Hou Hsiao-Hsien e il piano-sequenza

L'opera di Hou Hsiao-hsien è una delle rare chance per confrontarsi con un'illusione di realtà verace e sfuggente quanto le realtà, sempre più virtuali, che attraversiamo.

HOU HSIAO-HSIEN E IL PIANO-SEQUENZA

 

Negli anni Novanta, a partire da Il maestro di marionette (1993), capolavoro di luce e geometrie, il cinema di Hou Hsiao-hsien s'intensifica in una trascrizione realistica della durata, attraverso un impiego sempre più duttile del pianosequenza. Rispetto a Città dolente (1989), summa delle modalità d'incisione del tempo e dello spazio dei film precedenti, in Il maestro di marionette, all'interno di un découpage altrettanto ellittico, i blocchi narrativi si risolvono con maggiore frequenza in un'unica inquadratura. La ricostruzione di un'epoca (Taiwan nei circa trentasei anni che precedono la fine della seconda guerra mondiale, anni di dominazione giapponese), si snoda in forma di riverbero determinante sulle tappe decisive dell'esistenza del maestro burattinaio Li Tien Lu. La regia mantiene una distanza che consente all'azione di articolarsi liberamente, in costante dialettica con la profondità di campo, potenziata dalla pregnanza del fuori-campo e, per la mirabile ripartizione scenografica del quadro, del fuorivista. La cinepresa si adegua alla durata delle rappresentazioni teatrali e degli spettacoli delle marionette con la medesima discrezione con cui vengono riprese le dinamiche emotive dei personaggi. Si scatena un mulinello tra la storia del burattinaio (intrecciata alla Storia di Taiwan), il presente del racconto (è Li Tien Lu in persona che narra la sua vicenda comparendo, comodamente seduto, nei luoghi dell'azione) e la finzione. Lo spazio non s'incurva, non uncina la durata per catalogarla – il tassametro si sgretola; il tempo si sregola – lo spettatore s'illude di trovarsi al di qua di una finestra.

A ragion veduta, diversi critici hanno letto la produzione anni ottanta di Hou Hsiao-hsien, Il maestro di marionette incluso, attraverso la categoria del realismo, intesa nell'accezione baziniana, filtro parimenti consono al suo cinema successivo, sebbene qualche studioso abbia presupposto, rispetto ad esso, il superamento della "precedente estetica realista". È quindi necessario, per schivare fraintendimenti, ritornare su questa stanca parola e, posto che il realismo di Bazin sia un sistema di espressione che tende a far apparire più realtà sullo schermo, interrogarsi su come ottenere tale guadagno. Sul punto lo studioso francese rifugge ogni dogmatismo ed allude ad una chimica che forse è più un'alchimia, affermando che, in un cinema realista, la realtà debba essere sostituita da un composto di astrazione, convenzioni e realtà autentica, in una parola, da un'illusione di realtà. Nell'insuperato tractatus cinematografico di Bresson, il regista individua il vero obiettivo di un cinema della realtà, che è quello di creare i legami che essere e cose aspettano per vivere.Il medium implicito è lo stile. Già Bazin aveva aperto il discorso su questo problema ulteriore e inglobante. Lo stile, infatti, non prescinde dalla realtà che rappresenta: si realizza nella modulazione dei materiali visibili ed invisibili con cui si confronta, scandito dal ritmo delle sensazioni liberate dall'interazione tra i personaggi e l'ambiente. Hou Hsiao-hsien sceglie il pianosequenza per stabilire una maggiore aderenza con la realtà che, di volta in volta, ricrea. In Good Men, Good Women (1995), Hou rielabora l'intersecarsi di piani temporali diversi (il presente, il ricordo, il film storico immaginato dall'attrice che lo interpreterà), all'interno di una struttura circolare. Prima dell'epilogo che ripete l'inquadratura d'apertura, nel penultimo pianosequenza (un avvolgente movimento discendente sulla protagonista del film nel film, la quale, accanto alla salma del compagno, compie il rito funerario di bruciare banconote), si verifica una magistrale quadratura del cerchio: dal bianco e nero si passa al colore, con uno scarto cromatico che presentifica la fiction immaginaria, specchio di un vissuto doloroso (l'attrice aveva venduto il suo uomo, il gangster Ah Wei). Il cineasta riarticola il suo stile: la macchina, sovente in spalla, si mobilita per avvicinarsi ai corpi e seguirne fluidamente i movimenti: come la logica impietosa che anima la città, e la conseguente riducibilità monetaria dei legami di cui è cornice e linfa, delegittimano il pudore, così lo sguardo del tradizionalista Hou, all'impatto con essa, si fa "invasivo", fino a penetrare nell'intimità dei personaggi.

