Il ruolo della censura nell'Iran pre e post-rivoluzionario

I primi tentativi di censura formale in Iran risalgono già agli anni '20, quando i proprietari delle sale cinematografiche venivano sottoposti alla pressione dei gruppi religiosi preoccupati dall'esposizione del pubblico iraniano alla morale occidentale e all'aperta sessualità esibita nei film importati. Successivamente il compito di stabilire le regole e le linee guida della censura venne delegato alle municipalità locali.

Il RUOLO DELLA CENSURA NELL'IRAN PRE e POST-RIVOLUZIONARIO

 

 

I primi tentativi di censura formale in Iran risalgono già agli anni '20, quando i proprietari delle sale cinematografiche venivano sottoposti alla pressione dei gruppi religiosi preoccupati dall'esposizione del pubblico iraniano alla morale occidentale e all'aperta sessualità esibita nei film importati. Successivamente il compito di stabilire le regole e le linee guida della censura venne delegato alle municipalità locali.

Nel 1950 l'incarico di controllo e censura dei film viene assegnato alla Komisiyun-e nemâyesh (Commissione dello spettacolo), un comitato formato dal capo della polizia, da rappresentanti del Ministero degli Affari Interni e della Cultura, e del Dipartimento delle Pubblicazioni e della Radiodiffusione. La Komisiyun-e nemâyesh redige un documento articolato in 15 punti in cui si individuano gli elementi che impediscono la proiezione di un film. Le pellicole non devono

1.
Contraddire i fondamenti della religione e la diffusione di idee sovversive contro l'Islam e la religione sciita;
2.
Opporsi alla monarchia o mancare di rispetto verso i componenti della famiglia reale;
3.
Rappresentare rivoluzioni politiche di qualunque paese che hanno portato al crollo della monarchia;
4.
Istigare la rivolta e all'opposizione al governo e al regime monarchico del paese;
5.
Diffondere qualsiasi tipo di idee e principi ritenuti illegali dalle leggi;
6.
Raffigurare di ladri, malviventi e assassini i cui crimini siano rimasti impuniti;
7.
Rappresentare di sommosse e rivolte carcerarie vittoriose;
8.
Incitare lavoratori, studenti, agricoltori e altri gruppi sociali ad opporsi all'autorità governativa;
9.
Opporsi a riti, usi e costumi tradizionali del paese;
10.
Rappresentare di scene raccapriccianti e sgradevoli;
11.
Mettere in scena relazioni illecite con donne sposate o raffigurare scene di seduzione di giovani e nudi femminili;
12.
Utilizzare un linguaggio volgare o deridere le parlate regionali;
13.
Mostrare scene di sesso;
14.
Essere contrarie alla morale pubblica, offendere il pudore o mettere in risalto atti di criminalità;
15.

Quando viene creata la Savak (la polizia segreta dello Shâh), a metà degli anni '50, alcuni dei suoi membri saranno aggiunti alla Komisiyun, che nel 1968 passerà sotto la supervisione del Ministero della Cultura e dell'Arte, cambiando nome in Shurâ-ye honarhâ-ye nemâyeshi (Commissione delle arti dello spettacolo). Vengono elaborate alcune nuove regole che si andranno a sommare a quelle sopra elencate, in particolar modo rispetto ai temi di critica contro la monarchia. Tali nuove regole proibiscono la proiezione di alcuni film stranieri ritenuti "rivoluzionari" come La Battaglia di Algeri di Pontecorvo (1965), Z di Costa-Gavras (1969), e "ripuliscono" parti di altri film d'importazione. Per quanto riguarda i film iraniani, negli anni '50 e '60 la censura interessa soprattutto quelli in cui si criticano le condizioni sociali e politiche del paese.

Nei primi anni '70, in conformità con la politica dello Shâh che mira ad avvicinare la morale sociale iraniana a quella dei paesi occidentali, si ha una maggiore permissività nei confronti delle scene di sesso e di nudo (e questo contribuirà alla condanna del cinema da parte dell'âyatollâh Khomeyni e di altre figure religiose). Lo Shâh si sente sicuro della propria politica sociale e permette che si producano alcune pellicole in cui sono trattati – anche in modo apertamente critico – alcuni temi sociali. Ciò non significa che i cineasti sono liberi di affrontare qualsiasi argomento: quello della povertà, ad esempio, rimane però un soggetto molto delicato, perché in contraddizione con la propaganda di progresso sociale fatta dalla monarchia. Per questo Dâriyush Mehrju'i sarà costretto ad aggiungere all'inizio del suo Gâv (La vacca, 1969) una didascalia che data gli avvenimenti del film a 40 anni prima. Altre opere come Marsiye (Requiem, 1974) di Amir Nâderi e Dâyere-ye minâ (Il cerchio celeste, 1974) dello stesso Mehrju'i vengono vietate perché rappresentano disordini sociali o fenomeni di corruzione (non a caso queste pellicole verranno distribuite solo con l'avvento della Repubblica Islamica).

