Vanni Pettinà: la crisi del capitalismo neoliberista e il G20

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Il ritratto ufficiale del Presidente Biden, di Adam Schultz

Vanni Pettinà è professore associato presso il Centro de Estudios Históricos de El Colegio de México. Attualmente è visiting professor a Ca’ Foscari, dove ha insegnato International Economic History presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati. Esperto di storia internazionale, la sua didattica si incentra sulla storia delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’America Latina e in particolare del Messico: più precisamente, su come il contesto internazionale della Guerra Fredda abbia condizionato il processo di sviluppo economico degli stati periferici e di ricerca di una maggiore autonomia dagli USA. La sua pubblicazione più recente è Latin America and the Global Cold War, volume curato con Stella Krepp e Thomas C. Field Jr. (University of North Carolina Press 2020).

In un articolo pubblicato nel quotidiano spagnolo El País, il Professor Pettinà ricorda che alcune delle riforme annunciate dalla nuova amministrazione Biden erano già state avanzate negli anni settanta da una coalizione di Paesi in via di sviluppo, capitanata dal presidente algerino Houari Boumédiène, che nel 1974 prese la parola dal podio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per chiedere la creazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale. 

Abbiamo chiesto al professore di condividere alcune riflessioni sulla crisi del capitalismo neoliberista, sulla nuova direzione dell’amministrazione Biden, e sui possibili esiti delle trattative del G20, che quest’anno interesserà anche Venezia con gli incontri su economia e finanza (9 e 10 luglio 2021)

Houari Boumédiène, presidente dell’Algeria nel 1974, e Janet Yellen, Segretaria del Tesoro nell’amministrazione Biden nel 2021: qual è il nesso tra i due?

Ci tengo a dirlo perché secondo me è importante perché indica una dinamica virtuosa tra il processo docente e quello dello sviluppo delle idee: il mio articolo nasce da una lezione a Ca’ Foscari, fatta nell’ambito del RIC. Iniziai la lezione con due immagini: una foto a colori scattata nel 2021 di Janet Yellen (1946), Segretaria del Tesoro dell’amministrazione Biden, e un’altra, in bianco e nero, del presidente algerino Houari Boumédiène (1932-1978). Alcuni studenti  riconobbero Yellen, mentre nessuno riconobbe Boumédiène. Eppure, la proposta fatta da Yellen di fronte al Chicago Council on Global Affairs riguardo ad una riforma fiscale globale, e in particolare alla necessità di creare una imposta globale sui redditi generati dalle multinazionali, era già stata avanzata da Boumédiène nel 1974. Vedendo la sorpresa degli studenti nello scoprire queste connessioni, ho voluto raccontare questa storia, provando a raggiungere un pubblico più ampio, e ne è nato l’articolo pubblicato in El País

Qual è la proposta di Yellen, qual era quella di Boumédiène?

Janet Yellen ha proposto una nuova misura di fiscalità globale: una tassa sulla ricchezza generata da multinazionali che impedisca loro di evadere il fisco. Combattere le attuali forme di evasione fiscale “legali” permetterebbe agli stati di recuperare importanti risorse per correggere i problemi di disuguaglianza sociale, scuole, sanità.

Boumédiène proponeva di regolare il capitalismo tramite regole internazionali con la creazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale. Il presidente algerino rappresentava un gruppo eterogeneo di Paesi definiti, in altri tempi, “Terzo Mondo”. Nonostante le molte diversità, questi Paesi avevano come obiettivo comune la riforma delle strutture economiche internazionali, cosa che avrebbe permesso loro di sottrarsi alle catene del sottosviluppo economico. 

Il “dramma” della Storia è che, come spesse accade durante i momenti di crisi, proposte diverse si contrappongono e, in questo caso, quella di Boumédiène e dei Paesi di cui era portavoce non ebbe sufficiente forza politica per imporsi. Alla fine fu il neoliberismo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher a prevalere e tracciare l’ipotetica via d’uscita dalla crisi degli anni '70.

Nel suo articolo fa riferimento alla crisi del capitalismo odierno e alla necessità di riformarlo. Quali sono i tratti di questa crisi? 

Prima del 2008, l’altra grande crisi del capitalismo è avvenuta negli anni ’70, quando l’amministrazione di Richard Nixon decise l’abbandono del sistema di Bretton Woods. Tale crisi portò ad una svolta neoliberista, promossa in particolare da Reagan e Thatcher, che prevedeva deregolamentazione, privatizzazione, e riduzione delle spese sociali. Tanto che, nel discorso inaugurale alla Casa Bianca del 1981, Reagan disse: “In this present crisis, government is not the solution to our problem, government is the problem”. 

L’alternativa neoliberista ci ha portato alla crisi del 2008, evidenziando la debolezza degli Stati di fronte alla forza acquisita dai grandi capitali finanziari. Questa debolezza è stata sottolineata nuovamente durante la recente crisi sanitaria che ha messo in luce come alcuni Stati, tra i quali l’Italia, che avevano tagliato gli investimenti nel settore pubblico, come la sanità, si sono trovati in difficoltà nella gestione sanitaria e sociale della pandemia.

Quali provvedimenti sta adottando l’amministrazione di Biden per distanziarsi dal modello neoliberista?

La nuova amministrazione di Biden ha assunto una posizione che suggerisce l’intenzione di modificare sostanzialmente alcuni pilastri del modello neoliberista. 