Nel successivo Goodbye South, Goodbye (1996), il cineasta acuisce quella che, più che una rottura, col senno del poi, può pensarsi come un'eversione fisiologica del suo stile. Il film narra il fallimento dell'ascesa criminale di un malavitoso e del suo braccio destro, e la cinepresa trema al cospetto di una realtà che li farà deragliare, fuori-vista, in mezzo ad una natura indifferente, come eroi di un ganster movie d'annata. L'uso del pianosequenza è policromo e polimorfo come non mai. Assieme ai quadri "classici" convivono impaginazioni inedite nel cinema del maestro taiwanese. Basti pensare alla splendida ripresa dal retro del treno sui binari che tagliano il centro abitato, punteggiata da un hard-core-punk indigeno, ricorrente e contestualizzante; al travelling sulla testa dei giocatori nella bisca, alle camera-car che esplorano lo spazio urbano, con filtro verde, o che anticipano la gita in moto dei protagonisti; alle soggettive di Flat Head virate in rosso, il colore delle lenti dei suoi occhiali da sole: soluzioni che paiono sconfinare nel naïf, tuttavia vivificate da un temperamento artistico difficilmente paragonabile a qualsiasi altro – i punti di contatto col cinema di Ozu vengono meno nel corso degli anni novanta – e frutto di una libertà espressiva che non si accontenta di sperimentare (come accade in Keep Cool, il divertissement di Zhang Yimou, diretto nel 1997), ma brama di fisicizzarsi nell'esperienza che i personaggi maturano nel corso del film, esperienza che la durata concretizza e lo sguardo veicola. L'irriverenza del cineasta rispetto agli assunti di Bazin sull'importanza di un quadro statico ai fini di una rappresentazione il più oggettiva possibile del reale rivitalizza la posizione dello studioso sul pianosequenza, la monda cioè dei punti deboli che la prassi del cinema aveva già esautorato, per avvalorarne l'attualità. Le sue ultime opere dimostrano come un surplus di realtà sia ricavabile proprio dalla mobilità (in tal senso è emblematica la macchina a spalla dei Dardenne) e dall'uso della soggettiva, quale strumento di un'esplorazione ausiliaria più addentrata (e vicina quindi alla percezione dell'ambiente da parte dei soggetti che lo abitano) e canale di senso ulteriore. Sprofondando per rinnovarsi nelle ellissi (iati custodi del significato ultimo), la progressione narrativa conforme a ciò che il Dna di un microcosmo esige, l'indefessa effervescenza tra materiali e figure linguistiche eterogenee, il rigore che sa aspettare l'emozione e rispettarne la meccanica, sono elementi che creano una dimensione auratica in cui germina, aldilà di un'improvvisazione istigata, quell'imprevisto che restituisce, a sua volta, un soffio di vita che bagna tanto la realtà rappresentata quanto la realtà dello spettatore, irrimediabilmente disarcionato dal cliché. È la vertigine della durata, una durata immisurabile, che, lungi dall'essere relegata tra due tagli, moltiplicandosi per se stessa, in un attimo di rilassamento o di estrema tensione del profilmico, genera l'incanto impalpabile proprio del cinema di Hou Hsiao-hsien.

Tratto dal romanzo di Han Ziyun, ambientato alla fine del diciannovesimo secolo, Flowers of Shanghai (1998) racconta la vita nelle eleganti case chiuse di Shanghai, universo a parte, regolato da dinamiche e codici comportamentali propri, che sarebbe collassato nel 1911, con la caduta della Dinastia Qing e la nascita della Repubblica Cinese. Il film è interamente girato in pianosequenza e in interni: protagonista è, più che l'ambiente, l'azione descrittiva dell'ambiente. Se un tempo il regista lasciava che i personaggi scartassero lateralmente, per rientrare e rifuggire dal lato opposto dell'inquadratura fissa (come nella rissa al mercato di I ragazzi di Feng-Kuei, girato nel 1983), adesso la steadycam fluttua, assecondando anche i minimi trasalimenti dei personaggi. Questa pulsazione indefessa si traduce, per paradosso, in una percezione obiettivamente stabile: non v'è l'assunzione di un punto di vista privilegiato, le ragioni profonde dell'agire, per quanto si deducano limpidamente i vocabolari motivazionali, rimangono inafferrabili. L'iperdinamismo non altera l'atteggiamento interrogativo verso la realtà. Il regista continua a rifiutare qualsiasi psicologismo e, con esso, piani o angolazioni volgarmente esplicativi, di conseguenza costrittivi. "Realistica... è soprattutto l'opacità del reale agli occhi di chi cerca di comprenderlo nella propria visione".

