Valeria Finocchi, da Ca' Foscari alla direzione di Palazzo Grimani

condividi
condividi

La nuova direttrice del museo di Palazzo Grimani è Valeria Finocchi, giovane funzionaria storica dell’arte e alumna di Ca’ Foscari. “L’aspetto più entusiasmante di questa nomina – ci ha raccontato - non è il titolo, ma è avere lo spazio, l’occasione e gli strumenti per mettere in pratica tutti gli studi che ho fatto io stessa nel corso degli anni, e quelli di persone valide, giovani, con le quali è un onore lavorare e confrontarmi. A Ca’ Foscari sono grata per tutte le esperienze, curricolari ed extracurricolari, che mi ha permesso di fare”.

Romana, classe 1982, dopo la laurea in Conservazione dei beni culturali all’Università RomaTre, Finocchi si è iscritta alla specialistica in Storia dell’Arte a Ca’ Foscari, dove ha poi concluso il dottorato, sempre in Storia dell’Arte. Si è occupata di museologia, storia del collezionismo, multimedialità e metodo di fruizione dell’opera d’arte nei contesti espositivi. Grazie al titolo di dottore di ricerca ha potuto partecipare al concorso del Ministero per i Beni e le Attività culturali e del turismo (oggi Ministero della Cultura) nel 2017, che ha vinto per poi essere assegnata all’allora Polo museale del Veneto e, nello specifico, al Museo di Palazzo Grimani, dove si è occupata della gestione e cura delle collezioni e del patrimonio custodito e dei Servizi Educativi. Recentemente ha sostituito Daniele Ferrara, Direttore regionale Musei Veneto, al vertice del Museo.

Iniziamo dalla tua nuova nomina: qual è la tua idea di museo?

È un luogo in cui si fa cultura, non un ‘white cube’ scollegato da quello che c’è intorno. È importante cercare e valorizzare i legami tra il patrimonio custodito nei musei e la storia. In occasione del Giorno della Memoria, per esempio, Palazzo Grimani ha ospitato gli studenti del Liceo ClassicoMarco Polo per un laboratorio didattico realizzato in collaborazione con Ca' Foscari, nell'ambito delle iniziative organizzate per il 60° anniversario dalla pubblicazione del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini. È stata l’occasione per diventare uno spazio di rievocazione della Shoah veneziana insieme ai ragazzi e ai professori. Abbiamo collegato alcune pagine dell’opera di Bassani con testimonianze di sopravvissuti veneziani tratte dal volume ​Il banco vuoto. Scuola e leggi razziali 1938-45, cercando di evidenziarne i significati universali​ e le persistenze tra questi e le "storie" del Palazzo stesso.

Sono molto orgogliosa anche di un altro progetto che va nella stessa direzione, “Grimani 1600”, una serie di eventi sia fisici che virtuali in occasione dei 1600 anni di Venezia che abbiamo organizzato per evidenziare i legami tra il Palazzo e la città. Il successo di queste iniziative dimostra che se si trova la chiave giusta, nel virtuale, si genera affezione. E i nostri visitatori sono in crescita soprattutto nella fascia under 25, che è uno dei nostri obiettivi.

Accanto allo studio d’archivio, alla ricerca, e a tutto il lavoro ordinario di gestione museale, secondo me il museo è anche un luogo dove sperimentare e riflettere sulle tematiche legate all’inclusione, e non mi riferisco solo alle barriere architettoniche ma all’accoglienza in senso ampio. Anche abbassare il prezzo dei biglietti, per esempio, è un’iniziativa nell’ottica dell’accessibilità. Ma gli spunti di riflessione e ricerca sono moltissimi e ci sono molti giovani studiosi che stanno portando avanti nelle loro ricerche queste tematiche, dalle quali si può più prescindere.

Per me il privilegio di essere direttrice è proprio quello di avere gli strumenti per mettere in pratica gli studi più interessanti e innovativi. Anche se dobbiamo fare i conti con risorse limitate, perché come museo statale non abbiamo autonomia di bilancio e di conseguenza è più difficile fare una programmazione. D’altra parte essere dipendenti statali ci ha garantito la fortuna enorme di poter continuare il lavoro anche durante la pandemia, al contrario di molti colleghi del settore privato o delle Fondazioni. Questa fortuna porta con sé anche una grande responsabilità, e la spinta a ideare nuovi progetti e utilizzare nuovi canali di comunicazione è stata determinante.

L’ambiente virtuale può sostituire la visita al museo?

