Breve storia del Carnevale di Venezia. Ne parliamo con Gilles Bertrand

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Il prof. Gilles Bertrand, ordinario di storia moderna all’Università Grenoble Alpes e professore associato all’ Università Ca’ Foscari, è uno dei massimi esperti di storia del carnevale di Venezia. Oggi, giovedì grasso, abbiamo colto l’occasione per ripercorrere insieme a lui le tappe di questo antico rito che nei secoli si è pesantemente trasformato.

Le origini

Anche se il carnevale di Venezia appare oggi molto singolare rispetto ai carnevali che si celebrano altrove dall’Europa all’America passando per l’Africa del Sud, molti elementi lo accomunano in origine agli altri carnevali del Vecchio Continente.
Come tutti i carnevali, anche quello di Venezia è nato in corrispondenza con il ciclo delle stagioni e sulla scia di vecchie usanze e pratiche collettive destinate a scongiurare il rigore dell’inverno con un tempo di baldorie, libazioni, giochi e travestimenti. Questi divertimenti avevano vocazione a creare un senso di liberazione attraverso l’inversione provvisoria dei ruoli, sociali e politici, di genere o in relazione alla natura. Già in Mesopotamia nel 2000 avanti Cristo con le « Sacées », o nella Roma antica in occasione dei Saturnali a dicembre e dei Lupercalia a metà febbraio si manifestava il bisogno di una rottura che sfociava nel rovesciamento temporaneo dei ruoli e delle identità.

Ma il carnevale in se è legato alla religione: nel primo editto che ne segnala la comparsa a Venezia nel 1094, e cioè lo stesso anno in cui sarebbe stato ritrovato miracolosamente il corpo di San Marco, il Doge Falier concede il diritto di parteciparvi nei giorni precedenti la Quaresima, o carnis laxatio. Come tanti altri carnevali nelle campagne e nelle città, il carnevale di Venezia subì nei secoli successivi la pressione crescente della Chiesa che attorno al XIII secolo impose un inquadramento preciso entro Natale e la Quaresima, riducendo il carnevale ai pochi giorni prima del Mercoledi delle ceneri. Per quel che ne sappiamo, data la scarsità delle fonti, c’erano allora poche differenze tra il carnevale di Venezia e quelli di Montpellier, Barcellona, Siviglia, Firenze, Roma o Napoli.

Però a partire dal XIV secolo un carnevale propriamente veneziano cominciò ad elaborarsi, attestato dall’apparizione della festa del Giovedì grasso dopo la Guerra di Chioggia (1378-1381), in sostituzione della vecchia festa delle tre Marie celebrata sin dal 1143 e sopressa nel 1379. Quest’ultima, rilanciata oggi sotto nuove forme, potrebbe essere considerata come la prima espressione di tipo carnavalesco organizzata dalle autorità: si svolgeva il 2 febbraio, giorno della purificazione della Vergine, e si riferiva all’episodio delle rappresaglie contro i pirati che avrebbero rapito intorno al 973 le dodici giovani spose povere alle quali il doge dava una dote. Ogni anno si festeggiava la loro liberazione con un corteo di barche verso Santa Formosa, preparato alternativamente da varie contrade. Ben presto quel corteo era stato completato da una processione terrestre e da tre giorni di banchetti e festeggiamenti, tra il 30 gennaio e il 2 febbraio, che servivano a rafforzare il legame civico, accordando un ampio spazio alle donne.

Le metamorfosi

La ritualità civica del Carnevale delle origini si inseriva in un contesto di chiara matrice politica. Pur essendo una festa la cui data variava in funzione della Pasqua, il  Giovedì grasso ne era il nucleo con l’obiettivo di rafforzare l’armonia sociale contro il nemico comune. Dalla fine del XIV secolo alla caduta della Repubblica, nel 1797, questa festa era l’occasione di spettacoli destinati a commemorare la vittoria del doge sul patriarca di Aquileia, presumibilmente avvenuta nel 1162. Nel palazzo ducale era consegnato il tributo di dodici maiali, che rappresentavano i dodici canonici fedeli al patriarca, oltre che di dodici pani e di un toro, mentre venivano simbolicamente distrutti edifici di legno che simboleggiavano il Friuli.

Questo rituale nel palazzo si civilizzò tra il XV secolo e l’inizio del XVI, ma il governo continuò ad offrire in quel giorno sulla Piazzetta il gioco delle piramidi umane nel quale si affrontavano le due fazioni del popolo, i Castellani e i Nicolotti. La città intera si dava in spettacolo anche sulla piazza San Marco con giostre e tornei. Durante l’epoca moderna si continuarono ad organizzare cacce ai tori, molto apprezzate dal popolo. Il volo dell’Angelo, un fuoco d’artificio e la moresca furono aggiunti a metà del XVI secolo. Essi riflettevano l’ingresso del carnevale nel mondo dei piaceri dello spettacolo, lontano dalle forme un po’ rozze – lancio delle uova, violenza maschile mascherata o presenza di uomini vestiti da donna nei monasteri femminili – che gli editti del XIII, XIV e XV secolo avevano stigmatizzato.

