La realtà dentro l'inquadratura

Intervista con Adoor Gopalakrishnan, figura di spicco del cinema del Kerala (India meridionale), realizzata in occasione della 33°Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro, 1997, dedicato alla cinematografia di quello stato.

 

 

 

 

Adoor Gopalakrishnan, lei ha realizzato otto lungometraggi e un numero molto maggiore di corti e documentari ed è attivo da più di trentanni in ambiti diversi: produttore con la cooperativa cinematografica del Kerala, regista riconosciuto nei maggiori festival internazionali e scrittore di libri e sceneggiature. Potrebbe illustraci la situazione del cinema nel Kerala, che noi non conosciamo affatto?

Il Kerala, che, pur essendo uno degli Stati più poveri dell'India, ha un grado di cultura molto elevato (il 95% della popolazione è alfabetizzata), ha da sempre investito molto nell'industria cinematografica, sia dal punto di vista produttivo sia da quello distributivo. Poiché da noi non esiste una scuola di cinema, la maggior parte dei nostri tecnici e registi si è formata alla scuola nazionale di Bombay. Anche io vi ho studiato nel 1972. Si tratta di una delle migliori scuole nel mondo, completamente statale e perfettamente attrezzata per tutte le esigenze degli studenti: prepara più di mille persone all'anno, di cui una buona parte viene dal Kerala. D'altra parte, nell'intero paese ci sono 15.000 cinema e 1.500 si trovano nel nostro Stato: si tratta di una proporzione molto elevata, tenendo conto che il mio paese occupa uno spazio fisico molto limitato. La produzione, invece, è un po' diminuita rispetto agli anni 80: dagli oltre 100 film all'anno siamo passati ad un'ottantina. Il che è comunque molto: credo sia quasi quanto la produzione italiana. Si tratta inoltre di una produzione in cui l'opera creativa ha una sua importanza e spessore. Chiaramente la maggior parte dei film malayalam sono commerciali. Ciò che si è visto qui a Pesaro non è che la punta qualitativamente più elevata dell'intero cinema del Kerala. Tutti coloro che sono qui hanno lottato per produrre i loro film: nessuno di loro ha avuto un successo popolare, ma solo grazie ad una grande forza di volontà e determinazione queste, che possono definirsi le avanguardie artistiche del mio paese, si sono imposte.

La sua situazione come si situa in questo panorama?
Da pochi anni, ossia da quando i miei film hanno incominciato ad essere venduti all'estero, ho maggiori facilitazioni. Al momento non ho particolare difficoltà per girare e per produrre dei film, i problemi sono semplicemente artistici e non finanziari. La mia situazione è paradossalmente opposta a quella descritta: ci sono persone che mi offrono del denaro per fare dei film ed io sono costretto a rifiutare perché, per portare a compimento i miei progetti, ho bisogno di un tempo e di una riflessione che forse non è adeguato alle esigenze dell'industria. Una storia molto triste! (Ride) E dire che all'inizio pensavo di avere troppe idee.

Quanto ci ha descritto è abbastanza lontano dall'immagine del Kerala offertaci dai film presenti a Pesaro. Noi pensavamo a un paese prevalentemente rurale, privo di grandi città e come disperso in una serie di piccoli villaggi immersi nella vegetazione.
Nel cinema, quello che si vede non è mai la totalità della realtà, ma la stretta conseguenza di ciò che si vuole raccontare. Per esempio il protagonista di Anantaram, che è un film sul problema della percezione, è realmente lo specchio attraverso cui noi vediamo. Egli seleziona particolari momenti della sua esperienza e li proietta in storie che con la realtà hanno rapporti labili, come si può intuire una volta compreso il meccanismo. In generale, ogni volta che noi raccontiamo una storia operiamo una precisa selezione del reale e offriamo al nostro pubblico un lato ben particolare del visibile. Quindi non si può parlare di un'unica immagine del Kerala, perchè questa varia a seconda del soggetto e delle intenzioni che ci spingono ad affrontarlo. In Kathapurushan l'immagine del mio paese cambia con la sua evoluzione storica. Il film descrive un periodo piuttosto lungo: dagli anni Trenta, cioè circa quindici anni prima della indipendenza dal dominio inglese, fino agli anni Ottanta, lasso di tempo in cui il Kerala ha assistito ad una evoluzione notevole non soltanto dal punto di vista della società e della cultura, ma anche in cose più piccole e più evidenti, come il modo di vestirsi. In questo caso l'immagine non è solo il risultato del filtro artistico, ma anche di un'opera più naturale, quale può essere il passaggio di epoche: la rappresentazione è in altre parole sottomessa allo sguardo contemporaneo che ripercorre fasi culturali e storiche differenti.