Più in generale, in questi anni, con la nascita del "cinema progressista" si assiste ad un fenomeno d'astrazione formale dei film: per eludere la censura e trattare egualmente temi di carattere sociale, i cineasti sperimentano un linguaggio cinematografico estremamente simbolico. Se da una parte la scelta permette di elaborare percorsi artistici innovativi, dall'altra, tali film divengono appannaggio della sola élite intellettuale locale e dei critici stranieri, restando ben lontani dal vasto pubblico cui in realtà intendono rivolgersi i registi dissidenti con le proprie denunce.

Dopo la Rivoluzione, i nuovi organismi di potere e controllo cercano di guidare il cinema iraniano verso un "nuovo indirizzo culturale", attraverso un cambiamento graduale, finalizzato ad obiettivi e valori islamici. Vengono recuperati molti film stranieri prima proibiti a causa del loro argomento politico, in cui si "correggono" le scene non consone ai dettami islamici, inizialmente sia attraverso tagli sia cambiando alcuni dialoghi in doppiaggio per dare al film tono rivoluzionario o religioso. Successivamente la tendenza sarà quella di non stravolgere eccessivamente le pellicole con tali manipolazioni, ma piuttosto di proiettare film che presentino un interesse comune, o comunque privi di volgarità. Laddove sia impossibile tagliare, si ricorrerà poi alla tecnica del magic marker, annerendo con un pennarello nero le immagini incriminate (spesso corpi femminili).

La censura si fa molto severa, e non di rado i registi vengono chiamati a comparire davanti alla Corte Islamica, accusati di legami con il precedente regime e di corruzione morale. Agli attori e produttori attivi all'epoca dello Shâh in molti casi è proibito lavorare, ed alcuni vengono arrestati. Non mancano i casi di registi che preferiscono abbandonare l'Iran per continuare il proprio lavoro all'estero. Si assiste, in altre parole, ad una situazione di grave stallo e di indecisione produttiva.

Per riorganizzare l'industria cinematografica lo stato crea una serie di istituzioni e di agenzie semi-governative, la più importante delle quali è la Fondazione Cinematografica Fârâbi, istituita nel 1983 sotto la direzione di Mohammad Beheshti (che ricoprirà tale carica fino al 1995). La Fondazione rappresenta il braccio esecutivo del settore cinema del Ministero della Cultura e della Guida Islamica (di cui è nominato presidente, proprio nel 1983, Mohammad Khâtami, l'attuale presidente iraniano), e svolge un ruolo di consulenza per i cineasti, con i quali discute eventuali problemi di sceneggiatura e studia possibili soluzioni a questo riguardo.

Solo dal 1984 le autorità specificano cosa sia permesso e cosa proibito vedere sugli schermi. Fino ad allora rimangono, infatti, valide le norme preesistenti alla Rivoluzione, fatta eccezione per quelle riguardanti i film che mostrano la povertà del paese durante il regno dello Shâh o la rivolta. Era noto che la censura si applicava nell'ambito delle "norme islamiche", ossia che implicava la promozione della morale islamica e l'abolizione di temi che potessero viceversa oltraggiare l'Islam. La critica sociale rimane generalmente confinata al precedente regime. Sia il governo pre-rivoluzioniario che quello post-rivoluzionario mostrano infatti la medesima preoccupazione nel sopprimere o controllare i temi della critica politica e del dissenso sociale, in una continuità che dimostra, se non altro, la ferma consapevolezza del potere comunicativo del cinema e degli altri. Alcuni film, come Sâyehâ-ye boland-e bâd (Le alte ombre del vento, 1978), pellicola dal contenuto fortemente allegorico del regista Bahman Farmânârâ, ad esempio, sono proibiti sia prima che dopo la rivoluzione perché ritenuti "pericolosi" da entrambi i regimi.
Nel 1984 il Ministero della Cultura e della Guida Islamica redige un nuovo "abbecedario" della censura. Sono vietati i film che:

