Da quarantena a “qarantina”: parole veneziane ‘migrate’ in turco

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L’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul ha chiesto a Vera Costantini, turcologa del dipartimento di studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea di Ca’ Foscari, di registrare un video sul tema delle parole veneziane “migrate” (più o meno clandestinamente) nella lingua ottomana. Il video, pensato per un pubblico turcofono, fa parte della serie “Pillole dall’Italia”, creata dall’Istituto proprio in occasione della recente emergenza sanitaria.

“Non è un caso che la prima lingua insegnata presso la Scuola Superiore di Commercio, antenata del nostro ateneo, fosse proprio il turco... (che poi proprio “turco” non era, giacché ancora di ottomano si trattava) – spiega la prof.ssa Costantini. - A quasi un secolo dalla fine della Repubblica di Venezia, dopo la grave crisi economica della prima metà dell’Ottocento, la città lagunare rivisitava così e rilanciava, tramite la Scuola, la propria vocazione agli scambi con l’Oriente, che all’epoca era ancora il Levante delle grandi opportunità, ovvero l’Impero ottomano. Trattavasi di uno Stato che le note Riforme avevano ormai trasformato in monarchia costituzionale, con stabili rappresentanze diplomatiche in molte città europee e anche italiane, tra cui Torino, Trieste, Roma, Palermo e Venezia. Insolita la prosa del console ottomano a Venezia all’epoca della Riunificazione: alle descrizioni di palazzi e canali si aggiungevano parole di nostalgia per l’Antico Regime di dogi e magistrati... inflessibili ministri di un’epoca perduta per sempre a vantaggio di una emergente borghesia che non esita a descrivere “senza scrupoli”. Eppure, i figli di quella borghesia, nella novella Scuola, assieme al diritto commerciale, alla matematica e ad altre discipline, apprendevano anche qualche rudimento di turcologia, sotto la guida di un lettore di madrelingua, poi docente incaricato

Nel mio intervento video per l’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul parto da un dato che forse è scontato, ma che non viene, purtroppo, mai abbastanza ripetuto, soprattutto in Italia: il carattere originale della lingua ottomana, intesa come espressione del sistema culturale ottomano, era la capacità di assimilare tradizioni provenienti da mondi anche profondamente diversi tra loro. Vero è che la questione delle origini, come scriveva Marc Bloch, non è una questione storica: nella storia, ogni fenomeno – linguistico, sociale ed economico che sia – appare connesso da legami di causa ed effetto ad altri fenomeni, rendendo inutile e anzi spesso foriera di gravi errori la ricerca di una sua origine. Tuttavia, forse anche per la sua dimensione imperiale, il sistema culturale ottomano portò molto alta la bandiera dell’eclettismo, cogliendo – passatemi questa metafora – le rose più belle dai giardini degli altri. Anche quando i sultani vollero inventare per fini politici una propria genealogia, predilessero ambiti geografici e culturali decisamente lontani dalle tradizioni della dinastia, come fu il caso, per esempio di Mehmed II, che arrivò a vantarsi discendente di un ramo imperiale bizantino del Mar Nero. Anche la struttura amministrativa dell’Impero lasciava emergere questa propensione all’integrazione e all’assimilazione di aspetti non necessariamente autoctoni. Basti pensare alla politica matrimoniale della dinastia ottomana e allo stesso sistema di reclutamento e formazione dell’élite militare e burocratica dell’Impero. La classe dirigente veneziana, essa stessa per molti aspetti atipica rispetto ad altre aristocrazie europee, notava l’eterogeneità dell’élite ottomana e in alcuni casi prestò il fianco a corroborare ricostruzioni fantasiose, come quella dell’origine veneziana della sultana Nurbanu

Perché lascio precedere la trattazione dell’argomento da me prescelto da questa introduzione? Per contestualizzare l’utilizzo di prestiti lessicali veneziani nella lingua ottomana in una strutturale inclinazione di quest’ultima ad aprirsi all’assimilazione di termini provenienti da lingue diverse. Nota è la presenza di termini persiani nel linguaggio lirico; formidabile la preponderanza dell’arabo nei trattati di medicina e veterinaria, oltre che nell’ambito della rendicontazione finanziaria; perfino nell’Ottocento, quando giornalisti e intellettuali ottomani vollero introdurre concetti e temi per esempio sociologici nel loro discorso culturale, furono piuttosto termini francesi a venire assimilati.

