Appunti sul cinema in Unione Sovietica

Il cinema e la politica in Unione Sovietica: una Storia narrata due volte

In un documento - manifesto del 1922, intitolato NOI, Dziga Vertov, uno dei pionieri del cinema sovietico, scrive a proposito del suo mestiere di regista e degli obbiettivi del cinema nell’ambito dell’Unione Sovietica:

noi portiamo la creatività nel lavoro meccanico,

noi imparentiamo l’uomo alle macchine,

noi formiamo uomini nuovi.

L’uomo nuovo, liberato dalla pesantezza e dalla goffaggine, capace di movimenti leggeri e precisi come quelli delle macchine, sarà il soggetto della nostra macchina da presa.

Esiste quindi, nella poetica di Vertov, un’idea del cinema come portatore di una mutazione, anche fisica, degli uomini: non è soltanto una nuova arte, ma un nuovo modo di interpretare la realtà; e, di conseguenza, il portatore di una realtà nuova.

La poetica di Vertov presenta dei tratti individuali e personali, tuttavia l’idea del cinema come “arte nuova per una nuova realtà” è molto comune nei primi decenni dell’Unione Sovietica. Il cinema, infatti, era tenuto in grande considerazione, come ebbe ad ammettere lo stesso Lenin, quando nel 1922, rivolgendosi ad Anatolij Lunacharskij (commissario del popolo per l’istruzione dal 1917 al 1927, rimosso poi da Stalin nel 1929 dopo una breve parentesi come ambasciatore a Roma), disse: “Il cinema per noi è la più importante di tutte le arti”.

Perchè questo interesse per il cinema, al punto da vederlo, come faceva Vertov, come mezzo ideale di alfabetizzazione rivoluzionaria? Innanzitutto per motivi cronologici: il cinema, inteso come proiezione davanti ad un pubblico pagante, nasce nel 1895, grazie ai fratelli Lumière; ed è quasi contemporaneo all’inizio della carriera di Lenin, e ai suoi primi contatti con il movimento Emancipazione nel lavoro (Osvobozhdenie truda). 

Tuttavia, quella che è considerata una delle prime, elaborate “grammatiche cinematografiche”, il film Nascita di una nazione, di David Ward Griffith, nasce nel 1915; mentre la Rivoluzione Russa scoppia nel 1905, la Rivoluzione di Febbraio, che porta alla caduta del regime zarista, nel 1917, e la Rivoluzione d’Ottobre – diretta contro il Governo Provvisorio di Kerenskij - scoppia il 6 novembre 1917 (24 ottobre secondo il calendario Giuliano). Si può dire quindi che il cinema nasce in contemporanea con una Rivoluzione culturale e sociale, ed essendo il film una sorta di rivoluzione artistica, diventa il linguaggio privilegiato della rivoluzione.

Inoltre, il cinema è anche un mezzo d’intrattenimento di MASSA, e dunque è l’ideale per portare messaggi a grandi quantità di persone. Messaggi che saranno, a seconda del periodo, esaltazione di personaggi famosi, chiavi di interpretazione della realtà in chiave marxista, o fabbricazione di utopie. I formalisti vedevano nel cinema la possibilità di scoprire un linguaggio “vergine”, ancora strutturabile poeticamente, e quindi che si potesse plasmare in contemporanea con la nuova concezione del mondo.

Infine, nel periodo del cinema dei Soviet (dal 1916 al 1934), c’è l’esigenza di utilizzare il cinema come testimonianza lirica della Rivoluzione. Come dichiarò Majakovskij, “in un’epoca rivoluzionaria, quando i costumi non sono ancora fissati, si esige una lirica di slogan, che pungoli la pratica rivoluzionaria, non una registrazione annalistica dei risultati di questa pratica. Negli ultimi tempi poi si è imposto ai futuristi il compito di fornire modelli di epos contemporaneo, ma un epos non protocollare-descrittivo, bensì attivo-tendenzioso, o anche fantastico-utopistico, che dà l’esistenza NON quale è, ma quale inevitabilmente sarà o dovrà essere”.

Esisteva il cinema in Russia prima dello scoppio delle Rivoluzioni? Sì. C’era arrivato direttamente coi fratelli Lumière, nel 1896. Nasceva come attrazione da fiera e si era consolidato in localini nei centri urbani, perlopiù in mano a compagnie francesi, che presentavano un programma di varie pellicole; un po’ di cronaca, qualche breve documentario, incentrato soprattutto su pezzi di folklore russo, e, occasionalmente, una comica. 