Flowers of Shangai è un film traslucido. La saturazione cromatica viene espansa dalla luce artificiale delle lampade a olio, che, come il lume di candela in Barry Lyndon (1976), infuoca il quadro, che riluce in un onirismo soffuso. I pianisequenza affiorano e si dissolvono in nero, vere e proprie sculture temporali, che non ascendono come le icone di Tarkovskij, ma rimangono in sospensione, tessere di un mosaico emerse da un baratro. In Storie (2000), si riscontra un'analoga insistenza della cinepresa sui corpi per ricreare una durata il più possibile concreta dell'esperienza di cui sono i fedeli vettori, ed un'analoga, a tratti ostile, impossibilità del reale a fornire risposte. Storie è girato in pianisequenza che attaccano e staccano bruscamente sul nero, con un'unica eccezione: il montato di una fiction prorompe imponendo la sua durata convenzionale, ritagliata da campi/controcampi, scavalcamenti, dettagli e tutto l'armamentario del caso: choc percettivo che funge da termometro dell'assuefazione all'immagine mercificata. Anche in Flowers of Shangai vi è un innesto così "finto" e spiazzante da inabissare, sfregiandola, la coerenza linguistica della messinscena: un lampo di soggettiva (spiando da sotto la porta della camera da letto,Wang sorprende Crimson in un contegno ambiguo, probabilmente successivo ad un rendez vous amoroso con l'amante attore, che la donna smentirà) incastonato a recidere un pianosequenza di marcato rilievo drammaturgico – un lampo di pochi secondi, anch'esso incorniciato nel nero e assottigliato da una buia tendina che riproduce l'ombra della porta. È il corto circuito: il come vede del personaggio, invece di decodificare, ribadisce l'imprendibilità del reale, e provoca, pur nella sua apparente subliminalità, uno smottamento temporale che rimodula la durata, esacerbandone la disomogeneità. Alieno alle logiche del consumo, lontano da quelle di un metalinguaggio che miri allo smascheramento dell'apparato riproduttivo, lo sguardo del cineasta si reifica in un gioco-sforzo, gnoseologico e morale, di rifrazione.

Il ritorno alla contemporaneità si consuma in un dislocamento temporale, che opera come distanziamento nostalgico da brani di vita resuscitati, da una prossimità aperta, da parte di un punto di vista che ne limita il decorso. In Flowers of Shangai il passato si presentifica in una messinscena che ne rivela, costantemente, l'attualità. In Millennium Mambo (2001), esatto pendant, il presente si dipana retrospettivamente su tre serie di flashback. Il tempo del ricordo è il futuro: l'io narrante è un'eco dal 2011, la voce over della protagonista che evoca, anticipando gli sviluppi, la sfortunata storia d'amore con Hao-hao, l'amicizia col gangster Jack e la "fuga" con un terzo possibile amore, vissute nel 2001. Il cineasta calcola una struttura temporale che gli garantisce la più selettiva libertà per penetrare nel vissuto di Vicky, strappando gli eventi alla cattività della continuità. Tra la cinepresa e la protagonista si crea un'empatia: i pianisequenza riprendono distanze, angolazioni e movimenti quasi speculari, per marcare la stasi sentimentale e la ripetitività di alcune situazioni; la steady si anima e sussulta con Vicky, per modellare lo spazio circostante come fosse l'emanazione della sua vitalità; il ralenti amplifica l'emozione. Millennium Mambo è l'abbagliante sintesi dell'iconografia urbana messa in forma da Hou. In nessun altra opera, è così forte il senso di dissoluzione, precarietà e sospensione che attanaglia i protagonisti. Discoteche, hostess-bar, appartamenti, saune sono la cornice. Il pudore è una virtù dismessa – per la prima volta, il sesso viene esibito. La techno ubiqua sovente si rilassa in virate melodiche. La mobilità e la vicinanza ai corpi è estrema (l'azione si sposta morbidamente in profondità di campo da un primo piano stretto), mentre le luci artificiali li bagnano e li disegnano con pittorica insistenza. Millennium Mambo è il remake ideale di quel falso movimento di perlustrazione urbana che è La figlia del Nilo (1988), dove Taipei, novella Babilonia, viene messa in quadro nella "tradizionale" staticità, che fissa l'allegoria, ma perde l'informe, caotica essenza. Un remake che ha l'energia di Goodbye South, Goodbye e la raffinatezza di Flowers of Shangai.