Ci sembra che il rapporto con l'Inghilterra e il confronto con l'indipendenza che l'India ha acquisito negli anni 30 costituisca uno dei punti di partenza dei suoi film, anche di quelli meno "storici". Per esempio in Vidheyan ci sono due figure, il servo e il padrone, che sembrano provenire dall'inizio del secolo, anche se la storia è ambientata in un periodo successivo all'indipendenza.
Sebbene il film sia ambientato nei dieci anni successivi all'indipendenza, esso parla del terzo mondo e della colonizzazione della mente che è un fenomeno di lunga durata. L'India ha subìto una colonizzazione non solo della terra ma anche dello spirito. Questa mentalità servile, che è molto più difficile da estirpare, è rimasta anche quando gli inglesi se ne sono andati. Quando si pensa al rapporto servo/padrone in questo film, bisogna contestualizzarlo: il padrone è a capo di una famiglia ricca del villaggio, che durante la dominazione inglese aveva il potere di esigere le tasse dal popolo e di versarle nelle casse dello Stato. Quando gli inglesi se ne sono andati, la riscossione dei tributi è passata ai funzionari del governo, ma questa famiglia ha continuato ad esser vista come punto di riferimento da parte del villaggio, benché non avesse più alcun ruolo ufficiale. Dall'altra parte c'è il servo che non ha niente: né soldi né terra. Arriva da uno Stato vicino proprio alla ricerca di una terra e di un lavoro. Il suo sentirsi straniero lo porta a vivere in una terra di incrocio. In questa terra di nessuno, che lui ritiene si debba occupare secondo le antiche leggi, sente che per riuscire a scavarsi una nicchia deve continuare ad essere servile verso il padrone. Una volta acquisita una funzione, seppure infima, all'interno della famiglia ricca, egli è ancora più esposto degli altri all'obbedienza, perché più caro è ciò che ha. Il servo nega la sua individualità, pensando di avere qualcosa da proteggere; per questo si sottomette. Dunque, da una parte c'è qualcuno che esercita un potere che in realtà non ha, dall'altra c'è qualcuno che non ha niente da perdere, ma che pensa di avere qualcosa di molto importante da conservare. Il film è centrato sulla giustapposizione di questi due personaggi. La psicologia del servilismo si basa su questo meccanismo: all'inizio vuoi resistere, poi però ti rendi conto che sei debole e allora ti sottometti. Dopo un po' ti abitui e arriva il momento in cui questa situazione comincia a piacerti. Allora ti annichilisci a tal punto che inizi a pensare che senza autorità non puoi vivere, ne hai bisogno. In questo senso il film mette in scena la struttura del potere e insieme la psicologia del servilismo.