Nel 1908 viene prodotto il primo film totalmente russo, Sten’ka Razin, incentrato sul capo cosacco che nel 1670 condusse una rivolta contro lo zar Aleksej I Romanov, celebrato in ballate e poesie come difensore dei deboli e degli oppressi. Il film è caratterizzato da una concezione del cinema come vetrina d’esposizione: una sorta di sfilata di attori di teatro che recitano come su un palconscenico. Ma soprattutto, è un’attrazione da fiera su pellicola: i personaggi compongono quadri viventi, si esibiscono in balletti, senza una reale attenzione per lo sviluppo della trama.

In generale, questa idea dell’esibizione “in sè e per sè”, è molto frequente nel cinema russo presovietico; c’è una grande attenzione all’elemento decorativo, e quindi alle riduzioni di opere preesistenti, letterarie o teatrali. Oltre a questo, il genere più alla moda è il melodramma moderno, incentrato su intrighi ambientati in salotti altoborghesi, che servono sia come mero intrattenimento popolare (come la letteratura romantica a basso costo), sia come ulteriore forma di esibizione, stavolta di un lusso che molti sognavano. Ci sono anche film che riescono a trarre il meglio da tutte queste influenze, come La Dama di Picche (1916) di Jakov Protazanov, che funziona come riduzione cinematografica del racconto di Pushkin, ma riesce anche ad utilizzare in chiave drammatica l’elemento estetico: il rococò parigino viene utilizzato in chiave claustrofobica, con il protagonista che si ritrova imprigionato e schiacciato da mobili, finestre, ed oggetti minacciosi.

Anche Padre Sergio (1918), tratto da Tolstoj (la storia di un principe che abbandona tutto per farsi eremita), è una trasposizione di grande successo, sempre di Protazanov. Nel film viene utilizzata la tecnica del montaggio parallelo che era stata utilizzata da Griffith pochi anni prima; oltre a tutto questo esisteva l’agitka, il film di battaglia (cui partecipò anche lo stesso Majakovskij), di cui però non sono rimaste tracce.

In generale, comunque, il cinema russo delle origini non ha ancora delle caratteristiche proprie e ben distinte. Sarà la rivoluzione a conferirgli molti dei suoi tratti peculiari (il nuovo linguaggio, l’utopia), ma la grammatica che utilizza il cinema russo NON sovietico è quella del cinema americano, da cui attinge a piene mani, tanto che possiamo parlare di americanismo; si impongono le influenze visive del cinema western, del cinema di fantascienza, il comico (personaggi come Charlie Chaplin vengono presi a riferimento, e la loro influenza rimarrà presente anche negli anni successivi). Dopo il 1919, anno della nazionalizzazione dell’industria cinematorgrafica, tutte queste influenze troveranno la loro piena sintesi, insieme al nuovo slancio idealistico della Rivoluzione, in un film che non solo fu un grande successo popolare, ma anche uno dei primi film, visivamente parlando, interamente “russo”: la pellicola Aelita (1924), sempre di Protazanov.

Generalmente, nel cinema sovietico degli inizi si distinguono tre quinquenni: il primo, inaugurato appunto con Aelita, va dal 1924 al 1929. In questi anni il fulcro del cinema sovietico è la poesia e l’epicità, anche a scapito della storia. C’è in pratica un rifiuto diffuso del concetto drammatico “classico”: come avrebbe detto Vertov, “il cinedramma russo-tedesco, grave di visioni e di ricordi d’infanzia, è un’insulsaggine per i nostri occhi”. Sono gli anni delle grandi sperimentazioni di Ejzenshtejn, di Vertov, di Dovzhenko, del cinema di montaggio: i concetti drammatici non vengono elaborati in una storia, vengono fatti intuire, suggeriti allo spettatore da un’alternanza di scene, come in un linguaggio transmentale. Aelita, tuttavia, resta ancora abbastanza legato ad una concezione classica del film: è una “classica” storia di fantascienza, declinata in chiave rivoluzionaria, su una rivolta condotta da un terrestre contro il re del pianeta Marte con l’aiuto della regina Aelita, che si è innamorata di lui. C’è da dire, tuttavia, che il film si può anche leggere in chiave anti-rivoluzionaria: la regina, infatti, appoggia la rivoluzione solo per diventare lei la reggente, e gli stessi “rivoluzionari” in realtà agiscono non su impulsi ideologici, ma umani (scappano su Marte per sfuggire alle mogli). Il film è insomma propagandistico, ma non rivoluzionario in senso stretto. Ad ogni modo, la cosa più interessante sono le scenografie costruttiviste di Aleksandra Ekster, una delle fondatrici dell’Art Deco, che avrebbero influenzato anche Fritz Lang in Metropolis (1927).

