Clima, ecco la spiegazione scientifica al gelo dei dipinti fiamminghi

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Tra Cinque e Settecento Europa e Nord America vissero un periodo relativamente freddo. Si trattò di una Piccola Era Glaciale (PEG), entrata nell’immaginario collettivo grazie ai paesaggi campestri innevati ritratti in molti famosi dipinti fiamminghi a partire dall’epoca rinascimentale.

Quelle scene di vita quotidiana dipinte sono coerenti con quanto gli scienziati hanno ricostruito basandosi sui dati: durante la Piccola Era Glaciale Europea l’abbassamento anomalo delle temperature fu molto più accentuato nel periodo invernale che in quello estivo, pur anormalmente freddo rispetto ai secoli precedenti.

Quello che né i pittori né gli scienziati erano finora riusciti a spiegare erano le ragioni di tale differenza nelle anomalie stagionali. Un team di studiosi internazionali ha scoperto il meccanismo che rese più rigidi gli inverni di quel periodo: un blocco della circolazione oceanica di larga scala nel Nord Atlantico sub-polare. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista scientifica Scientific Reports.

Analogamente agli inverni molto freddi che, per fortuna eccezionalmente, sperimentiamo oggigiorno alle nostre latitudini, gli inverni durante la PEG furono tipicamente caratterizzati da sistemi persistenti di alte pressioni sopra la regione Scandinava.

Tali sistemi sono associati a fenomeni di blocco atmosferico che, da un lato, trasportano masse d’aria fredde dalla Russia occidentale verso il centro Europa, dall’altro “bloccano” l’avanzata verso est dei sistemi di bassa pressione che trasportano masse d’aria umide e relativamente calde dall’Atlantico all’Europa occidentale. Lo studio chiarisce come queste situazioni meteorologiche abbiano potuto essere quelle prevalenti in un periodo di oltre due secoli.

Il lavoro è il risultato del progetto di dottorato di Eduardo Moreno-Chamarro, oggi post-doc al Massachusetts Institute of Technology, condotto sotto la supervisione di Johann Jungclaus, ricercatore presso il Max Planck Institute of Meteorology di Amburgo, e di Davide Zanchettin, attualmente post-doc a Ca’ Foscari nel gruppo del professor Angelo Rubino nell’ambito del progetto europeo “PREFACE”. La ricerca si è basata sull'analisi di simulazioni numeriche degli ultimi mille anni di storia climatica.

Queste simulazioni hanno rivelato che gli inverni rigidi durante la Piccola Era Glaciale furono molto probabilmente legati ad un regime di debole circolazione oceanica nella regione del cosiddetto “subpolar gyre”. Il subpolar gyre è un vortice anticiclonico a scala di bacino presente alle latitudini subpolari dell’oceano Nord Atlantico. Regola il trasporto di calore dall’Atlantico ai mari del Nord e all’Oceano Artico.

Il suo indebolimento durante la PEG avrebbe dunque causato un raffreddamento persistente della superficie oceanica alle alte latitudini, favorendo così un’espansione del ghiaccio marino, particolarmente nel Mare di Barents. Questi cambiamenti nella copertura di ghiaccio marino avrebbero modificato gli scambi di calore tra oceano e atmosfera, in maniera più efficace durante l’inverno che in estate, producendo un aumento della frequenza e intensità dei fenomeni di blocco atmosferico.

“C’erano speculazioni precedenti sul ruolo che giocò l’oceano nei cambiamenti di lungo termine legati alla Piccola Era Glaciale - spiega Johann Jungclaus - ma con spiegazioni poco convincenti per lo più legate ad un indebolimento della corrente del Golfo. Il nostro studio indica che la chiave per spiegare quegli inverni rigidi va invece ricercata nei fenomeni atmosferici e oceanici regionali e nei dettagli delle dinamiche locali nella regione dell’Atlantico subpolare. E questo lo si può fare solo utilizzando modelli climatici complessi”.

Gli autori hanno identificato una rapida successione di eruzioni vulcaniche alla fine del XVI secolo come causa naturale più probabile dei cambiamenti. “Queste eruzioni furono molto più deboli rispetto, ad esempio, a quella del Monte Tambora legata al famoso ‘anno senza estate’ nel 1816 - spiega Eduardo Moreno-Chamarro - ma il loro effetto cumulativo è sufficiente per innescare un indebolimento abbastanza repentino del vortice anticiclonico”.

Lo studio, afferma il cafoscarino Davide Zanchettin, ha una rilevanza non solo paleoclimatica: “Il lavoro mette in luce l’importanza del vortice subpolare atlantico per la variabilità climatica in Europa a scala multidecennale e secolare. Questa scoperta ci aiuta a comprendere meglio il clima Europeo odierno e a prevederne l’evoluzione a medio termine”.

Lo studio è parte di una ricerca di collaborazione internazionale tra il Max Planck Institute for Meteorology di Amburgo, l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Università di Giessen.