Si ha l'impressione che pure i potenti dei suoi film siano vittime e schiave del loro stesso potere. In Vidheyan, per esempio, il padrone alla fine è quasi costretto dalla sua indole a uccidere la moglie. E di ciò si pente. Oppure in Elippathayam (Trappola per topi), il protagonista, questo signore nulla facente, sembra schiavo del suo ozio. In entrambi i casi c'è il riscatto dei più deboli: sia nel secondo, dove il signore viene gettato in acqua, sia nel primo, nel cui finale ci è parso di cogliere la prima immagine davvero potente di un povero in un suo film, con il servo ripreso controluce dal basso che impugna il fucile del padrone morto e lo alza verso il cielo...
Questo è vero, perché io non tratto nessuno dei miei personaggi deboli come dei villani: sono tutti prodotti di una situazione particolare che deriva dal passato. Io cerco di capirli. Anche il protagonista di Elippathayam è preda di una costante preoccupazione che è la diretta conseguenza del suo stato di ricco: dover spartire i propri beni. Così si rifiuta di condividere con la sorella non solo la proprietà (la terra) ma anche le sue preoccupazioni, le sue speranze, i suoi pensieri. Né con lei né con le figlie. Il film esamina il significato dell'essere: la tua esistenza acquista un senso quando agisci e reagisci. Quando escludi tutto ciò, quando ti escludi da questa relazione di azione e reazione, allora la tua posizione all'interno dell'universo inizia ad incombere. E la domanda "Cosa sto a fare nel mondo?" insorge minacciosa.

A proposito di azione e reazione, ci sembra che nei suoi film il principio di autodeterminazione abbia un peso fondamentale. Sia nel bene sia nel male, i suoi personaggi o decidono cosa fare della propria vita sino alle estreme conseguenze, oppure non decidono affatto, non ne hanno il coraggio. Lei dice che tutti i personaggi dei suoi film sono il prodotto della loro società; ma è anche vero che alcuni di questi sono caratterizzati da una forte spinta a decidere per se stessi, sia in positivo che in negativo. È come se ci fosse una reazione a quello che la società e la Storia hanno deciso per loro.
Tutti i miei personaggi vogliono reagire, ma non ci riescono. Per esempio, in Kathapurushan, il protagonista agisce e ne patisce le conseguenze. E la tragedia è che l'ideologia per la quale ha consumato buona parte della sua vita - il comunismo per il quale era stato arrestato e torturato fino a rimanere storpio - si ritorce contro di lui, come mostra l'episodio conclusivo della scrittura del libro e del suo rifiuto da parte della società. Lì il protagonista è nella condizione di uscire e combattere, invece in Vidheyam il protagonista vorrebbe liberarsi del padrone, però c'è questo filo sottile che lo lega a lui e che lo blocca. Si unisce alla cospirazione contro il padrone ma all'ultimo momento non ce la fa e abdica. Persino alla fine, quando se lo trova di fronte, non riesce a rifiutargli un aiuto. Quindi questa volontà è senz'altro presente, ma c'è anche, contemporaneamente, un'incapacità quasi strutturale ad agire.

A proposito di Kathapurushan, in questo suo ultimo film, come pure in Mukhamukan (Faccia a faccia), si affrontano questioni legate all'ideologia comunista che ha attraversato le vicende sociali del suo paese. L'impressione è che il comunismo sia vissuto come un elemento che viene da una cultura esterna alla vostra, più che come un'ideologia che vi appartiene davvero, capace di determinare una forma di riscatto.
Il comunismo è stata un'ideologia importante nel nostro paese, ma è stata concepita sullo sfondo della rivoluzione industriale ed è stata imposta prematuramente in India, perché il nostro era un paese basato sull'agricoltura. Quando Marx ha immaginato una divisione pura tra forza lavoro e capitale, aveva in mente la situazione dell'Inghilterra all'indomani della rivoluzione industriale, non certamente l'India di fine Ottocento. Per questo da noi il Marxismo non si è mai sviluppato in modo generale. È accaduto però che in due parti dell'India - in Kerala e nel West Bengali - dove la popolazione era più colta, le persone sono state attratte intellettualmente dalle idee marxiste, tanto da poter introdurre un sistema comunista anche in una situazione così differente. In realtà, il vero problema per uno sviluppo coerente del comunismo è stato, essendo il nostro un paese essenzialmente sfruttato dai colonizzatori, l'assenza di una reale divisione tra lavoro e capitale. Gli indiani erano la forza lavoro e gli inglesi, in Inghilterra, i capitalisti: un po' troppo lontani per essere coinvolti in un processo rivoluzionario!

