La danza: un'arte totale

La danza in India è essenzialmente teatrale. Danza e teatro sono termini inseparabili in tutto il contesto asiatico: l'attore-danzatore inscena una narrazione mediante l'uso sapiente dei movimenti codificati del proprio corpo. Nonostante i principali stili di danza classica possano essere considerati creazioni relativamente recenti, raccolgono un sapere antico che, nelle intenzioni dei codificatori, andava salvaguardato dalla decadenza dei secoli e restaurato nel suo antico splendore.

LA DANZA: Un'arte totale

 


A chi si avvicini come studioso o semplice spettatore all'arte della danza in India è immediatamente evidente una sua fondamentale peculiarità: essa è essenzialmente teatrale. Danza e teatro sono due termini inseparabili in tutto il contesto asiatico. L'attore-danzatore, con l'ausilio del costume e della musica, inscena una narrazione mediante l'uso sapiente dei movimenti codificati del proprio corpo.

Qui risiede la principale differenza con il teatro occidentale: nella danza indiana, al danzatore non è permesso improvvisare, nel senso che comunemente si dà a questo termine. Egli è depositario di un sapere tramandato nei secoli attraverso l'istituzione della guru (maestro)-shishya (allievo) paramparā (tradizione, discendenza, linea ininterrotta di conoscenza), il metodo di insegnamento nel quale l'allievo risiedeva presso il proprio maestro, onorandolo come un secondo padre. Ciò permetteva all'allievo di apprendere non solo la tecnica della danza, dai passi base alle più complicate coreografie, ma anche nozioni di canto, musica strumentale, mitologia e tutto quell'insieme di precetti e conoscenze di cui solo una stretta convivenza quotidiana può assicurare la trasmissione.

Il concetto di tradizione è importante ancora oggi, nonostante i numerosi mutamenti socio-economici e culturali abbiano portato ad un progressivo abbandono dell'insegnamento tradizionale, sostituito dalle numerosissime scuole di danza e dall'insegnamento universitario. Il richiamo all'antichità dell'istituzione della danza, al recupero della purezza originaria degli stili, al rispetto della tradizione è uno slogan universalmente diffuso.

La re-invenzione della tradizione
Nonostante nella loro forma odierna i principali stili di danza classica indiana (Bharatanātyam [o Bharata Nātyam], Kathākali, Urīsī [o Orissi, Odissi], Kathak, Manipurī, Mohiniyattam [o Mohinī attam], Kuchipudi) possano essere considerati creazioni relativamente recenti (XIX - XX secolo), nelle intenzioni dei loro codificatori essi raccoglievano e rappresentavano un sapere antico che andava salvaguardato dalla progressiva decadenza dei secoli e restaurato nel suo antico splendore. La lotta in favore dell'arte della danza, che rischiava di scomparire durante l'occupazione inglese, annoverò tra i suoi principali sostenitori il poeta Rabindranath Tagore, che dal 1917 incluse alcune danze classiche tra gli insegnamenti della sua scuola per la salvaguardia delle arti tradizionali, fondata a Shantiniketam, nei pressi di Calcutta, e Rukmini Devi, la prima brahmana ad esibirsi pubblicamente danzando, che fondò negli anni quaranta a Madras il Kalākshetra, ancora oggi una delle istituzioni più importanti per lo studio dello stile Bharatanātyam. Il suo fondamentale contributo fu quello di dissociare la danza dalla figura della devadāsī, la prostituta sacra, che per secoli era stata la depositaria di quest'arte e per la cui abolizione la classe borghese hindu si era unanimemente schierata accanto ai puritani inglesi. Rukmini sottolineò il carattere spirituale della danza come atto di devozione alla divinità, purificandola da quanto poteva risultare volgare o sensuale.

Nella loro opera di codificazione degli stili danzatori e studiosi ricorsero alla consultazione di antichi trattati sulla danza e il teatro, tra i quali il Nātyashāstra [o Nātya Shāstra] è sicuramente il più noto, e si ispirarono alle sculture di danza che affollano numerose le pareti dei templi di tutta l'India.

