Guerra in Sudan: Ciampini e la missione archeologica di Ca’ Foscari

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Ripresa aerea del Palazzo di Natakamani. Credits: Italian Archaeological Mission in Sudan - Jebel Barkal

Da metà aprile in Sudan sono in corso violenti scontri tra esercito governativo e milizie paramilitari che hanno sospeso il processo di transizione verso la nascita di un governo civile. La popolazione si nasconde o fugge nei paesi vicini e i cittadini stranieri sono stati messi in salvo. Sulla stampa internazionale le Nazioni Unite hanno sottolineato il rischio di un ‘disastro umanitario colossale’.  Gli scontri si concentrano soprattutto tra la capitale Khartoum e il sud del paese, le ambasciate e le università sono chiuse.

La missione archeologica italiana a Jebel Barkal, nel Nord del Sudan, è diretta dal 2011 da Emanuele Marcello Ciampini, professore di Egittologia all’Università Ca’ Foscari, che interverrà durante la prima edizione della Giornata dell’Archeologia Italiana all’Estero in Campidoglio.  “Credo che in questi momenti si capisca la necessità di fare ricerca e, soprattutto, di mantenere un legame con quel passato che proprio in questi drammatici momenti è a rischio - ha sottolineato Ciampini, parlando dell’attività di Ricerca archeologica che l’Italia conduce da oltre 50 anni nel Paese. - La distruzione delle testimonianze (volontaria o involontaria che sia) rischia infatti di cancellare legami con la propria memoria”.

Ciampini è stato invitato a questa prestigiosa giornata organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale per dare riconoscimento e riscontro alla pluridecennale eccellenza del lavoro degli archeologi italiani in tutto il mondo, e interverrà in una tavola rotonda dedicata all’Egittologia e all’Archeologia della Nubia. Alla Giornata prenderanno parte anche la professoressa Elena Rova e il professor Luca Maria Olivieri.

Con il professor Ciampini abbiamo approfondito la situazione attuale del Paese, e in particolare l’attività di Ricerca guidata da Ca’ Foscari che rimarrà incerta per il 2023.

Professore, dalle sue fonti com’è la situazione in Sudan adesso?

Siamo in una fase di stallo, c’è una guerra in atto, un grande stato di insicurezza soprattutto nella capitale Khartoum, e nelle zone più a Sud e nel Darfur, già instabili in passato. L’area in cui scava la nostra missione risulta al momento relativamente tranquilla, anche se di certo non si può programmare alcun intervento in tempi brevi. La situazione a Jebel Barkal riflette la lontananza del sito dai principali scenari del conflitto; scaviamo a nord, a 400 km da Khartoum. Mi auguro che appena la situazione sarà un po’ più stabile, potremo riprendere i contatti con le autorità locali e con la nostra rappresentanza diplomatica, non appena l’Ambasciata d’Italia a Khartoum, ora chiusa, tornerà a essere operativa; temo però che sia difficile ipotizzare una nuova missione regolare nel corso dell’autunno.

C’è un forte rischio umanitario, la capitale è inaccessibile, le università chiuse. Questa situazione lede anche la ricerca. Vede questo blocco come un diritto violato?

Più che un diritto violato, io credo che questo blocco paralizzi uno degli obiettivi del nostro lavoro, che prevede la sensibilizzazione delle comunità locali. Facendo attività di formazione e disseminazione, parallela a quelle di scavo, contribuiamo alla presa di coscienza da parte delle comunità locali della propria storia, e di conseguenza a dare un senso concreto al concetto di appartenenza. Emerge, quindi, il profilo di una missione archeologica come rappresentante di una diplomazia culturale, che vuole essere non solo ricerca ma anche un modo per creare connessioni con le comunità locali, occasione per renderle consapevoli della loro tradizione e del loro passato.