Lo stesso vale per la religione? Nei suoi film, per esempio, più che in quelli di altri autori malayalam, il Cristianesimo - che in Kerala riguarda il 20% della popolazione - ha una certa importanza. Qual è il rapporto con questa religione?
Ancora prima che il Cristianesimo giungesse in Kerala - il che è avvenuto abbastanza presto - la popolazione indiana praticava una certa libertà di culto. All'epoca il Kerala era diviso in piccoli principati e ogni dottrina che arrivava sulle nostre coste era la benvenuta, sia dalla base della popolazione sia da chi ne stava a capo. Dicevano: ecco la saggezza che arriva dal mare. I principi davano ai nuovi arrivati terra e soldi per costruire le loro chiese. È successo con gli ebrei, con i cristiani e con i mussulmani. Non c'è stata mai alcuna resistenza o ostilità verso queste nuove confessioni. Un aspetto interessante della religione induista, in rapporto alle altre confessioni, è che nessuno l'ha codificata o organizzata. Si tratta di un sapere collettivo che si è cristallizzato lentamente nel corso dei secoli. È una religione in cui puoi essere un attivista o solo un fedele dal momento che la sua filosofia non va contro nessun'altra. Questo è anche uno dei motivi per cui, anche se il Buddhismo è nato in India, ora ha pochissimi fedeli. Il Buddhismo, che altrove ha avuto molto successo, da noi è stato assimilato dall'Induismo, ne è diventato una parte. Lo stesso è avvenuto con le religioni pre-Buddhistiche. Invece i Cristiani e i Mussulmani non sono stati inglobati e continuano a sussistere perché, avendo le loro origini da un'altra parte, hanno mantenuto intatta la loro spinta propulsiva. Un carattere tipico del pensiero indiano è questo: noi non abbiamo mai pensato che il pensiero mussulmano o cristiano fossero più o meno importanti del nostro; erano soltanto altre manifestazioni intellettuali. C'è una differenza fondamentale tra Cristianesimo e Induismo: nel Cristianesimo si crede che tutto sia stato creato in funzione dell'uomo, mentre nell'Induismo tutto ha uguale importanza. L'uomo è solo una delle parti che compongono la natura e come tutte le altre ha un'importanza e una posizione conseguente. Tutto ciò che è stato creato nel mondo ha e deve avere lo stesso diritto e la stessa possibilità di vivere. Questa è l'unica vera differenza tra il Cristianesimo e l'Induismo.

Una cosa che ci pare importante nel suo cinema, più che in quello di altri autori del Kerala, è questo sguardo rivolto non solo alle religioni e alle culture che dall'Europa si sono trapiantate in India, ma anche alla cultura europea in sé. Per esempio, abbiamo notato che in Anantaram, tra i libri che il protagonista legge, ce n'è anche uno di Camus, Lo straniero. Qual è il suo rapporto con la cultura europea?
Credo che alla base di tutto questo ci sia una sostanziale incomprensione. Noi non ci vediamo isolati. Se l'Occidente non ci conosce, non conosce la nostra cultura, è un suo problema, non nostro, perché noi conosciamo l'Occidente... (ride). Noi conosciamo i compositori, gli scrittori, i registi occidentali. Noi ci vediamo come parte del mondo intero. L'uomo che è al centro del mio film ha una mente moderna e come tale partecipa delle idee che circolano nella comunità moderna.