Alle radici del mito
Preoccupati per la situazione degli uomini, afflitti da rabbia, gelosia, odio e lussuria, gli dèi, capeggiati da Indra, si rivolsero un giorno a Brahmā, il Creatore, perché inventasse un divertimento rivolto a tutte le caste. Allora egli "prese la recitazione dal Rigveda, il canto dal Sāmaveda, la mimica dallo Yajurveda e i sentimenti dall'Atharvaveda e così fu creato il Nātyaveda" (Nātyashāstra I, 14-18). Ma dal momento che gli dèi non erano capaci di comprendere quest'opera così voluminosa, Brahmā assegnò al saggio Bharata il compito di riassumerla in una di più agile lettura. Questa è l'origine mitica del Nātyashāstra, il più completo trattato sulle arti teatrali nel senso più ampio del termine, comprendente danza, recitazione, costume, trucco, scenografia, musica, estetica, morfologia, dialettologia, ecc.; un'opera enciclopedica, sicuramente risultato di numerosi contributi, la cui stesura si fa risalire ai secoli II-III d.C., ma che forse fu completata dopo la grande stagione del teatro sanscrito classico del IV secolo d.C.

L'attribuzione di un'origine mitica al proprio oggetto di studio è una prassi comune nella trattatistica indiana classica, ma qui teatro e danza sono affiancati ai Veda, quello straordinario complesso di inni, preghiere, commenti, riflessioni, indicazioni rituali che costituisce la fonte della religiosità e della cultura hindu ortodossa. Ciò comporta un riconoscimento di queste arti come mezzo per raggiungere gli scopi dell'esistenza umana, oltre che come strumento utile al divertimento, purché naturalmente si seguano fedelmente i precetti divini.

Shiva, il sovrano della danza

La figura che riassume il significato spirituale della danza, magistralmente modellata dagli scultori Chola del XII-XIII secolo d.C., è Shiva Natarāja, il Re dei Danzatori, ritratto mentre danza la sua Danza della Beatitudine (ānanda tāndava). Essa rappresenta le cinque attività di Shiva (panchakritya): la mano che tiene il tamburo è simbolo della creazione, la mano sollevata assicura la protezione, dal fuoco che tiene nella terza mano viene la distruzione; la quarta mano, atteggiata come la proboscide di un elefante, indica il piede sollevato che rappresenta il rifugio dell'anima, la beatitudine; il piede che schiaccia il nano, personificazione del male e della falsa illusione (māyā), dona sollievo alle anime.

La danza di Shiva è l'immagine del ritmico crearsi e distruggersi dei mondi, ma è anche la danza che avviene nel cuore del devoto dove l'ignoranza è distrutta e all'anima, liberata da ogni impurità, sono donate la beatitudine e la salvezza.

Shiva Natarāja è oggi il patrono dei danzatori. La presenza della sua icona sul palco, davanti alla quale si depongono offerte e si compiono atti di devozione prima di iniziare a danzare, richiama la funzione originaria della danza nei templi come omaggio alla divinità, preghiera, dono.

La devadāsī
Originariamente le devadāsī, o "schiave del dio", erano fanciulle che, donate al tempio in tenera età, venivano istruite nella danza, nel canto e nella musica strumentale. Importanti quanto i sacerdoti del tempio, esse erano considerate spose della divinità, privilegiate in questo senso, poiché non potevano mai diventare vedove (la condizione più degradante per la donna indiana). Il loro compito era accudire la statua del dio conservata nella parte più interna e sacra del tempio, accompagnarla in processione, danzare davanti ad essa per compiacere la divinità. Le devadāsī si esibivano anche per il sovrano e i membri della sua corte, a cui concedevano i loro favori e da cui ricevevano le donazioni necessarie al mantenimento dei templi. Le relazioni erano esclusive e una devadāsī talvolta rimaneva legata per tutta la vita allo stesso uomo.

Dello splendore e della raffinatezza cui era giunta la danza in epoca medievale ci restano oggi, oltre ai numerosissimi trattati scritti spesso persino da sovrani, a testimonianza dell'alta considerazione attribuita a quest'arte, le sculture nei templi che ritraggono devadāsī o ninfe divine in atto di danzare e che affollano nelle loro pose sensuali e plastiche le pareti di molti templi di tutta l'India. Il più noto è quello di Chidambaram, a sud di Madras (Tamil Nadu), all'interno delle cui torri d'entrata (gopura) sono scolpite tutte le 108 pose fondamentali (karana) elencate dal Nātyashāstra.

