

 

Basta conoscere poco lo stile di Nakamura Yoshihiro ed un po’ i Beatles per capire già dal titolo che il filo conduttore del suo nuovo film è anche questa volta una canzone, come in “Fish Story” e in “The Foreign Duck, the Native Duck and God in a Coin cocker”.

Il film segue le vicissitudini di Aoyagi, che, dall’essere diventato un eroe per aver salvato una giovane popstar, si ritrova ad essere capro espiatorio nel complotto organizzato per assassinare il primo ministro del Giappone.

Tra episodi di tensione da thriller e ricordi di gioventù affiora una critica non troppo velata al sistema di giustizia nipponico e al potere dei media. Il regista voleva anche farci ragionare sul potere dell’informazione pilotata, oltre che a farci divertire e stare in suspance per un paio di ore. Nel corso del film i momenti drammatici si alternano a quelli comici, creando un ritmo molto piacevole, sebbene la presenza di qualche cedimento nella sceneggiatura e alcune lacune nei personaggi potrebbero portare lo spettatore a domandarsi: “ma come è possibile?”. La risposta è che se è utile ai fini della storia diventa possibile: anche una macchina che da anni è ferma in mezzo ad un campo può partire solo cambiando la batteria.

Il tutto ci porta ad un finale coi fuochi d’artificio e non in senso figurato. Forse questi fuochi d’artificio sono più un avvertimento per lo spettatore che un mezzo per portare a compimento la trama: vogliono avvisare di alzare gli occhi al cielo, e staccarli dagli schermi televisivi che ci vogliono abbindolare con le loro false verità. Liberiamo le menti e godiamoci i fuochi d’artificio e anche questo bel film.

 

Riccardo Bragato

 

Identity

 

(Identitas)

tr.: Identità

Indonesia, 2009, 86' Dir. Aria Kusumadewa

 

“Identity” è un film indonesiano introspettivo, che porta alla luce una realtà che ad un mondo occidentale tecnologicamente sviluppato non tange più di tanto, ovvero il problema di non avere un' identità nel mondo esterno, perché non in possesso di documenti per un motivo o per l’altro. Questo problema si riflette anche su un isolamento dal mondo esterno, ben rappresentato da entrambi i personaggi del film. La storia segue gli strani comportamenti di Adam, un addetto alla pulizia dei defunti in un ospedale, il quale ha uno strano hobby: collezionare le targhette attaccate ai piedi dei defunti con su scritti i loro nomi.

Muovendosi tra il macabro e la critica sociale il film ci porta tramite un lungo piano sequenza tra i problemi quotidiani e gli squallori che si possono incontrare in un ospedale indonesiano. È qui che viene presentato anche il personaggio femminile del film, il quale si trova nella situazione di dover perdere la propria identità come persona vedendosi costretta a vendere il proprio corpo per poter pagare le spese mediche del padre malato ricoverato in ospedale. Adam, il quale trova più conforto nella compagnia dei morti che non in quella dei vivi, si affeziona alla ragazza “conosciuta” all’ospedale. Non si può dire conosciuta, perché non verrà mai rivelato il suo nome. Il film regala anche qualche amaro sorriso prima di arrivare ad un tragico finale che ci farà riflettere anche sull’importanza che un nome può avere.

 

Riccardo Bragato


Little Big Soldier

 

(Da bing xiao jiang)

tr.: Piccolo grande soldato

Hong Kong/China, 2010, 95' Dir. Ding Sheng

 

Il film di Jackie Chan – che monopolizza la scena col suo personaggio – è ambientato, per l’ennesima volta, all’epoca degli Stati Combattenti. Questa volta però la prospettiva non è quella dei re e dei generali, bensì quella di un soldato semplice – Chan – che è tutto meno che un fiero combattente, abile nell’arte della fuga e dell’evitare il combattimento, sa però anche usare le mani quando richiesto, con una precisione inaudita nel “lancio delle pietre”. Dopo una sanguinosa battaglia che lo vede unico superstite si ritrova tra le mani un generale nemico ferito, che decide di fare prigioniero per portarlo a casa e ricevere la ricompensa, così da poter finalmente smettere i panni del soldato. Aldilà della – comunque ottima - confezione da film d'azione hongkongese, che annovera dei divertenti ed originali stunt di Chan, il nucleo tematico del film, che risalta anche oltre le scene d’azione, è il rapporto che si viene a creare tra questo soldato semplice e il principe prigioniero le cui rispettive visioni della vita, dell'onore e della guerra, all’inizio distantissime, andranno pian piano avvicinandosi, facendo risaltare, ad di là delle rispettive fazioni, l’umanità che accomuna tutti. Niente di nuovo, certo, ma il tono leggero – nonostante un finale amaro – rende la lezione piacevole da seguire.

 

Eugenio De Angelis


The message

 

(Feng Sheng)

tr.: Il messaggio

China/South Korea, 2009, 107' Dir. Chen Kuofu, Gao Qunshu

 

Il governo fantoccio messo in piedi dal Giappone negli anni ’40 in Cina deve scoprire chi è il fantomatico “Shadow”, uno dei capi della resistenza che è infiltrato tra loro. Per farlo riunisce in un castello isolato un gruppo di persone, ognuna con i suoi motivi per essere sospettata. I metodi con cui vengono interrogati non rientrano tra i più ortodossi e le torture, pur se con distacco, vengono mostrate anche nei loro particolari più sanguinolenti. Spy thriller dalla fotografia algida e dalla regia puntuale, riesce nel compito di coinvolgere lo spettatore, anche nelle sue sotto trame politiche, attraverso un’ottima sceneggiatura che, senza forzature, porta ad un finale coerente.

 

Eugenio De Angelis

 

Possessed

 

(Bulsin jiok)

tr.: Posseduta

South Korea, 2009, 106' Dir. Lee Yong-ju

 

Il miglior film della giornata è votato al versante metafisico e il regista sceglie intelligentemente di intraprendere una strada diversa dai classici movimenti di macchina ed effetti audio da “balzetto” sulla sedia, per sviluppare una trama inquietante che ruota attorno alla scomparsa di una bambina dai misteriosi poteri, resi peraltro attraverso scene dalla forte componente onirica ed esteticamente pregiate. Le ricerche sempre più spaventate di un poliziotto e della sorella della bambina, porteranno alla luce un mondo di superstizioni e sfruttamento che valgono come monito alle false credenze, senza però risparmiare anche una forte critica al fanatismo religioso, impersonato dal personaggio della madre (la Corea è l'unico paese est asiatico insieme alle filippine dove il cattolicesimo è estremamente diffuso).

 

Eugenio De Angelis

 

Running Turtle

 

(Geobugi dallinda)

tr.: La tartaruga che corre

South Korea, 2009, 117' Dir. Lee Yeon-woo

 

Cho Phil-sung è un poliziotto coreano con molti problemi, sia finanziari, sia in famiglia. Viene considerato un fallito e per tentare il tutto per tutto cerca la fortuna nelle scommesse. Ma proprio quando la fortuna sembra sorridergli inizia il vero film: un pericoloso criminale fuggito di prigione si nasconde nel paese di Cho Phil-sung e l’inseguimento alla cattura è scontata.

Tutt’altro che scontato è invece quello che gira attorno a questo film. Un attore molto promettente, un thriller che invece che cercare di conquistare il pubblico con momenti di alta tensione tenta di far provare simpatia per il personaggio principale. Il ruolo del poliziotto fallito non è nuovo al genere thriller in Corea, però questo film regalerà emozioni in modi inaspettati anche ai cultori del genere.

 

Riccardo Bragato