Come mai però lo sguardo è orientato maggiormente verso l'Europa e non verso la Cina o il Giappone?
Certamente, al giorno d'oggi i rapporti sono rivolti verso l'Europa, ma è una questione di evoluzione storico-culturale. Nel passato le relazioni con la Cina erano molto più salde e frequenti che non quelle attuali con l'Europa. L'India stessa 2.000 anni fa era il grande centro del potere e quindi tutti gli studiosi cinesi, ma non solo, venivano qui per immagazzinare, ma anche per scambiare e quindi arricchire, le proprie conoscenze. La cultura indiana ha viaggiato verso l'est, attraverso il Buddhismo. Dall'India alla Cina, da lì in Corea, poi in Giappone e infine nei paesi che gravitano intorno a queste potenze. Nei tempi moderni, specialmente dal XVI secolo in poi con l'arrivo dei portoghesi - e prima di loro dei greci e degli arabi che commerciavano materie preziose -, i rapporti tra Europa, India e Cina si sono intensificati, facendo del nostro paese il centro di questo flusso di merci e di sapere. Se si osservano le più antiche mappe del mondo si nota che Calicut (città del Kerala) era il più grande porto dell'India. Gli scavi effettuati nel luogo del vecchio porto hanno portato alla luce monete d'oro romane, gli archeologi hanno poi dimostrato che c'erano scambi frequenti tra il Kerala e Roma.

La cultura che lei mostra nei suoi film è molto aperta alle influenze di tutti i paesi, però la società descritta pare essere molto chiusa, e gli stessi rapporti con gli altri Stati dell'India non sembrano essere mai presenti. A questo riguardo lei riterrebbe possibile girare un film in un altro Stato dell'India?
Potrà sembrarvi strano ma i miei film, essenzialmente, non sono di finzione, non vogliono narrare una storia, perché non ho interesse ad offrire alla gente delle storie precostruite. Credo che innanzi tutto i miei film debbano essere dei documenti sociali affidabili, anche se naturalmente non mi fermo a questo livello. Se il mio cinema può sembrare legato al Kerala, è per questo motivo essenziale: la verità storica. Non puoi costruire un edificio se non hai delle fondamenta forti. E le fondamenta sono la realtà, la cultura, la vita quotidiana delle persone di cui racconto le storie. Quando dico qualcosa devo parlare di cose che conosco profondamente. Solo parlando di cose che so posso essere certo che il mio trasporto, il mio sentimento raggiungano il pubblico e suscitino in lui le stesse emozioni. Questa è la base, perché nei miei film c'è altro: ci sono temi più generali che si possono mettere in relazione a qualsiasi altro posto. Questa è la struttura con la quale ho costruito Katahapurushan. All'inizio c'è un narratore, che è un narratore eterno: non c'è un passato, perché le sue storie sono applicabili al passato come al futuro e quindi in questo senso non necessariamente la storia appartiene al Kerala o all'India. Se poi dal generale passiamo al particolare, abbiamo la storia di un bambino che nasce in un certo ambiente, in una situazione, in un periodo storico. Noi seguiamo la sua personale evoluzione. Qui abbiamo a che fare con lo specifico: il singolo uomo, l'essere umano e il bambino. Poi dallo specifico si passa alla famiglia, che questi metterà in piedi, dalla famiglia alla società, con la quale avrà i contatti più disparati, e dalla società allo Stato. Come vedete, dal particolare siamo tornati al generale e dal generale al particolare, e così via...

Lei si ritiene più un narratore di storie o un "metteur en scene", qualcuno che lavora sulle immagini?
La storia è solo una scusa per gli spettatori, per tenerli seduti al cinema. La struttura drammatica mantiene vivo l'interesse, costringe a guardare ciò che succede sullo schermo. Però, mentre guardi un film, ci sono talmente tante cose che accadono tra te e quelle persone sullo schermo! Per questo credo che i film prendano forma nella mente delle persone: ognuno che guarda un film lo vede in un modo un po' diverso, a seconda dal suo modo di considerare il mondo, dalle facoltà intellettuali che possiede, dal suo livello di comprensione. Ecco perché i miei film hanno diversi livelli e non sono uguali per tutti: l'esperienza di ognuno di essi varia da persona a persona. Questo è quello che io cerco di conservare quando faccio un film.