Dopo la caduta dei grandi regni medievali e il conseguente declino del mecenatismo, la figura della devadāsī continuò ad essere molto importante per il mantenimento del tempio: la scelta del patrono cadeva possibilmente su brahmani ricchi e istruiti. Negli anni trenta del Novecento ebbe però inizio una campagna per l'abolizione dell'istituzione delle devadāsī, considerata una forma di schiavitù inaccettabile e degradante, che culminò nel 1947 con la proibizione di danzare all'interno del tempio. Ma le devadāsī e i loro guru erano gli unici depositari dell'arte della danza e a loro si rivolsero le nuove generazioni di danzatori non-ereditari, intenzionati a salvaguardare questa forma d'arte, liberandola da ogni associazione con la prostituzione.

Gli stili "classici"

Quando si parla di danze indiane "classiche" ci si riferisce a quegli stili maggiori di danze altamente codificate che fanno riferimento all'antica tradizione delle devadāsī, tramandata oralmente nei secoli e confermata dall'autorità dei trattati.

Alcune caratteristiche accomunano questi stili:

La posizione base del corpo. Il danzatore assume sempre una postura molto distante da quella quotidiana, nella quale l'appoggio dei piedi implica un mutamento radicale dell'equilibrio e uno spostamento del baricentro. Ciò implica anche un cambiamento nel modo di camminare, di muoversi nello spazio, di rimanere immobili. Nel Bharatanātyam, ad esempio, i piedi sono divaricati alla distanza di una spanna circa l'uno dall'altro, le ginocchia piegate, il busto ben eretto e il peso equamente distribuito. Tutti i passi sono eseguiti tenendo le ginocchia flesse. Nello stile Kathākali il corpo poggia sulla parte esterna dei piedi che sono paralleli e molto distanti tra loro, con le ginocchia piegate di conseguenza. Nella danza Urīsī il corpo della danzatrice si arcua nella caratteristica "S" (tribhanga) che passa attraverso la testa, le spalle, le anche.

L'estrema codificazione dei movimenti del corpo. Sono esplorati e fissati tutti i possibili movimenti di testa, braccia, mani, tronco, bacino, gambe, piedi, ma anche occhi, bocca, naso, sopracciglia, dita, per citarne solo alcuni. Di ogni movimento o posizione si dà il significato e l'uso. Potremmo paragonarlo ad una sorta di immenso alfabeto con cui comporre delle parole, delle frasi fino ad arrivare alle più complesse sequenze di danza.

Hasta o mudrā è il termine che indica i movimenti codificati delle mani, prese singolarmente o in coppia. Ogni mudrā ha più significati, a seconda della collocazione nello spazio, in relazione all'espressione del viso e del corpo. Le posizioni delle mudrā sono simili nei diversi stili, variano invece i nomi e gli usi. Bharatanātyam, ad esempio, ha 28 radici di mudrā, Kathākali 24, Urīsī circa 20.

Nritta e nritya. Il teatro-danza indiano si suddivide in due principali categorie, in base alle quali si possono classificare i "numeri" che compongono il repertorio di ciascun stile: la danza pura (nritta), che non veicola alcun significato, nella quale le mudrā hanno un puro valore decorativo e si dà rilievo alla plasticità dei movimenti e al ritmo, e la danza espressiva (nritya), nella quale il danzatore racconta una storia con l'ausilio delle mudrā e delle espressioni del volto, interpretando uno o più personaggi, e che, di regola, è inframmezzata da sequenze di danza pura.

Bharatanātyam
Originario del Tamil Nadu, è ritenuto lo stile più antico. Basato sulle danze delle devadāsī nei templi dell'India meridionale e sui trattati medievali, è una danza solistica, di ispirazione devozionale, altamente stilizzata e tecnicamente sofisticata. Una performance di Bharatanātyam comprende numeri di danza pura (nritta), come alārippu, jatīsvaram e tillānā, e numeri di danza espressiva (nritya), che richiedono alla danzatrice notevoli capacità mimiche, come shabdam, padam e varnam.

Urīsī (Orissi, Odissi)
Originario dello stato dell'Orissa, questo stile deriva dalle antiche danze delle devadāsī, testimoniate dai trattati e dalle sculture di templi famosi, tra cui il tempio di Bhubaneswar e la Sala della Danza (nat mandir) nel tempio del Sole a Konarak. Negli anni cinquanta lo stile fu rivitalizzato facendo riferimento ad antichi manoscritti come l'Abhinayachandrikā (XII-XIII sec. d. C.) e alle sculture nei templi.