Linguaggio e approccio sono cambiati, anche per gli spazi espositivi. Il digitale è un cambio di mentalità. Per realizzarlo servono strumenti specifici, ma oggi sono anche e soprattutto i social che rappresentano l’aspetto più interattivo all’approccio verso il mondo dell’arte e dei musei.

Se si lavora bene sui social, se si trova la chiave giusta e si usano bene le immagini, allora si cattura l’attenzione del pubblico e si sviluppa il desiderio di visita. Mi piacerebbe sviluppare la nostra presenza anche su altri canali, ma per il momento siamo su Facebook, Twitter e Instagram. Sono canali che seguiamo molto attentamente, per i quali collaboro con un bravissimo social media manager.

In questo ambito, come dicevo, ci è stato utile paradossalmente il lockdown. Nei mesi di chiusura i social erano il nostro unico canale di comunicazione verso il mondo. La sfida è quella di proporre contenuti che non siano una semplice ‘traduzione’ per il digitale, ma capire le potenzialità, creare contenuti ad hoc che generino un’affezione verso il museo. Noi abbiamo visto i frutti alla riapertura, in termini di visitatori. Perché poi nessuno strumento può sostituire l’approccio fisico e concreto.

Ti sei occupata a lungo di servizi educativi. Qual è la chiave per avvicinare i più giovani ai beni culturali?

La tutela è propedeutica alla valorizzazione e questo è uno dei motivi per i quali in Italia siamo in ritardo. Abbiamo una quantità di patrimonio culturale enorme, rispetto agli altri Paesi, che necessita prima di tutto di un lavoro importante nella conservazione.

Negli ultimi anni c’è stata comunque un’accelerazione di percorsi formativi volti proprio alla promozione dei beni artistici e culturali. Questo ha immesso nei musei giovani esperti che hanno un approccio aperto e integrato al lavoro. Su scala nazionale le presenze nei musei, di giovani ma non solo, sono in aumento.

Il periodo di Covid ha reso difficile lavorare per i più piccoli, con le scuole. Insieme a tutti i musei veneziani abbiamo organizzato per tre anni una bellissima esperienza di campo estivo, che vorremmo rendere strutturale, per portare al centro dell’attenzione una fascia d’età sacrificata. Questo obiettivo rientra nella politica culturale del direttore Ferrara, volta a rafforzare il legame tra musei e territorio. Le famiglie che entrano in contatto con noi hanno il desiderio di portare i bambini al museo, ma ancora le cose procedono a singhiozzo.

A settembre è partita l’iniziativa di Meduse, sviluppata proprio durante il lockdown dalle istituzioni venete che partecipano agli EduDay, la giornata dedicata alla presentazione dell’offerta formativa per le scuole che si svolge a settembre e che è nata da un’idea di MuVe e Palazzo Grassi. Meduse è un portale che offre una panoramica completa sull’offerta museale per i più giovani, navigabile secondo criteri di ricerca pensati per facilitare il lavoro dei docenti nella ricerca di attività di supporto alla didattica in classe. 

Cosa consigli a chi vorrebbe entrare in questo ambito professionale?

Per prima cosa è importante capire le differenze tra i vari istituti culturali. Ogni tanto ricevo dei curricula e la cosa mi fa molto piacere ma mi fa anche capire che spesso non sono chiari i percorsi di accessi alle diverse posizioni. Da noi, come in tutti gli enti pubblici, si viene infatti assunti dopo un concorso. In ambito statale, poi, hanno peso i titoli e il tipo di formazione. Quindi bisogna capire cosa serve avere per poter intraprendere ciascuna strada.

Io consiglio soprattutto di non sottovalutare nessuna esperienza. Nel mio piccolo questo è stato un punto di forza, insieme a impegno, pazienza e anche un po’ di fortuna. Serve tutto. Ho fatto esperienze da commessa, da tirocinante all’ufficio cultura di una banca, ho collaborato in progetti di ricerca, ho scritto schede delle opere per i cataloghi delle mostre. L’importante è mantenere sempre la propria dignità e non lasciarsi “sfruttare”. Ma questo, i giovani di oggi lo sanno bene.

Dove ti vedi tra 10 anni

Facciamo tra cinque: cinque anni sono un percorso lungo a sufficienza per lavorare bene e io spero di essere ancora qui, come direttrice, e di avere più risorse per portare avanti i progetti. Mi piacerebbe, in futuro, lavorare anche nell’ambito della tutela del territorio, ma i musei sono il luogo che non vorrei mai abbandonare.

Federica Scotellaro