Molto più slegati da uno sviluppo drammatico classico-teatrale e finalizzati all’elaborazione di un messaggio attraverso mezzi formali o astratti sarebbero stati Dziga Vertov e Sergej M. Ejzenshtejn. Vertov avrebbe incentrato la sua poetica sul concetto di Kinoglaz, ossia “cineocchio”. Per Vertov, la Rivoluzione aveva svelato il vero ordine del mondo; bisognava perciò cominciare ad osservarlo, e rielaborarlo (persino a livello biologico) attraverso una chiave marxista. L’occhio umano, però, essendo imperfetto, non era in grado di cogliere tutti i sottintesi della realtà; bisognava perciò affidarsi all’occhio della telecamera, finalizzato a diventare l’interprete privilegiato tra il mondo e l’uomo. Nei film di Vertov ci sono moltissime sperimentazioni visive, schermi tagliati a metà, split screen; l’idea di fondo è quella di cogliere la realtà da TUTTI i punti di vista contemporaneamente, e di diventare “onniscienti” grazie all’occhio cinematografico. Vertov avrebbe portato avanti la sua idea fino a propugnare la creazione di sale cinematografiche persino sulle navi, e dare inizio ad una “cinematizzazione” (alfabetizzazione cinematografica). Il progetto Cineocchio avrebbe dovuto fotografare la vita così com’è, lontano dalle “favole-sceneggiature borghesi”; essere un metalinguaggio per lavorare su una materia da tradurre e da riformulare, ma NON da conoscere, perchè già conosciuta.

Ejzenshtejn, a sua volta, aveva formulato l’idea del montaggio delle attrazioni, che troverà uno delle sue massime realizzazioni in La corazzata Potemkin (1925), probabilmente uno dei film più famosi di tutti i tempi. Ejzenshtejn non intendeva catturare la realtà, ma interpretarla secondo un preciso programma estetico. In lui il montaggio ha un valore dialettico: si parte dalla contrapposizione di motivi estetici, dallo scontro di inquadrature che ne creano una nuova (tesi – antitesi – sintesi). Ne La corazzata, gli stivali dei soldati (verticali) entrano in contrasto con la scalinata (orizzontale); e quindi risaltano di più, drammaticamente, così come risaltano di più l’alternanza di inquadrature che mostrano le vittime innocenti sulla scalinata contrapposti ai soldati che sparano.

Molti di questi film sono su commissione, come La sesta parte del mondo (1926), finalizzato a creare entusiasmo per la preparazione del piano quinquennale. Ed oltre a Vertov ed Ejzenshtejn va ricordato Pudovkin, con film come La fine di San Pietroburgo (1927), girato per festeggiare l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, dove l’educazione rivoluzionaria viene calata ad un livello umano (il protagonista, che vediamo diventare via via sempre più consapevole del suo ruolo sociale, è ritratto come fallibile), e dove – soprattutto – la vera protagonista è la città, liricamente spogliata e poi rivestita di significati man mano che la rivolta avanza: un “canto” di ribellione, ma NON un grido.

L’apice delle sperimentazioni è forse L’uomo con la macchina da presa, sempre di Vertov (1929). Dopodichè, inizia il secondo quinquennio del primo cinema sovietico, fino al 1934. Questi anni sono contraddistinti da una sorta di “ritorno all’ordine”; viene cioè ricominciata una discussione sulla possibilità di riprendere strutture più simili a quelle del dramma teatrale tradizionale. Ejzenshtejn in seguito avrebbe guardato criticamente a questo – forse necessario – ripensamento, sostenendo che era andato perduto il patrimonio di forme e di principi che era stato alla base del primo cinema sovietico.

