Donne, giovani e mondo del lavoro, a 10 anni dalla Primavera Araba

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Maria Cristina Paciello

Maria Cristina Paciello, ricercatrice al dipartimento di studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari, studia le tematiche della questione del lavoro nel contesto delle riforme neoliberali e in situazioni di conflitto, con focus particolare sulla situazione delle donne e dei giovani dei Paesi arabi. E’ stata – tra le altre cose - coordinatrice scientifica per l’Istituto Affari Internazionali di Roma per i progetti europei MEDRESET e POWER2YOUTH. Ha una lunga esperienza sul campo, in particolare in Egitto, Marocco e Tunisia, ma le sue ricerche indagano l’economia politica di tutti e 22 i Paesi Arabi, compresi quelli del Golfo. Una macroarea dove la strada per la parità di diritti è ancora lunga e dove, in alcuni paesi, alle donne in particolare vengono negati i più elementari diritti civili. La situazione però è molto varia da zona a zona, si va dall’Arabia Saudita, dove le donne hanno ottenuto il diritto di guidare solo nel 2018 e quello di voto nel 2011, al Libano, dove frequentano l’Università insieme ai colleghi maschi e votano già dagli anni ‘50. Lo stesso vale per l’accesso al mondo del lavoro.

Perché queste discrepanze?

Perché l’Islam, la religione musulmana, oltre ad essere oggetto di diverse interpretazioni, non è l’unica variabile che influenza le dinamiche di genere nei paesi arabi, ma si combina con l’economia politica che varia da paese a paese.
Ad esempio, i paesi del Golfo, come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, riportano i più bassi tassi al mondo sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, rispettivamente di 16%, 14% e 12%, diversamente da altri paesi arabi come Marocco e Tunisia, dove il tasso è di 26%.

Questo dato può essere in parte ricondotto ad alcune specificità dell’economia politica dei paesi del Golfo. Sono economie che dipendono prevalentemente dalla rendita petrolifera, che rappresenta il 32% in media del loro PIL, con picchi del 47% per l’Arabia Saudita, ma il settore petrolifero impiega pochissima manodopera. In più sono paesi che dipendono quasi totalmente da lavoratori stranieri, soprattutto asiatici, a basso costo. Circa l’80% della forza lavoro nei paesi del Golfo è importata dall’estero. Ecco perché i paesi del Golfo non hanno bisogno di attingere a manodopera femminile locale.

Inoltre, sono i sei paesi arabi più ricchi, che contribuiscono quasi al 50% del PIL di tutta la regione. Il che ha permesso di finanziare un generoso sistema pubblico di welfare che, riducendo i costi per le famiglie, ha disincentivato l’entrata delle donne nel mercato del lavoro.
Nel settore dei servizi domestici le lavoratrici donne ci sono, ma sono straniere e sottostanno al sistema della kafala, che conferisce poteri assoluti al datore di lavoro, privandole di qualsiasi diritto, incluso quello di ritornare nel paese d’origine. Va detto, comunque, che lo stesso sistema della kafala non può essere ricondotto unicamente a fattori culturali o religiosi, ma risponde al bisogno delle monarchie del Golfo di rafforzare la loro stabilità e sostenere lo sviluppo economico.

A quasi un decennio dalla ‘Primavera Araba’, le rivolte che hanno coinvolto numerosi paesi arabi e alcuni limitrofi rivendicando con forza le libertà individuali e il rispetto dei diritti umani, qual è la condizione delle donne?

E’ peggiorata, ma questo vale sia per le donne che per gli uomini. Assistiamo a tre tendenze principali: il consolidamento degli autoritarismi, l’aumento dei conflitti armati e l’accelerazione delle stesse politiche economiche, come i tagli alla spesa pubblica e le privatizzazioni, responsabili della crisi sociale all’origine delle rivolte arabe.

Naturalmente, le implicazioni di genere di queste tendenze sono differenti. Ad esempio, sono sfociate in una recrudescenza della violenza contro le donne. Sia nei contesti di guerra ma anche sotto regimi autoritari non coinvolti dalla guerra, per i quali la violenza è diventata una strategia per bloccare la partecipazione delle donne alle proteste  e rimandarle a casa. La situazione del lavoro è peggiorata per tutti, ma ha colpito maggiormente le donne.