In questo senso, un’attività apprezzata e collegata al finanziamento straordinario ricevuto dal MAECI per il recente allestimento del museo di Karima è stata quella fatta con le scuole della regione vicino agli scavi. Una nostra assegnista, accompagnata da un ispettore governativo del Sudan che traduceva in arabo i suoi interventi, ha raccontato cosa fa un archeologo, cosa si cerca e come, e ha raccontato la storia dei reperti e degli scavi che i bambini hanno vicino alle loro case. È stato realizzato anche un fumetto in inglese e arabo, distribuito sia nelle scuole che al museo.

Quando è stato l’ultima volta in Sudan?

La nostra ultima missione si è svolta nel novembre 2022 dopo due anni di fermo: prima il Covid e, nel 2021, il colpo di stato. Lo scorso novembre si è dato inizio ad un intervento  di restauro nell’area del sito che promette sviluppi interessanti: da una parte la salvaguardia delle antichità e dall’altra la loro valorizzazione per renderle fruibili ai visitatori. Si è trattato di un intervento richiesto dall’Unesco, dopo una ricognizione dell’area, che rientra tra quelli di interesse mondiale. Questa attività ha dato nuova linfa al lavoro della missione: l’intervento di fruizione è stato indirizzato non solo ai visitatori, per i quali era stata già realizzata una guida cartacea, ma anche alle comunità locali con attività di formazione.
Lo scavo è stato più volte in passato opportunità di formazione teorica e pratica per giovani studentesse e studenti universitari sudanesi sia di archeologia che di antropologia fisica.

A che punto sono gli scavi di Jebel Barkal?

A novembre abbiamo lavorato sul restauro del grande palazzo reale che necessitava di interventi mirati; a questo lavoro si è agganciata una serie di sondaggi allo scopo di mettere in evidenza da una parte le caratteristiche del terreno, operazione mai fatta fino ad ora, e dall’altra per aprire una nuova area di indagine in un settore dove si vedevano affiorare sul terreno elementi architettonici in pietra. I sondaggi qui condotti hanno restituito le prime evidenze di un edificio monumentale che ha un fronte almeno di 30 mt sul lato sud, e la cui estensione interna non è al momento definibile. Siamo abbastanza incuriositi dal vedere cos’è, perché alcuni frammenti superstiti riportano delle decorazioni pittoriche vivaci con tecniche che richiamano molto dei modelli di ambiente mediterraneo-ellenistico. Sappiamo che il regno di Meroe è stato un’area ricettiva di apporti dal nord (di ambito faraonico ed ellenistico) e che l’Africa era permeabile al modello del Mediterraneo. Potremmo allora dire che l’Hic sunt Leones iniziava più a Sud, e che quello di Meroe era un regno di leoni che parlavano anche un po’ di greco.

La missione archeologica a Jebel Barkal opera sul sito tutti gli anni. L’area data in concessione alla Missione italiana ha una notevole estensione ed è stata finora investigata in modo sistematico solo per una percentuale non molto alta, forse poco più del 15%. È una missione che lavora da più di 50 anni, ma ci sono stati dei periodi con interventi un po’ a spot; solo negli ultimi anni si è cercato di sfruttare al massimo un tempo che si aggira intorno alle 4/5 settimane per ogni missione.

Il Palazzo Regale di Natakamani visto da nord. Credits: Italian Archaeological Mission in Sudan - Jebel Barkal

Quando conta di tornare?

Al momento non stiamo pianificando una nuova missione, per poter tornare bisogna che ci siano le condizioni di sicurezza e incolumità. La situazione attuale in Sudan non è un fatto improvviso, ma è la conseguenza di uno stato di tensione che era già nell’aria. Quando sarà possibile, cercheremo di fare il punto dello stato del sito archeologico, del museo di Karima e del magazzino, dove conserviamo i reperti e le attrezzature. Siamo in contatto con una professoressa di archeologia dell’università di Khartoum, con cui vorremmo formalizzare un accordo di scambio docenti e studenti, e le notizie che ci ha dato all’inizio del conflitto ci hanno tranquillizzato. L’Università è però chiusa, muoversi per Khartoum non è una cosa facile di questi tempi.

Sara Moscatelli