L'Iran di Mahsa Mohebali. Intervista all'autrice di Tehran Girl

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Ritratto di Mahsa Mohebali del fotografo Dirk Skiba (particolare).

Il Dipartimento di Studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea organizza, insieme al Centro di Studi sul Medio Oriente Contemporaneo, la Giornata di Studi CEM 2020-21 "Ripensare identità e alterità", iniziata il 26 marzo e oggi nel vivo dell'iniziativa (qui il programma). Tra i numerosi ospiti internazionali, vi è anche - martedì 30 marzo - la scrittrice iraniana Mahsa Mohebali, già ospite dell'edizione 2015 di Incroci di Civiltà, il cui nuovo libro, Tehran Girl è da poco stato tradotto per Bompiani da Giacomo Longhi. È proprio grazie all'aiuto di Giacomo Longhi che abbiamo potuto intervistare l'autrice.

Cosa significa per lei essere donna, scrittrice, iraniana?

Un mix impossibile, questa è la prima risposta che mi viene in mente.

Vi racconto un aneddoto. Nella mia vita privata mi sono lasciata due divorzi alle spalle. Al terzo matrimonio ho avuto fortuna e sono felice, ma il punto è un altro. Entrambe le volte il giudice mi ha detto che non avrei mai potuto essere una brava moglie siccome sono una scrittrice. Testuali parole: “Ovvio che se ti metti a scrivere poi tuo marito non vuole più stare con te”.  Eppure il divorzio l’avevo chiesto io!

Ancora la società non vede di buon occhio che una donna faccia la scrittrice.

Mia madre non so quante volte me l’ha detto di accantonare le mie velleità letterarie e trovarmi un lavoro come si deve. Da quando avevo diciassette anni fino a qualche anno fa davo lezioni di piano, oggi riesco a mantenermi facendo la ghostwriter e scrivendo sceneggiature.

L’Iran è il paese dell’apocalisse. Nemmeno noi abbiamo idea di come il sistema faccia a reggere nonostante tutta l’incompetenza, la corruzione, le sanzioni, la tirannia e la stupidità che lo schiacciano.

Siamo il nono paese più ricco del mondo per risorse naturali e una delle popolazioni più povere al mondo. Ci sono senzatetto che dormono nei cimiteri. I dati sulla dipendenza da droghe fanno paura.

Con ottanta milioni di persone, l’Iran ha comprato solo centomila dosi di vaccino e non c’è nessun piano per gestire la pandemia.

Il valore del dollaro è quintuplicato nel giro di un anno. Lo stato sta fallendo. Il costo dei beni di prima necessità come pane, latte, pollame è triplicato o quadruplicato.

Non ho idea di come facciano le famiglie a sbarcare il lunario. Lo stipendio di mio e mio marito basta giusto per metà mese, dopodiché parte il conto alla rovescia.

Non so come possiamo continuare a vivere in questo modo. È un manicomio. L’intero paese è un manicomio. Un manicomio da ottanta milioni di persone.

Se sei una scrittrice vuol dire che hai sbagliato due volte. Già sei una donna, in più scrivi?!

La maggior parte della gente crede che io non viva in Iran perché nella foto del mio profilo non porto il velo. Per ora è come se fossi invisibile. I giornali e le riviste iraniane fanno come se non ci fossi. Forse è davvero così. Quando l’ambiente che ci circonda si comporta come se non esistessimo o fossimo invisibili, piano piano noi stessi sentiamo di svanire. Mi sento come se della ghostwriter fosse rimasto solo il fantasma, mentre si è persa la scrittrice. Un fantasma che si muove tra la gente, guarda, osserva, scrive ma nessuno può vederlo.

In Tehran Girl, Lei parla del genere di donna che raramente diventa protagonista di un romanzo, ma Elham si rivela essere un personaggio complesso e indipendente e Lei stessa ha sottolineato, nelle Sue interviste, che il glamour può essere una forma di resistenza in Iran. Chi sono le femministe di oggi e qual è il suo messaggio per le giovani donne alla ricerca della loro strada nel mondo di oggi, pieno di stimoli contrastanti? 

Capisco che il fatto che le donne iraniane esprimono il loro dissenso indossando vestiti colorati e alla moda o truccandosi in modo vistoso e tingendosi i capelli può spiazzare il pubblico occidentale.

Ma quando lo stato non permette alle donne, dalle impiegate alle dirigenti, di entrare in un ufficio se non con abiti neri o al massimo marroni o blu scuro è naturale che indossare vestiti bianchi, rossi, gialli diventi un modo per rompere tabù e costrizioni. Tingersi i capelli è un atto di protesta. Truccarsi è dissenso.

D’altra parte ci sono anche femministe che criticano questa insistenza eccessiva sull’aspetto esteriore che rischia di trasformare le donne in un oggetto. Comunque sia, in Iran questi due approcci convivono l’uno di fianco all’altro.

Elham, la protagonista di Tehran Girl, vive questo conflitto interiore. È consapevole che il suo corpo rappresenta un capitale, perciò se ne occupa, lo cura, ma sa anche che questo capitale è destinato a deteriorarsi e ciò la spaventa, non lo accetta. D’altra parte non dispone di altre risorse. Senza il suo bellissimo corpo non saprebbe come mantenere se stessa e la famiglia. Non ci si può permettere di filosofeggiare se ci manca il pane di bocca.