La linea del corpo è sinuosa e si focalizza sul tribhanga, ovvero la divisione del corpo in tre parti: testa, busto, bacino. Le mudrā e le espressioni del volto sono simili a quelli del Bharatanātyam. La danza Urīsī si basa sulla devozione popolare a Krishna, considerato l'ottava incarnazione di Vishnu, e sui versi del dramma sanscrito Gīta Govinda che esprimono l'amore e la devozione verso la divinità.

Kathākali
Originario della regione del Kerala, nel sud dell'India, è un vero e proprio dramma-danzato, tradizionalmente eseguito da soli uomini, nel quale i danzatori inscenano episodi tratti dai due grandi poemi epici, Rāmāyana e Mahābhārata, e dai Purāna (raccolte di leggende e miti). I tratti più evidenti riguardano l'elaborato costume, costituito da numerose gonne sovrapposte e alti copricapi, e il complicato trucco facciale nel quale i colori servono a caratterizzare il personaggio.

Gli spettacoli di Kathākali sono tradizionalmente eseguiti all'interno del recinto dei templi, con l'accompagnamento di canto e percussioni, e lo svolgimento di una pièce può durare anche più notti.

Mohiniyattam (Mohinī attam)
Lo stato del Kerala offre un ricco panorama culturale di forme danzate. Mentre Kathākali tradizionalmente è appannaggio maschile, Mohinī attam è una danza solistica eseguita da sole donne. Il nome deriva da un racconto mitologico, secondo il quale il dio Vishnu prese la forma di Mohinī, ninfa celeste, per incantare gli dèi. Questa forma fu creata nel XVIII secolo e si differenzia dalle altre arti performative della regione perché non ha legami col tempio e l'atmosfera religiosa è assente. Per molti aspetti una sorta di ribellione all'austera disciplina di stili come Bharatanātyam e Kathākali, dai quali peraltro trae alcune aspetti, è caratterizzata da un'esplicita sensualità in particolare nell'uso dello sguardo, e da movimenti sinuosi del busto e dei piedi.

Manipurī
Manipur - letteralmente "regione del gioiello" (secondo la leggenda fu fondata quando la dea Pārvatī chiese al consorte Shiva di trovare un luogo nel quale potessero danzare insieme, come Krishna aveva fatto con le pastore o Gopī) - è una regione situata nell'estremo nord-est dell'India, una pittoresca vallata racchiusa da catene montuose, in una condizione di quasi totale isolamento. La danza Manipurī è una delle più ricche forme di danza classica. Considerata una "tradizione vivente", è tutt'oggi eseguita nei templi durante le ricorrenze religiose ed è inestricabilmente legata alla vita degli abitanti della regione.

È uno stile sfaccettato, che spazia dalla più delicata femminilità alla più vigorosa mascolinità, caratterizzato sempre da una grazia dignitosa e estremamente ricco dal punto di vista ritmico e tecnico.

Kathak
Forma originaria del Nord dell'India, inizialmente una danza rituale eseguita nei templi, subì l'influenza persiana e musulmana divenendo intrattenimento popolare nella corte moghul (XVI-XVIII sec.). A differenza degli altri stili, le gambe non sono flesse e le danze si caratterizzano per le numerose piroette e l'intricato gioco ritmico dei piedi, sottolineato dalle grosse cavigliere. I costumi e le temi narrativi, il più ricorrente è quello dell'amore tra Rādhā e Krishna, si ispirano il più delle volte alle miniature moghul.

Kuchipudi
Originario dell'Andhra Pradesh, nacque e fiorì nell'omonimo villaggio nel distretto di Krishna. Fin dalle sue origini, che affondano nel XVI secolo d.C., è uno stile legato al tempio e alle feste religiose annuali della regione. Tradizionalmente eseguiti da soli uomini appartenenti alla casta brahmana, chiamati Bhagavathalu o Kuchipudi, sono drammi danzati, scritti in telugu, nei quali il danzatore pronuncia anche i dialoghi. La performance inizia con una serie di rituali, dopodiché il sūtradhāra, il conduttore, e i musicisti salgono sul palco a presentare il tema dello spettacolo. Ogni personaggio introduce se stesso in scena con una breve composizione danzata e cantata (dharu), che presenta il personaggio e mette in mostra l'abilità del danzatore.

Tra le danze Kuchipudi, la più popolare è la "danza con la brocca" nella quale il danzatore tiene una brocca piena d'acqua sulla testa e danza su un piatto di bronzo.

Bibliografia essenziale
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Carolina Guzman