Non sarebbero comunque mancate opere importanti, come quelle di Dovzhenko, ad esempio La terra (1930), un dramma epico sulla collettivizzazione delle terre, in cui gli intrighi dei proprietari terrieri riescono a condurre alla morte il capopopolo Vassilij, ma non a piegare la volontà dei contadini. Nel film gli intenti propagandistici vengono assorbiti dalla poesia della natura del regista: tutti i fenomeni sociali vengono riassorbiti in cicli naturali, nell’alternanza della vita e della morte.

Molto di tutto questo sarebbe però finito con Ciapaiev (1934), che segna l’inizio del declino per le sperimentazioni visive dei grandi maestri del cinema sovietico, e che dà inizio ad un terzo quinquennio a cui seguiranno pochissime pellicole degne di nota fino alla morte di Stalin nel 1953. Il film, incentrato sulla figura storica del partigiano Ciapaiev che nel 1919 muore eroicamente mentre cerca di unirsi all’Armata Rossa, è il campione indiscusso del realismo socialista, ossia del cinema educativo e militante, che celebra i grandi eroi del socialismo secondo i dettami del regime stalinista, a partire da quando, nel 1935, ogni sperimentazione viene marchiata come formalista. Tutti i concetti della storia sono manichei, e tutto si risolve in maniera accomodante, sullo sfondo di un ottimismo ingenuo quanto contrario a qualsiasi tendenza individualista.

Negli anni successivi, la società russa sarebbe stata contraddistinta da un’allegria forzata, finalizzata da un lato a ribadire la fiducia nella bontà dello stato sovietico, e dall’altra ad impedire che ci fossero critiche o anche solo prese di posizioni individuali. Film come La corazzata Potemkin erano profetiche di un mondo più bello e perfetto che sarebbe inevitabilmente seguito; a partire dal 1934, almeno secondo la parola del partito, l’utopia è stata finalmente raggiunta, il mondo è davvero “diventato più bello” (come dice un articolo dell’epoca, a firma Genin). Vengono progettati monumenti titanici che non sarebbero mai stati costruiti (come il celebre palazzo dei Soviet), tutto è finalizzato alla creazione di una realtà “laccata”, dove il fatto che certe cose non esistano fisicamente non impedisce ai dirigenti di partito di imporre alla gente di credere che esistano.

Anche al cinema questa cosa è evidente. Cominciano a diffondersi i musical, in cui le immagini, l’esibizione dei lussi, le parate, si fanno portatori di un significato a sè stante; non vogliono comunicare nessun ragionamento, nessuna riflessione al di fuori di quell’allegria che è un pensiero unico e sufficiente. 

Cirk (1936), di Grigorij Aleksandrov, è una delle commedie musicali più famose dell’epoca. Fu ispirato dalla commedia teatrale Pod kupolom cirka, della coppia Il’f e Petrov. Il concetto chiave era la fratellanza di tutti i popoli riuniti nell’Unione Sovietica, che combattono il razzismo (caratteristica tipica della società americana), accolgono fra le loro braccia una “cenerentola” americana, Ljubov’ Orlova, e si riuniscono alla fine in un coro di amicizia e di uguaglianza (anche se, dopo le campagne antisemitiche di Stalin, dal 1948 al 1953, vennero tagliati dei versi in Yiddish cantati dall’attore Solomon Mikhoels – poi vittima di un omicidio di stato ordinato dallo stesso Stalin).  Il film illustra quello che propugnava la propaganda dell’epoca: la scoperta del paradiso in terra da parte di una miscredente, e addirittura l’ostentazione della possibilità di un paradiso al di fuori della terra, nello spazio (il volo sulla luna della protagonista). In questi anni, la passione del volo dilagava in Unione Sovietica: gli aviatori e i piloti erano gli eroi privilegiati di Stalin, come i tre aviatori che avrebbero compiuto nel 1937 il volo Mosca – Polo Nord – Stati Uniti senza scalo.

Emblema del film è la canzone finale, Shiroka strana moja rodnaja, di Lebedev-Kumach e Dunaevskij, dedicata alla Costituzione di Stalin, talmente popolare che nel 1939 diventerà la sigla della stazione di Radio Mosca e il carillon del Cremlino. La canzone, che parla di un paese libero, senza confini, è una sorta di inno all’omologazione; elimina qualsiasi radicale diversità etnica, e livella ogni identità su un territorio ampio ma comunque controllato, stretto nei confini logici e ragionati del regime. Tutto è perfetto, tutto è bello e possiamo raggiungere anche la luna (e pazienza se è solo di cartapesta).

 

di Davide Giurlando