Ormai da qualche tempo, Lei pubblica i suoi libri in Afghanistan e li distribuisce personalmente in Iran, dove vive. Chi sono i suoi lettori e le sue lettrici? L’Occidente conosce l’Iran anche attraverso altre voci, come quelle di Azar Nafisi o Marjane Satrapi, che hanno lasciato la patria: come dialogano le vostre narrative dell’Iran? Si rivolgono a interlocutori diversi?

I libri di Azar Nafisi e Majran Satrapi sono basati sulle loro esperienze in Iran durante gli anni Ottanta. Ormai sono passati circa quarant’anni. Qui è il tempo che fa la differenza.

Io vivo in Iran. Il mio romanzo racconta la Tehran del 2017, una città che Nafisi e Satrapi non hanno conosciuto. È normale che ciò che scrivono restituirà un’altra idea della realtà del paese.

Se non vivi più nel tuo paese da decenni – anche in un mondo dove le informazioni viaggiano sempre più veloci – l’idea della sua società diventa sempre meno precisa.

Per quanto riguarda la pubblicazione dei libri, oggi in Iran ci sono due opzioni: prendere un permesso dal ministero della cultura e pubblicare con un editore ufficiale oppure, se non ricevi il permesso, stampare da un tipografo e far circolare il libro sul mercato nero. Sono le cosiddette pubblicazioni underground. 

Attorno ai libri non censurati si sta formando un pubblico sempre più numeroso. Sempre più lettori sono consapevoli che se un libro ha ricevuto il permesso, probabilmente è stato epurato in anticipo. Dunque preferiscono leggere libri che non sono passati dal setaccio della censura, che non sono stati emendati, il cui autore non ha fatto autocensura.

Avrei potuto pubblicare Tehran Girl in Iran con un editore clandestino, ma ho preferito rivolgermi a una casa editrice di un paese vicino con cui condividiamo la lingua e la cultura. Il mio romanzo così viene letto anche in Afghanistan, mentre In Iran chi vuole riesce a procurarselo tramite internet.

Per me è importante che la letteratura non censurata dell’Iran riesca a trovare i suoi lettori, seppure pochi. Non dobbiamo dimenticare la distanza che separa la letteratura persiana non censurata da quella filtrata dalla censura.

Ca’ Foscari ospita molti studenti internazionali, alcuni dei quali vengono proprio dall’Iran. Quale impatto ha secondo lei il loro studio all’estero sulla loro esperienza dell'Iran? Per esempio, influisce sulla dinamica generazionale di cui Lei parla nei suoi romanzi ma che cita anche in molte interviste?

Per me è fondamentale che i giovani iraniani possano studiare e viaggiare all’estero. Per circa vent’anni dopo la rivoluzione, cioè dal 1979 fino al 2000, quasi tutti i paesi del mondo erano inaccessibili agli iraniani. Già ottenere il passaporto era un’impresa. I paesi europei non concedevano il visto. Dopo il 2000 le porte pian piano si sono aperte e ciò ha avuto un impatto estremamente positivo.

I nostri giovani non avevano nessun’idea di come fosse il mondo fuori dall’Iran. Quando sei sempre rinchiuso in una gabbia, ti dimentichi come si fa a volare. Ti dimentichi dei tuoi diritti. Ti dimentichi il diritto alla libertà. Ti dimentichi che puoi avere ambizioni. La possibilità di studiare all’estero per noi ha un valore inestimabile. Ci permette di ricordarci che possiamo spiccare il volo.

Il titolo della sessione cui parteciperà in occasione della giornata di studio del CEM è “Identità e alterità”. Secondo lei, l’identità può essere un insieme unito, oppure può essere soltanto il genere di irrequietezza (temporale, spaziale, interpersonale, tra classi, perfino geologica) che lei esplora tanto approfonditamente nei suoi libri?

A mio parere oggi l’identità non può essere un insieme unito in nessuna parte del mondo. L’identità dell’uomo contemporaneo è fluida, irrequieta, inspiegabile, frammentata e sfaccettata. In particolare voglio porre l’accento sulla fluidità. Come si può avere un’identità monolitica quando si vive in una società dove fuori casa bisogna velarsi, mentre dentro casa e alle feste si sta in abiti succinti, dove fuori casa si prega e dentro casa si beve vino? Già da piccoli gli iraniani capiscono da soli che se qualcuno chiede loro cosa fanno a casa mamma e papà, bisogna rispondere con una bugia. Non si deve dire che bevono alcolici. Non si deve dire che ballano alle feste. Così un bambino non appena prende coscienza della sua esistenza capisce anche di avere due identità opposte. Cosa ci si può aspettare da una popolazione cresciuta così?

Col tempo questa nostra identità diventa sempre più ingombrante. Da giovani ciascuno di noi dispone almeno di quattro o cinque personalità diverse a seconda dell’ambiente in cui si trova. Arrivati alla mezza età, siamo un cammello-mucca-leopardo composto da quaranta pezzi tra gli archetipi della nostra madrepatria, i tic del mondo moderno, le idiosincrasie di un governo oscurantista, le possibilità che offrono i social network e chi più ne ha ne metta! Un’identità indecifrabile, che non riusciamo a spiegare nemmeno a noi stessi.

Rachele Svetlana Bassan