Nonostante l’indurimento della repressione le donne continuano a mobilitarsi in vari modi, negli spazi pubblici ed in quelli virtuali, sia per la parità dei diritti tra uomini e donne sia per i diritti sociali e politici in generale. In Marocco, per esempio, dal 2007 le donne si battono nel movimento delle Soulaliyate per ottenere il diritto a un indennizzo dallo stato per l’esproprio delle terre collettive vendute ai privati. Nel sud-est del paese, nel villaggio di Imiter, donne e uomini protestano contro la Società metallurgica statale per l’inquinamento causato dalle attività estrattive della miniera d’argento e il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori. In regimi particolarmente repressivi, come l’Arabia Saudita, l’attivismo femminile si manifesta soprattutto attraverso iniziative e campagne online, come quella lanciata dalla trentaduenne Manal al-Sharif nel maggio del 2011 per affermare il diritto delle donne saudite a guidare l’automobile che ha ricevuto un largo sostegno nella regione araba e fuori, spingendo la monarchia saudita a fare proprio recentemente tale concessione.

Ci può fornire alcuni dati aggiornati sul contesto lavorativo femminile?

A livello di media regionale i tassi di partecipazione delle donne arabe al lavoro sono bassi, tra i più bassi del mondo, circa il 20%. Occorre tenere presente che questi dati, come già detto, nascondono differenze tra paesi e si riferiscono al lavoro formale. Le donne arabe – tranne nei paesi del Golfo - sono invece sempre più presenti nell’economia informale, nei lavori precari e senza contratto. Con l’aumento della povertà e la perdita del potere d’acquisto delle famiglie, molte donne sono costrette ad accettare qualsiasi tipo di lavoro.

Il settore pubblico - amministrazione, istruzione, sanità - è quello che registra la maggior parte di impiego femminile. Negli anni ‘50/’60 ci fu una politica molto generosa attuata dai governi arabi, che assunsero nel settore pubblico tutti i diplomati e laureati indipendentemente dal genere. Faceva parte di un modello di sviluppo statalista, durato fino alla metà degli anni’80 quando, in seguito alla fine del boom petrolifero, è stato necessario tagliare la spesa pubblica per via dei debiti accumulati con creditori internazionali. Da allora i governi hanno posto un blocco alle assunzioni e hanno cominciato a licenziare. A farne le spese sono state soprattutto le donne istruite che risultano le più colpite dalla disoccupazione.

In contemporanea, con le liberalizzazioni commerciali e l’apertura agli investimenti stranieri, in alcuni paesi arabi, Marocco, Tunisia, Egitto e Giordania, si assiste ad un aumento progressivo di manodopera femminile in due settori per l’esportazione: il manifatturiero (industria dell’abbigliamento) e l’agribusiness. Donne povere e analfabete lavorano in condizioni durissime e salari bassi, come per esempio nella regione marocchina di Souss Massa, specializzata nella raccolta di fragole e pomodori. In alcune zone rurali, dove a partire dagli anni ’80 la specializzazione nella coltivazione di prodotti destinati al mercato internazionale è andata a discapito della produzione locale, i piccoli contadini - non più competitivi - hanno dovuto vendere le loro terre ed emigrare. Lì sono rimaste attive quasi esclusivamente le donne, quelle che prima lavoravano per le loro famiglie e che adesso per necessità accettano condizioni di lavoro drammatiche per le grandi filiere agroalimentari.

Chi compra i prodotti che vengono realizzati dalle donne arabe? Quali sono i maggiori Paesi di importazione, e a che prezzo?

Tunisia e Marocco esportano il 90% dei prodotti agricoli e dell’abbigliamento verso l’UE. Sono economie profondamente dipendenti dall’Europa. Dagli anni ’80 e poi da metà degli anni ’90, con gli accordi euromediterranei di libero scambio, sempre più imprese manifatturiere europee hanno cominciato a delocalizzare la produzione in questi due paesi. Sia per la vicinanza geografica sia per la manodopera a basso costo, necessaria in un settore che deve essere flessibile, al passo con la moda, e deve produrre beni di media qualità a prezzi bassi.

Le grandi multinazionali europee controllano tutto il processo di produzione e forniscono alle imprese locali di Marocco e Tunisia le materie prime, i filati. Queste imprese locali, che operano nell’economia formale, confezionano i pezzi e li rispediscono in Europa per essere venduti.

Con il passare degli anni, la concorrenza è diventata sempre più forte e per ridurre i costi le imprese locali hanno dovuto subappaltare il lavoro ad altre imprese più piccole, che operano nell’informale e che, a loro volta, trasferiscono parte della lavorazione ad altre microimprese. Man mano che si scende lungo la struttura piramidale, le condizioni di lavoro peggiorano e i salari sono sempre più bassi.

