Letteratura in lutto: addio a Javier Marías, ospite di 'Incroci' nel 2009

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Javier Marías (Amadalvarez, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons)

Lutto nel mondo della letteratura spagnola e internazionale: Javier Marías, 70 anni, si è spento in una clinica di Madrid dove era ricoverato a causa di una polmonite.

Marìas è considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei e si lascia alle spalle un’ampia eredità di romanzi e racconti apprezzati tanto dalla critica quanto dal pubblico. Nato a Madrid da una famiglia di intellettuali anti-franchisti, laureato all'Università Complutense, Marìas esordsce, nel 1971, con Los dominios del lobo. Raggiunge il successo internazionale nel 1992 con Un cuore così bianco, a cui seguono opere come Domani nella battaglia pensa a me, Quando fui mortale, L'uomo sentimentale e l’ultimo Tomas Nevinson. All’attività di scrittore ha affiancato quella di traduttore per autori quali Nabokov, Sterne, Faulkner e Salinger.

Nel 2009 Javier Marías è stato ospite dell’Università Ca’ Foscari, a Venezia, per il Festival internazionale di Letteratura ‘Incroci di Civiltà’. Sul palco del Teatro Malibran – il giorno dopo l'intervento di Salman Rushdie - ha dialogato con Elide Pittarello, docente emerita di Letteratura Spagnola a Ca’ Foscari, sua amica e autrice di numerose pubblicazioni sulla sua opera. Alcune delle conversazioni tra Marías e Pittarello sono raccolte nel libro Voglio essere lento (Passigli, 2010) dove si parla anche dell'Italia, un paese al quale Marías è stato molto legato. 

Javier Marías e Elide Pittarello, Incroci di Civiltà 2009 (Ph. Giovanni Porpora)
Javier Marías e Elide Pittarello, Incroci di Civiltà 2009 (Ph. Giovanni Porpora)

Il professor Enric Bou Maqueda, del Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, ci descrive così lo scrittore spagnolo, proprio a partire dal rapporto con il nostro Paese. 

Professor Bou, qual è stato il rapporto di Marías con l’Italia?

Javier Marías aveva un rapporto speciale con l’Italia e anche con Venezia. Proprio a Venezia ha finito di scrivere quello che a mio avviso è il suo capolavoro massimo, Todas las almas (Tutte le anime), un romanzo ispirato ai due anni vissuti a Oxford insegnando all’Università, una 'campus novel' di ampio respiro che ci permette di capire tutto il suo mondo finzionale. Nel 1979, un anno dopo la pubblicazione di El monarca del tiempo, terzo libro di Javier Marías, una giovane accademica italiana, Elide Pittarello, evidenziava sulla rivista accademica cafoscarina Rassegna Iberistica "l'irruzione dell'imprevisto nella vita quotidiana" e il dominio della realtà esercitata dal pensiero in quella storia. Fu una delle prime recensioni in Europa sull'allora giovane autore e l'inizio di una lunga amicizia.

Come ha dichiarato alcune volte Marías: «Questa è una città [Venezia] che ho incorporato, l’ho sempre presente dentro di me. È come quando sono a Madrid e dico: vorrei andare in un posto e ci vado. Provo questo sentimento anche per Venezia, la sento un po’ mia».

Marías è stato considerato fin dagli esordi uno scrittore di rottura rispetto alla tradizione letteraria spagnola. Cosa l’ha reso così unico, così amato da critica e pubblico? 

Cominciò a scrivere quando prevaleva l'estetica del realismo, predominante in Spagna dal dopoguerra, anche se a partire dagli anni '60 aveva cominciato a essere messo in discussione come paradigma narrativo dominante. Questo realismo intendeva registrare uno specifico momento storico e riflettere la società del suo tempo, che sotto le etichette estetico-ideologiche di "realismo sociale" o "realismo critico" era vista come un veicolo per criticare la dittatura franchista o come un mezzo di denuncia delle condizioni di arretratezza economica e culturale del Paese. Ha rifiutato il modello di romanzo "sperimentale" - che rigettava i postulati del realismo ed era scritto sotto gli auspici del pensiero post-strutturalista - e di nouveau roman. Juan Benet è stato un precursore, amico suo e uno dei modelli di Javier Marías.

A partire dagli anni '90, Marías ottiene un ampio riconoscimento internazionale. Era consapevole dell'implicita libertà del romanzo come genere che gli ha permesso di concepire una modalità di scrittura che ha più volte definito «errante con bussola» o come più volte ha raccontato: «Non so cosa voglio scrivere, né dove voglio andare, né ho un progetto narrativo”, ma la trama, la struttura del romanzo e i temi prendono forma mentre scrive. Questo ha determinato il suo personalissimo stile, che unisce riflessione e racconto, intrigo e pensiero, che prende tempo nella digressione o nella descrizione dettagliata di una scena senza ostacolare lo sviluppo di una storia orientata alla risoluzione di una trama. Javier Marías è stato anche un noto traduttore. Ha tradotto in spagnolo classici inglesi e americani, tra i quali Sterne, Conrad, Stevenson, Wallace Stevens, Faulkner, Ashbery, Auden, Isak Dinesen, Sir Thomas Browne, Hardy e Yeats. Marías aveva fama di “scrittore per scrittori”. Shakespeare è stato un intertesto per molti dei suoi romanzi, e le divagazioni riflessive dei narratori di Javier Marías condividono con quelle dei personaggi shakespeariani qualcosa del modo in cui servono a canalizzare la sfera dell'identità interiore senza presentarla pienamente.

Marías non ha mai scritto un romanzo storico, ma quanto e come la storia politica della Spagna è presente nelle sue opere?

Si è rifiutato di scrivere "un altro romanzo sulla guerra civile spagnola". Forse le sue opinioni politiche - non sempre condivise - erano più presenti nei suoi articoli settimanali sul quotidiano "El País", dove esprimeva forti opinioni critiche con uno stile particolare, quasi lacrimoso.

Cosa ricorda dell’intervento di Marías al Festival internazionale ‘Incroci di Civiltà’, nel 2009, a Venezia? 

Non ho potuto assistere al suo intervento, ma siamo stati insieme con lui e Salman Rushdie durante una cena sul Canal Grande, dove lui ha parlato a lungo con J.M. Coetzee.

Ricordo però molto bene un frammento del libro Venezia, un interno (Javier Marías, Hervé Bordas. Mavida 2012): "Venezia è l'unica città al mondo il cui passato non può essere intravisto o intuito, ma è visibile. O almeno il suo aspetto passato, che non è altro che il suo aspetto attuale. Ma in realtà, la cosa più esaltante e inquietante di tutte è che ciò che si offre allo sguardo del visitatore è anche l'aspetto futuro della città. Vale a dire, non solo —vedendola— si può vedere com'era Venezia cento, duecento e anche cinquecento anni fa, ma anche — vedendola — si può vedere come sarà tra cento duecento e sicuramente altri cinquecento anni. Così come è l'unico luogo abitato al mondo con un passato visibile, è anche l'unico con il suo futuro già spiegato".

Federica Scotellaro