I contatti tra Ottomani e Veneziani datavano da un’epoca antica e precedente di un secolo alla conquista di Costantinopoli. In quel momento, la Repubblica di San Marco era uno Stato potente che contava sulla più forte flotta del mondo. La base della sua forza stava nei rapporti con il Mediterraneo orientale, in cui già si intravedeva la crescente capacità egemonica dello Stato ottomano. Come testimoniato dalla presenza nella Biblioteca Marciana di Venezia di vocabolari duecenteschi in lingua kipçak, il mondo mercantile veneziano del Trecento conosceva già da un secolo le realtà turcofone d’Asia Centrale e d’Anatolia, quindi gli emissari della Serenissima entrarono rapidamente in contatto anche con gli Ottomani.

A ridosso della conquista di Costantinopoli, gli Ottomani maturarono l’esigenza di dotarsi di una flotta, il cui modello fu, senza dubbio, quella veneziana, come sottolineato dalla quantità di termini veneziani nel settore della cantieristica navale ottomana. Potrei dunque cominciare a elencarvi i termini marinari e commerciali di provenienza veneziana (marangone, calafato, gomena, carena eccetera), ma le circostanze nelle quali mi trovo a registrare questo breve video, che sono sicuramente analoghe a quelle di voi che mi ascolterete, mi suggeriscono di ricordare prima che proprio nel periodo in cui gli Ottomani e i Veneziani fecero la rispettiva conoscenza, all’incirca alla metà del Trecento, una grave epidemia di peste cominciò a colpire l’umanità. Per altri quattro secoli questa malattia avrebbe continuato a mietere innumerevoli vittime, funzionando da potente regolatore in un’epoca in cui le risorse agricole stentavano a soddisfare i consumi alimentari di una crescente pressione demografica. Nessuno potrebbe dubitare della vocazione mercantile dei Veneziani, che anteponevano gli interessi del commercio a qualsiasi preconcetto culturale, anche a rischio di trovarsi isolati all’interno della comunità cristiana. Dopo la prima ondata epidemica, che provocò la morte di 2/3 degli abitanti di Venezia, il governo della Serenissima, proprio perché aveva a cuore la resistenza della propria economia, mise in atto una politica sanitaria di prevenzione del contagio che non aveva eguali nel mondo dell’epoca. Ed eccoci alla prima parola: “quarantena”, che passò all’ottomano come qarantina, all’inglese come quarantine, all’olandese come quarantaine. Nel termine, riconosciamo i quaranta giorni che le navi dovevano attendere prima di entrare nel porto. In realtà, l’incubazione della malattia durava molto meno, ma risulta significativo constatare che la prudenza del governo repubblicano si esercitasse calcolando per eccesso, piuttosto che per difetto, la durata di quello che oggi chiamiamo lockdown. L’isolamento avveniva in due isole della laguna che, per corruzione dialettale del nome di una di esse, Santa Maria di Nazareth, vennero chiamati “lazzaretti”. Questo termine, tuttavia, non venne esportato nell’Impero ottomano, dove venne piuttosto coniato il composto qarantinakhane, tanto con il significato di lazzaretto, quanto di ufficio predisposto alla quarantena.