E’ evidente anche nel settore agroalimentare l’asimmetria di potere tra paesi arabi e UE. Marocco e Tunisia possono esportare frutta e verdura verso l’Europa solo da ottobre ad aprile, quando non fanno concorrenza agli agricoltori europei ma soddisfano comunque una tendenza sempre più diffusa di consumare alcuni prodotti in ogni stagione.

Questa operazione richiede un uso intensivo delle serre e molti più lavoratori. I costi di semi, pesticidi e fertilizzanti sono elevati, anche in questo caso la manodopera è l’unica voce su cui si può tagliare. Sono sempre le grandi compagnie europee che controllano tutto il processo e agiscono con un gruppo ristretto di aziende locali, che generalmente fanno capo a grandi proprietari terrieri e godono dell’appoggio politico statale. A queste condizioni, la manodopera è soprattutto femminile.

Lei si è occupata, oltre che di lavoro femminile, delle condizioni di lavoro dei giovani. In Italia, per esempio, il tasso di disoccupazione giovanile – secondo i dati istat 2018 – supera il 30%, quasi il doppio della media europea. Qual è la situazione nei Paesi Arabi?

A livello di media regionale, la percentuale di disoccupazione tra i giovani dai 18 ai 29 anni è la stessa, circa 30%. Tra i giovani uomini istruiti arriva al 23% e tra le donne anche al 48%. Oltre alla disoccupazione, il vero problema è la bassa qualità delle opportunità di lavoro disponibili. I giovani lavorano con contratti temporanei o senza contratto, in lavori sotto-pagati, soprattutto nei settori del turismo e dei call centre, che prediligono manodopera giovane ed istruita a buon mercato, o nel commercio ambulante e di contrabbando. I giovani uomini tendono sempre più ad emigrare, le donne a tornare in casa a svolgere lavori domestici. Anche nei paesi del Golfo, la disoccupazione tra i giovani ha cominciato ad aumentare tanto da spingere i governi a lanciare politiche di nazionalizzazione della forza lavoro volte a sostituire i lavoratori stranieri con quelli nazionali.  

La lettura prevalente individua due fattori come causa della crisi del lavoro che colpisce i giovani nei paesi arabi: sono troppi (il 30% della popolazione) e sono impreparati a soddisfare le esigenze del mercato del lavoro. Sono entrambe spiegazioni parziali, che offrono una lettura decontestualizzata dalle dinamiche economiche e politiche della regione araba degli ultimi trent’anni. Il vero problema risiede in un modello di crescita che è stato incapace di diversificare le economie dei paesi arabi e quindi di assorbire forza lavoro istruita. Le posizioni che si aprono ai giovani infatti richiedono manodopera non qualificata a basso costo e offrono pessime condizioni di lavoro. Una grande responsabilità è quindi delle politiche economiche adottate a partire dalla metà degli anni ’80, che hanno spinto unicamente verso la privatizzazione dei servizi pubblici e l’apertura agli investimenti stranieri. Investimenti che si sono concretizzati, appunto, solo nel settore degli idrocarburi, nell’agribusiness e nel manifatturiero a basso valore aggiunto.

Secondo lei in Europa siamo consumatori consapevoli?

In Europa il consumo responsabile è una tendenza in aumento. Essere consapevoli del legame che c’è tra le nostre scelte di consumatori, gli effetti ambientali e le condizioni di lavoro che sottendono alla produzione dei beni è importante. E’ necessario però un ripensamento profondo dei modelli di produzione e di consumo, delle relazioni commerciali, verso un’attenzione maggiore alle questioni del lavoro, della giustizia ambientale e sociale. Le spinte dal basso e i progetti di ricerca in ambito accademico, che danno voce alle parti più marginali della società, sempre nel rispetto dei parametri di scientificità che la contraddistinguono, sono importanti per avviare una riflessione in tale direzione. Ho fatto parte di progetti di ricerca sui paesi arabi finanziati dall’UE e sono certa che la ricerca possa contribuire ad innescare circoli virtuosi, stimolare politiche più eque.

Ha mai percepito differenze di genere nel mondo accademico?

Nel mio percorso non le ho notate. Ritengo che la questione più urgente da affrontare oggi sia la condizione di precarietà che accomuna molti ricercatori universitari italiani, donne e uomini.  

Federica SCOTELLARO