1.
Indeboliscono, contrastano o in qualche modo offendono il principio del monoteismo e le altre norme islamiche;
2.
Offendono direttamente o indirettamente i profeti, gli imam, l'autorità suprema religiosa, il governo o i giureconsulti;
3.
Offendono personalità e valori ritenuti sacri dall'Islam e dalle altre religioni menzionate nella costituzione;
4.
Incoraggiano l'immoralità, la corruzione e la prostituzione;
5.
Incoraggiano o insegnano comportamenti o attività pericolose come per esempio il contrabbando;
6.
Negano l'uguaglianza dei popoli a prescindere dal colore, dalla razza, dalla lingua, dall'etnia e dal credo;
7.
Incoraggiano influenze culturali, politiche ed economiche contrarie alla politica del governo;
8.
Esprimono o lasciano intendere qualunque cosa contraria agli interessi e alla politica del paese che possa essere utilizzata dagli stranieri;
9.
Mostrano scene di violenza e tortura che possano risultare sgradite e travianti;
10.
Danno una visione erronea e distorta di fatti storici e geografici;
11.
Diseducano gli spettatori con scadenti valori artistici;
12.
Negano valori dell'autonomia e dell'indipendenza sociale ed economica.

Dal 1984 al 1997 viene pubblicato quasi ogni anno un manuale di regole sulla produzione, distribuzione e proiezione dei film. Quello del 1996 è molto dettagliato: le donne non possono essere riprese in primo piano, usare trucco, indossare abiti attillati e a colori sgargianti; gli uomini non possono indossare cravatte o maglie a mezza manica a meno che non rappresentino personaggi negativi; non è permessa la musica occidentale, illuminazione intima.

Dopo il 1984 si cerca anche di incoraggiare attraverso agevolazioni economiche la produzione di film locali, anche se rimane pesante il controllo statuale che si esplica attraverso un difficile percorso burocratico che i registi devono affrontare per vedere approvato il proprio film. Il primo passo consiste nel sottoporre al Comitato di Controllo della Sceneggiatura un soggetto. Se questo viene approvato, sarà redatta la sceneggiatura, che deve essere nuovamente sottoposta all'ispezione del Comitato. A questo punto il regista deve ottenere i permessi di produzione (che riguardano anche i membri del cast e della troupe), l'approvazione del lavoro finito e i permessi di proiezione, in cui si specificano le sale in cui sarà programmata la pellicola. Se il film viene bloccato durante il processo, il regista può rivolgersi alla Fondazione Fârâbi per modificare la sceneggiatura in modo da sottoporla nuovamente al comitato.

Nel 1989 proprio la fondazione Fârâbi stabilisce nuovi criteri per l'approvazione delle produzioni. I film finiti vengono classificati secondo categorie che ne valutano contenuto, estetica e aspetti tecnici, tale classificazione stabilisce se il regista debba o meno sottoporre il suo nuovo film a controlli. Così, se un regista ha ottenuto una "C" per il suo precedente film dovrà avere sia l'approvazione del soggetto che della sceneggiatura, se ha ottenuto una "B" gli verrà richiesta solo l'approvazione del soggetto, mentre nel caso abbia ottenuto una "A" non dovrà sottostare ad alcuna approvazione. Questo sistema rimane in uso fino al 1993, quando l'approvazione della sceneggiatura diviene nuovamente obbligatoria per tutti i progetti cinematografici che cerchino un permesso di produzione.

Nel 1997, con l'elezione a presidente di Khâtami, la censura si fa meno pressante. Ma anche se essa sembra aver allentato la presa o ha subito dei cambiamenti, le aspettative ideologiche dei cineasti e la dipendenza della loro carriera dalle agenzie di stato non sono diminuite. In realtà si riscontra una tendenza sempre maggiore all'autocensura poiché, dato l'alto costo di produzione dei film e la grande soggettività nel processo di identificazione e interpretazione delle allusioni politiche e dei diversi soggetti, che può portare poi a ulteriori controlli rigorosi sul lavoro degli artisti sia durante la produzione che durante la programmazione, molti registi preferiscono evitare del tutto temi controversi e sociali sensibili, oppure limitare la presenza femminile all'interno delle pellicole, o ancora prediligere l'impiego di attori bambini. Il tutto, spesso, a scapito del realismo delle storie e della rappresentazione della realtà iraniana.

Note
Natalia L. Tornesello, Il cinema persiano, Roma, Jouvence, 2003, pp. 52-3. Torna all'articolo.

Natalia L. Tornesello, op. cit., pp. 94-5. Torna all'articolo.

Elena Zamborlini