Per il resto, possiamo raggruppare i prestiti lessicali veneziani all’ottomano in tre categorie: il principale, come ho già detto, era la marineria; a seguito, strumenti e luoghi del commercio; in ultima, la tecnica militare marittima. Per quanto il termine generico di “nave” (gemi) sia di origine turca, attestata anche in antico uyguro, molte imbarcazioni avevano nomi veneziani. Per esempio, barça (da “barca”), baştarda (da “bastarda”, sorta di galera piccola), köke (da “cocca”), qalyota (da “galeotta”), fino a qalyon (dal veneziano “galeon”). Come è stato ben illustrato da Henry e Renée Kahane e Andreas Tietze, esisteva nel Mediterraneo una sorta di koiné, una lingua franca, costituita in prevalenza da parole di origine italiana, ma anche da moltissimi termini greci e turchi. Altre tipologie di imbarcazioni presero infatti nomi greco-bizantini, come qadırga (da katergon). Vi sono perfino nomi di imbarcazione squisitamente turchi che hanno percorso il tragitto opposto alle parole che vi ho appena citato, per esempio il kayık, che a Venezia è ancora comunemente conosciuto come “caiccio”, sorta di piccola barca ancora oggi utilizzata nella laguna. 

Tornando ai prestiti lessicali veneziani, vi erano una serie di termini riconducibili alla cantieristica navale che meritano di essere ricordati: “marangon” e “calafato”, presenti in ottomano rispettivamente come marangos e qalafat, definivano due importanti corporazioni attive negli arsenali, ovvero i maestri d’ascia e coloro che spalmavano la pece bollente sulle carene delle navi per impermeabilizzarle. Alcune parti delle navi avevano nomi pure veneziani, come la “poppa” (pupa), la “carena” (qarina) e le “gomene” (gomena), i cui operai (in ottomano, gomenacı) in veneziano si chiamavano piuttosto “corderi” e lavoravano in un edificio ubicato a fianco dell’Arsenale, in Campo detto “della Tana” dal nome del luogo di origine della canapa, che serviva appunto a produrre le gomene: le foci del fiume Tanai/Don, nel Mar d’Azov. Vi erano poi una serie di termini relativi alle condizioni atmosferiche che provenivano pure dal veneziano: “bonaccia” (bonaça), “Bora” (Bora), “fortunal” (fırtına) e molti altri. A questi termini marinareschi vanno anche aggiunte alcune espressioni caratteristiche, come per esempio “a la banda” (in ottomano alabanda), che indica un modo di condurre la barca, tutta inclinata sul lato.

Passando alla seconda categoria, quella del linguaggio commerciale, ci troviamo davanti a una vera e propria rete plurilinguistica, in cui termini arabi e turchi venivano utilizzati correntemente in veneziano (soprattutto unità di misura, come i “cantari”) e vice versa parole veneziane come “magazen”, “cambio”, “piazza”, “damigiana” erano e sono tuttora in uso sulla sponda opposta del Mediterraneo.

La terza categoria comprendeva termini di artiglieria, come “bomba” o “bombarda”, “batteria” (in ottomano batarya), ma anche comandi, come vira!, che seguito dal verbo etmek significa “retrocedere”, “tirarsi indietro” e corrisponde alla ritirata o anche alla resa. L’askerî rûznâmçe tenuto da Lâlâ Mustafa Pascià durante la campagna di Cipro riporta precisamente questa esclamazione dalle labbra di Marcantonio Bragadin il 1 agosto 1571, giorno della resa della fortezza di Famagosta (“vira!” deyü çağrub). In realtà, si tratta della seconda persona singolare del modo imperativo del verbo “virare”, che in ambiente marinaresco significa propriamente “tornare indietro”, ma che, in veneziano come in ottomano, aveva pure un occasionale uso figurato, in questo caso pertinente a un contesto militare. 

Ben lungi dall’esaurire l’ampio argomento degli scambi lessicali tra Venezia e Istanbul, spero che questa mia conversazione possa offrire qualche utile strumento d’analisi, risvegliare la curiosità di nuovi percorsi di ricerca e suggerire quanto lunga, ricca e complessa sia stata la strada percorsa assieme dai nostri antenati. 

Guarda il video.

Federica SCOTELLARO