25 novembre, contro la violenza sulle donne: eventi, ricerca e iniziative

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'Posto occupato' e 'Noi ci siamo'

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Ca’ Foscari aderisce alla campagna di sensibilizzazione “Posto occupato”. L’iniziativa prevede l’occupazione simbolica di un posto a sedere nell’androne di Ca’ Foscari per ricordare tutte le donne vittime di violenza, con un paio di scarpe rosse e un cappello.

Ca' Foscari aderisce anche alla campagna 'Noi ci siamo' promossa dal Centro Antiviolenza del Comune di Venezia che ha l'obiettivo di diffondere i contatti del Centro attraverso degli adesivi affissi nei servizi igienici in alcune delle sedi dell'Ateneo


Lo studio per lo European Equality Law Network commissionato dalla Commissione europea a Sara De Vido e Lorena Sosa

Ogni giorno, ogni ora, in tutta Europa, le donne subiscono molteplici forme di violenza che provocano ferite sul corpo e segni indelebili sulla psiche; è una violenza che mette a tacere le donne, le uccide, le cancella dal mondo digitale. I discorsi d’odio contro le donne in quanto donne sono sempre esistiti, ma oggi viaggiano pericolosamente sul web: pochi click per distruggere una vita. La violenza domestica e i femminicidi riempiono le pagine dei giornali e suscitano sgomento, ma siamo davvero consapevoli che questa violenza è culturale, radicata nelle società, che è una forma di discriminazione basata sul genere?

Sara De Vido è docente di diritto internazionale a Ca' Foscari, co-fondatrice del Women in international law network del Manchester international law centre (UK): “la violenza, soprattutto quella domestica, è in genere condannata, ma non possiamo dire che sia altrettanto ampiamente punita. Lo stigma, unito al timore di non essere ascoltata o creduta, rende le donne riluttanti a denunciare alle autorità la violenza subita. Quando denunciano, le sopravvissute alla violenza cadono talvolta vittime di vittimizzazione secondaria, colpite una seconda volta, attaccate dall’assenza di una cultura sensibile al genere anche in ambito giudiziario. Le statistiche che abbiamo a disposizione in Europa sulla dimensione della violenza di genere nei confronti delle donne sono insufficienti e si focalizzino solo su alcune forme di violenza. I dati mostrano tuttavia chiaramente un preoccupante trend a livello europeo, che è peggiorato durante la pandemia. Già nel 2014, l’Agenzia europea per i diritti fondamentali aveva pubblicato un rapporto in cui dimostrava che una su tre donne in Europa aveva vissuto una qualche forma di attacco fisico e/o sessuale dall’età di 15 anni. Secondo i dati recenti forniti dall’Istituto europeo per la parità di genere, si stima che una su tre donne in Europa abbia vissuto una qualche forma di violenza nel mondo digitale dall’età di 15 anni”.

In Italia, secondo il recentissimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia, 89 donne sono vittime di reati di genere ogni giorno, commessi soprattutto da mariti e compagni, nel 34 per cento dei casi; oppure dagli ex, nel 28 per cento dei casi.

Sara De Vido insieme a Lorena Sosa, dell’Università di Utrecht, ha in pubblicazione uno studio per lo European Equality Law Network commissionato dalla Commissione europea con riferimento alla legislazione penale in materia di violenza di genere contro le donne, inclusa quella definita ICT-facilitated violence, ovvero violenza facilitata dalle tecnologie della comunicazione, di 31 Stati europei (i 27 Stati dell’Unione europea, più Norvegia, Liechtenstein e Islanda). Scarica la versione integrale del report.

Il rapporto si concentra sulle forme di violenza previste dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, adottata dieci anni fa e ratificata a oggi da 34 stati, e la violenza commessa nel mondo digitale, non espressamente prevista dalla Convenzione. 

“Abbiamo verificato un certo attivismo legislativo sul piano penale negli ultimi anni, che spesso tuttavia non è stato accompagnato da misure di attuazione e di protezione adeguate per le donne vittime di violenza. Nei paesi europei, il quadro normativo è solo in parte uniforme. Con riferimento alla ICT-facilitated violence, non contemplata espressamente nella Convenzione di Istanbul, si può affermare che la dimensione digitale non sia stata adeguatamente presa in considerazione nella legislazione interna. Messaggi d’odio diffusi online, immagini private condivise senza il consenso della persona in esse ritratta, messaggi persistenti con minacce di condotte non volute, sono solo alcuni esempi di come si possa utilizzare la tecnologia per perpetrare la violenza. Un solo Stato in Europa ha una definizione specifica di violenza online contro le donne, la Romania, mentre gli altri hanno adottato o una specifica legislazione con riferimento ad alcune forme di violenza facilitata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, o hanno incluso la dimensione online quale circostanza aggravante di reati che vengono comunemente commessi offline. Alcuni comportamenti sono stati recentemente criminalizzati, ad esempio, la diffusione non consensuale di immagini intime, private e/o di natura sessuale, comunemente conosciuto (e incorrettamente definito) come “revenge porn”. Non ha importanza se la donna abbia consentito o meno alla realizzazione dei video o delle immagini, se la diffusione è avvenuta senza consenso l’azione deve essere proibita perché produce un impatto sui diritti delle donne e la loro autonomia. L’uso o la diffusione di immagini intime, private o di natura sessuale ha una dimensione, innegabile, di genere. Gli studi e i dati a disposizione dimostrano che donne e ragazze sono principalmente e in modo sproporzionato colpite da queste forme di violenze, quale proiezione della violenza offline nel mondo digitale. Dall’analisi condotta, solo 11 paesi, inclusa l’Italia, hanno criminalizzato il c.d. revenge porn. 