Propugnatore di un "cinema impuro", di un cinema capace di interiorizzare e trarre giovamento dalle altre arti, Bazin paragonò il cinematografo a quei fiumi che hanno definitivamente scavato il proprio letto, che possono solo portare al mare le acque, senza riuscire a strappare un granello di sabbia alle loro rive. "Verrà forse il tempo delle risorgive", si augurò prefigurando "un nuovo ciclo di erosione estetica". Dopo la disillusione di un linguaggio ripiegato su stesso, osteggiata dalle simulazioni del cinema d'intrattenimento, attualmente, l'opera di Hou Hsiao-hsien è una delle rare chance per confrontarsi con un'illusione di realtà verace e sfuggente quanto le realtà, sempre più virtuali, che attraversiamo. Dopo le risorgive, la finestra si riapre sul mondo e, simultaneamente, conscia delle sue proprietà riflettenti, ispessendosi ci squadra. Birifrangenza d'un realismo snaturato.

Note
In Città dolente, il cineasta è solito raccordare frontalmente e in orizzontale le inquadrature – magari mosse da movimenti di panoramica strettamente necessari all'azione – di porzioni di spazio contigue, mimando lo spostamento della cinepresa su un carrello ideale, evocando la continuità di un flusso interrotto dalla cesura del montaggio.

Si rinvia sul punto a Y. Huizeng, Il realismo poetico di Hou Xiaoxian, in "Il nuovo cinema taiwanese, Quaderno informativo della XXIV Mostra Internazionale del Nuovo Cinema", Pesaro 1988, pp. 40-49; W. Zhenghan, I due mondi di Hou Xiaoxian, in "Taiwan: nuove ombre elettriche", a cura di M. Müller, Marsilio, Venezia 1988, pp. 151-157; F. Grosoli, Lo sguardo diretto di Hou Xiaoxian, in Speciale Taiwan, "Cineforum" n. 302, marzo 1991, pp. 11-14.

Così afferma Peggy Chiao, in un discorso teso ad evidenziare il tentativo di Hou di plasmare "una dialettica postmoderna che incida la memoria storica con la ri-creazione della memoria" (P. Chiao, Alla ricerca di un'identità taiwanese, in "Taiwan Cinema degli anni '90, Pesaro Film Festival 1998", Il Castoro, Milano 1998, pp. 19-20).

A. Bazin, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione, in "Che cos'è il cinema", Garzanti, Milano 1999, pp. 284-287.

R. Bresson, "Note sul cinematografo", Marsilio, Venezia 1992, p. 76.

A. Bazin, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione, op. cit., pp. 284-287.

Questo contrappunto determina la struttura dell'opera, attraverso la trasformazione operata dal montaggio, proibito quando "l'essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell'azione" (A. Bazin, Montaggio proibito, in "Che cos'è il cinema", op. cit., p. 72).

Tuttavia è sempre una scelta di stile. Il realismo bressoniano rifiuta il pianosequenza, e si esprime attraverso una discorsivizzazione del montaggio tesa a stabilisce una stretta interdipendenza tra inquadrature. Quando Bazin esprime il concetto di "stile senza stile", riguardo al cinema Wyler, non pontifica su una sintassi che assume come paradigmatica, ma racconta uno stile cui va la sua adesione. "Non c'è uno, ma dei realismi", (id. William Wyler o il giansenista della messa in scena, in "Che cosa è il cinema", op. cit., p. 99).

E culmina, al tempo stesso, il simbolismo presente nei film precedenti.

In Good Men, Good Women, sul video della protagonista scorrono alcune inquadrature di uno dei capolavori di Ozu, Tarda primavera (1949).

A queste conclusioni era già pervenuto, ragionando sulla fissità della cinepresa in Le passate cose dell'infanzia (1985), A. Signorelli, in Speciale Taiwan, "Cineforum" n. 302, marzo 1991, pp. 24-25.

Con queste parole A. Piccardi definisce la posizione gnoseologica del maestro taiwanese, e indica, con lungimiranza, la direzione verso cui la sua poetica si sarebbe orientata nel cinema posteriore (A. Piccardi a proposito di I ragazzi di Feng-Kuei, in Speciale Taiwan, "Cineforum" n. 302, marzo 1991, p. 21).

Code inconnu (2000), di M. Haneke.

In entrambi i film lo scenario è Taipei e l'io narrante è la voce over della protagonista, la quale, poco più che adolescente, vive la dissoluzione dei vincoli con gli uomini a cui è sentimentalmente legata.

A. Bazin, "Che cos'è il cinema", op. cit., p. 141. Bazin è morto nel 1958 sul limitare del decennio delle risorgive. De Vincenti ha messo in luce il peso che il pensiero di Bazin ha avuto sul formarsi della Nouvelle Vague francese, in sintonia coi processi di rinnovamento che porteranno al Free Cinema inglese e all'underground statunitense (G. De Vincenti, "Il concetto di modernità nel cinema", Pratiche Editrice, Parma 1993).

Jonny Costantino