Le regate e gli spettacoli teatrali e musicali sono serviti a soddisfare un secondo grande obiettivo politico del carnevale, che è durato fino alla fine del XVIII secolo. Al di là della difesa dei valori civici, le autorità intendevano dimostrare con il carnevale il perdurare del rango di Venezia nella competizione tra le capitali europee. L’idea di manifestare il dinamismo della Serenissima di fronte al resto del mondo era presente sin dal XIII secolo, quando sembra che fu istituita il giorno dell’Ascensione, o Sensa, la cerimonia dello sposalizio del doge con il mare. Anche questa cerimonia prevedeva l’uso delle maschere per una quindicina di giorni, portando in tal modo il carnevale d’inverno nella stagione primaverile. Ma a partire dal XVI secolo, il ruolo economico e diplomatico di Venezia declinò sulla scena internazionale. Da quel momento in poi, l’attrattività del carnevale, con la sua funzione di prestigio, fu un modo di prolungarne l’immagine favorevole oltre una fonte di ricchezza. In epoca barocca, principi e nobili di tutta Europa venivano qui per ascoltare l’opera lirica, assistere a feste sontuose, provare l’emozione di nuove identità e approfittare di un vasto campionario di piaceri talvolta illeciti.

Il Carnevale contemporaneo non ha molto in comune con i carnevali che si sono succeduti tra il Medioevo e la fine del Settecento. Certo il valore politico si era gradualmente indebolito nel XVIII secolo, quando Venezia dava ad alcuni stranieri l’impressione di un luogo triste e cupo. Ma questa dimensione ha perso ogni significato nell’Ottocento, con l’integrazione di Venezia ad altre potenze. Invece è durata l’idea che la stagione del carnevale era propizia ai travestimenti, ai piaceri della gola e agli spettacoli teatrali. Fu anche molto vivo il ricordo del carnevale dei secoli precedenti, al punto da mitizzare alla fine dell’Ottocento le maschere del Settecento e i famosi autori e pittori che le avevano evocate, come Longhi, Casanova e Goldoni.
Con il suo gusto per i costumi brillanti, il carnevale ricreato nel 1980 è più vicino allo spirito barocco del Seicento, che non al carnevale del Settecento dominato dal costume in bautta, tendenzialmente monocolore ed austero, anche se non escludeva merletti raffinati e i non nobili si potevano travestire in tanti altri modi. Va però ricordato che questo nuovo carnevale di Venezia nacque all’insegna dell’ecologia, del gusto per le feste popolari dei quartieri e del desiderio di recuperare il senso della grande teatralità dello spazio veneziano, espresso nelle momarie o nella cinquecentesca commedia dell’arte.

Una curiosità: la Bautta

Una particolarità che continua ad affascinare nel carnevale di Venezia è il costume in bautta, ritenuto a giusto titolo come tipico del Settecento con la maschera bianca a forma di muso di cane, lo scialle di pizzo chiamato bautta e il tricorno. E’ presente in molte pitture del Settecento, e fu celebrato nella seconda metà dell’Ottocento e nel Novecento tanto nella letteratura francese o austriaca che da pittori veneziani come Ciardi. Quello che si sa meno è la storia ancora incerta della sua apparizione.

Essa rimanda forse al ruolo dell’élite libertina veneziana che ruotava attorno all’Accademia degli Incogniti e a Gian Francesco Loredan negli anni 1640. In quell’epoca, come ha dimostrato il prof. Mario Infelise, apparve il tema del parlatorio delle monache, un motivo che a partire da un opuscolo anonimo potrebbe avere ispirato una tela di Giuseppe Heintz verso il 1650 e che fu ripreso il secolo seguente da Francesco Guardi, Pietro Longhi e Giandomenico Tiepolo. In altre pitture di Heintz, ben prima di quelle di Carlevarijs all’inizio del Settecento, una forma vicina alla bautta sta già emergendo. Niente ce lo dimostra con sicurezza, ma possiamo ipotizzare che furono quei nobili veneziani, che avevano per motto «Ex ignoto notus» e l’abitudine di riunirsi mascherati, ad essere stati gli inventori di quella maschera chiamata ad essere ampiamente diffusa.
Questo conferma comunque che, contrariamente a quanto si pensa talvolta, il carnevale non accomuna tutte le classi sociali, anzi può anche accrescere le differenze: sin dalla fine del Medioevo si distinguono a Venezia dei festeggiamenti per le élites e delle pratiche più popolari. Questo filo conduttore potrebbe aiutarci a capire come, dietro l’illusione della partecipazione di tutti, permane una separazione netta tra il carnevale del turismo di massa e un carnevale più segreto, riservato sia a persone semplici ma non tanto visibili, sia a dei circoli intimi e privilegiati.


Gilles Bertrand, professore ordinario di storia moderna Université Grenoble Alpes, Adjunct Professor Università Ca’ Foscari



A cura di Federica SCOTELLARO