Quello che è emerso tuttavia è che misure di protezione in risposta a questo reato sono raramente contemplate (ad esempio accesso a case rifugio) e i dati sulla violenza di genere non prendono in considerazione questa dimensione. Riteniamo che la criminalizzazione del comportamento sia essenziale, perché è più forte nell’incoraggiare o persino imporre ai providers di agire, accompagnata da misure quali campagne educative continue che sensibilizzino le persone sui rischi delle nuove tecnologie e del mondo digitale”. 

Le autrici si sono poi focalizzate su un altro grande fenomeno digitale: il discorso d’odio sulla base del sesso e/o genere. La misoginia che corre sul web mira a denigrare il corpo delle donne (body shaming) ma sempre di più anche la loro competenza e professionalità.

“E’ una violenza che colpisce donne e ragazze in ogni paese al mondo, dalle politiche alle giornaliste, dalle accademiche alle donne che vogliono condividere un’opinione o un pensiero sul web. Il dibattito e il successivo affossamento del Ddl Zan hanno dimostrato la miopia di un paese che, a differenza di altri paesi europei, non vuole vedere che i discorsi d’odio sulla base del genere, identità di genere, orientamento sessuale costituiscono una violazione dei diritti umani fondamentali. I discorsi d’odio sessisti colpiscono le donne in quanto donne. Dovrebbero essere previsti dalla legge come reati. E in Italia non lo sono. Il nostro studio ha mostrato che, in realtà, la criminalizzazione del discorso d’odio sulla base dell’orientamento sessuale e/o identità di genere è piuttosto diffusa in Europa (23 paesi dei 31 esaminati), contro i soli 14 Stati che hanno esplicitamente riconosciuto il sesso e/o il genere come motivo alla base del discorso d’odio. Questo dato dovrebbe far riflettere ampiamente”. 

Ma cosa ostacola ancora il contrasto della violenza di genere contro le donne? Cosa impedisce ad alcuni Stati di prevedere e perseguire prontamente taluni comportamenti criminosi? “Da un lato esistono stereotipi di genere persistenti e discriminazioni strutturali difficili da eliminare. Dall’altro lato, vi è una certa resistenza sul piano politico. Negli ultimi anni ci sono state numerose campagne anti-gender, che hanno messo in discussione progetti volti alla parità di genere. Questo accade anche in Europa, nonostante la parità di genere sia promossa a più livelli, incluso in seno all’Unione europea. Le resistenze alla Convenzione di Istanbul ne sono una dimostrazione. L’adozione della Convenzione dieci anni fa, che si aggiunge alla ormai veterana convenzione interamericana sulla violenza contro le donne (1994) e al protocollo sui diritti delle donne in Africa (2003), sembrava essere una questione semplice. Del resto, il contrasto alla violenza contro le donne è sempre stato parte dell’agenda politica degli Stati. Eppure, i negoziati per la Convenzione di Istanbul sono stati complessi; recentemente, poi, gli Stati parte hanno approfittato della situazione politica interna per denunciare la convenzione (la Turchia è il chiaro esempio) o minacciare di farlo.

La parità di genere è un valore comune in Europa, incluso nei trattati dell’Unione europea e nel diritto del Consiglio d’Europa. Pertanto, parlare di violenza di genere contro le donne e di misure di contrasto -e ciò dovrebbe essere fatto sempre e non solo a seguito di un femminicidio o il 25 novembre di ogni anno - sembra imprescindibile”. 


Eventi del 25 novembre

I dieci anni della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa
Ore 9.30, Aula Magna Silvio Trentin, Ca' Dolfin, Dorsoduro 3825/E
Si può partecipare in presenza (posti limitati) oppure online

Il tempo delle donne? Un tempo per tutti
Ore 10 (prosegue anche venerdì 26), Aula Baratto, Ca' Foscari - Dorsoduro 3246
in collaborazione con Fondazione di Venezia

Federica Scotellaro