Nella struttura di Anataram, in cui questa analisi è evidente, c'è una particolarità rispetto agli altri suoi film. Per una volta troviamo un personaggio femminile particolarmente importante, una donna che diventa quasi il centro di tutta la vicenda, detiene il potere e spinge il protagonista verso un'autentica follia d'amore.
Le mie donne sono molto forti anche negli altri film. Ad esempio la nonna in Kathapurushan è più di un uomo: porta avanti tutta la famiglia, dal figlio senza padre alla figlia ammalata. Non c'è niente di artificiale in ciò: questo è tipico del Kerala. Bisogna dire che per quanto riguarda Anantaram, le percezioni - il modo di considerare la realtà e le risposte che i personaggi danno - sono molto moderne. Io ero interessato all'attimo in cui la donna diventa l'oggetto della fascinazione. Il protagonista, quello che rappresenta la lente attraverso cui noi vediamo la storia (e che d'altra parte la sta raccontando), sta per avere un crollo nervoso: il suo essere è come la mente di un artista, in cui tutto è un flusso continuo. È in preda a una pazzia senza motivo e questa donna affascinante diventa la situazione ossessiva più stimolante che può trovare. E' elusiva e bella allo stesso tempo. E' una situazione estremamente logica. Dall'altra parte c'è lui e il suo desiderio di raziocinio: egli vuole spiegare razionalmente come si può arrivare a quello stato mentale di crisi. Assume perciò diversi caratteri per arrivare a spiegare quel punto. Nella prima storia egli ha una precisa teoria: lui è troppo brillante e intelligente per la mediocrità della società. Dunque seleziona di tutti gli episodi della sua vita solo quelli funzionali alla sua tesi. Prende tutti gli incidenti e li mette insieme per spiegare la sua teoria. Poi c'è la seconda storia che segue un'altra strada, mostrando come da bambino gli hanno fatto credere delle bugie e lui è cresciuto pensando che tali bugie fossero la realtà. Man mano che cresce, questa incapacità di discernere la realtà dalla bugia cresce sempre più: così si inventa la storia romantica con questa donna bellissima. E c'è un punto in cui egli quasi crede a questa sua invenzione: il punto cruciale è quando diviene incapace di distinguere il reale dall'immaginario. Probabilmente molti altri percorsi sono effettivamente possibili e indicati nella fantasia allucinatoria del protagonista. Il fatto è che Anantaram ha fondamentalmente a che fare con la percezione e come tale assume caratteri differenti a seconda di chi si osserva e di come lo si osservi.

Questa donna così elusiva non è forse una immagine di ciò che può essere il cinema?
Questo è molto interessante, perché in Anantaram io parlo della realtà all'interno di una inquadratura, in particolare all'interno di quella sezione di spazio che è il rettangolo cinematografico. Tra le tante sequenze del film, voglio ricordare quella dell'automobile che, dopo essere stata sempre in officina, per una volta si vede in movimento. Senti il rumore del motore e finalmente pensi che l'auto sia stata riparata. In realtà è la macchina da presa che si muove assieme a lei e, quando alla fine si ferma, si vede che l'automobile era tirata da un trattore. In questo caso l'intera percezione della realtà dello spettatore è alterata da questo piccolo movimento della macchina da presa. Un altro esempio si ha quando il ragazzo sta dormendo ed ha una terribile apparizione: il giovane urla, un altro va ad aprire la finestra. Improvvisamente la percezione della realtà mostra la sua alterazione: i personaggi sognati sono reali e presenti nella stanza. Ancora una volta il cinema mette in luce la sua opera di rivelazione di una realtà interna a quella costruzione artificiale - prelievo dal resto della realtà - che è l'inquadratura. Per questo dico sempre ai miei amici di non vedere mai i miei film al videoregistratore: la magia del cinema è attiva solo quando il buio completo scende nella sala.

Massimo Causo e Carlo Chatrian