La questione del fisco è cruciale. Oltre alla tassa globale, Biden propone l’innalzamento delle aliquote, anche se apparentemente modesto durante una prima fase, della pressione fiscale che Trump aveva abbassato durante il suo mandato. Questo aumento della pressione fiscale sui redditi più elevati contribuirà a finanziare il piano di infrastrutture che gli USA stanno lanciando, che investirà risorse federali per modernizzare il paese. In un’epoca di crisi aggravata dalla pandemia, gli interventi statali, iniettando risorse nel mercato, contribuiscono a creare posti di lavoro. Si pensa anche ad un aumento del salario degli impiegati statali. Poi ci sono nuove aperture verso le organizzazioni sindacali, un tempo considerate “nemiche” dello sviluppo economico e ora rivalutate come corpi intermedi importanti per garantire crescita ed equità sociale. Sono misure che, nel complesso, puntano ad una maggiore equità sociale. Il fisco, infatti, è uno dei maggiori indici di disuguaglianza nelle nostre società: basti pensare alle cifre astronomiche che guadagnano i cosiddetti “billionaires” e al fatto che tali guadagni non sono tassati in modo proporzionale.  

La tassa globale sulle multinazionali proposta da Yellen, di cui si è parlato anche al G7, dovrebbe chiudere gli “spiragli” ancora aperti nei sistemi fiscali internazionali rafforzando così le ridotte capacità di riscossione fiscale da parte degli Stati. Esattamente come era già stato proposto da Boumédiène.

Riguardo all’imposizione di una tassa globale per le multinazionali: quali sono i prossimi passi, in previsione del G20 che si svolgerà a Venezia?

Serve un accordo politico forte. Mi pare che tra USA e UE ci sia attualmente una forte consonanza di intenzioni su queste misure. 

Tuttavia, non è detto che tutti i Paesi del G20 siano favorevoli alla tassa. Prendiamo un Paese come il Brasile, il cui attuale presidente ha posizioni ultra neoliberiste e reazionarie: può essere che il Brasile non sia un alleato, ma un oppositore. Bisognerà vedere come si redistribuisce la geopolitica globale, oltre che la capacità dei leader europei e statunitensi di convincere i leader degli altri Paesi. Ora ci sono anche molte multinazionali che appartengono ai Paesi emergenti e che possono influenzare negativamente le posizioni politiche dei leader nazionali. 

Durante le discussioni del G7, si è reso evidente come una delle direttrici della nuova politica estera di Biden sia proprio l’assunzione di una posizione di più deciso contenimento della Cina. In questo contesto di maggiore ostilità tra USA e Cina rispetto alla presidenza Trump, bisognerà vedere se e come la Cina vorrà cooperare con il G20. 

Certo è che i Paesi del G7, alleati su questa misura, rappresentano un settore dell’economia globale molto importante e questo garantirà loro, se non altro, di essere ascoltati al tavolo delle trattative. Se anche ci dovessero essere dei contrasti tra i Paesi del G7 e gli altri Paesi del G20, il fatto che la classe politica dell’alleanza atlantica è favorevole alla tassa avrà sicuramente un peso. 

Come reagiranno le multinazionali alla proposta di una tassa globale?

Le multinazionali sanno bene che le notizie riguardanti i loro “escamotage” finanziari rischiano di compromettere la reputazione pubblica: l’evasione fiscale, seppur “legalizzata”, rischia di creare dei danni di immagine altissimi. Quindi ritengo plausibile che si adatterebbero ad un’eventuale riforma. Infatti tra le reazioni agli accordi del G7 ci sono anche le voci di multinazionali quali Google, Facebook e Amazon, che si sono già espresse in modo positivo. 

Tuttavia, ora anche i Paesi emergenti hanno le proprie multinazionali, e queste potrebbero non volersi adeguare ad una riforma della tassazione globale. Potremmo quindi assistere ad un fenomeno simile a quanto accade con la questione dell’inquinamento: mentre in Occidente è un tema comune e “scontato”, anche per partiti tradizionalmente non attenti a questi temi, nei Paesi emergenti non è sempre così.

Stiamo assistendo ad un cambiamento culturale nei confronti del capitalismo neoliberista?

La crisi sanitaria data dalla pandemia lo dimostra: se non c’è lo Stato a intervenire, chi lo farà?

Credo che la combinazione di crisi politiche, sociali, economiche, che pure non sono tutte dovute al modello economico neoliberista ma che sono in qualche modo connesse ad esso, stia capovolgendo la scala valoriale mondiale. Sicuramente stiamo assistendo ad un cambiamento culturale importante sull’asse euro-atlantico. Se è Boumédiène a proporre una tassa globale, è una cosa; se è Biden, è ovviamente un’altra. 

Le proposte di Biden sembrano scelte forti. Tuttavia, se guardiamo più nel dettaglio possiamo vedere che non si tratta di stravolgimenti veri e propri. Sul tema delle aliquote fiscali Biden sta proponendo di tornare ai livelli pre-Trump, per alzarle, ma comunque i livelli rimarrebbero relativamente bassi. Si tratta di interventi relativamente blandi ma che indicano un passo in una direzione qualitativamente diversa. 

In seguito alle crisi economiche e sanitarie sta cambiando anche l’opinione pubblica. Mentre negli anni ‘80 e ‘90 si era imposta una percezione generalizzata che lo stato fosse un nemico per la sua inefficienza, che i sindacati fossero una cosa del passato e dunque un intralcio, e che privatizzare e abbassare le tasse fosse corretto, ora inizia a cambiare l’idea di quello che è giusto e sbagliato

Anche qui in Europa le cose stanno cambiando. Pensiamo al piano di aiuto europeo del Recovery Fund: sono soldi pubblici la cui immissione darà potere agli Stati e consentirà loro di intervenire da un punto di vista economico, anche per favorire una maggiore equità.

Se guardiamo, infine, all’America Latina, il cosiddetto Pink Tide o “onda rosa” ha già mostrato alcune svolte non neoliberiste, con l’elezione di governi di sinistra e centrosinistra a partire dalla prima elezione del presidente venezuelano Chavez nel 1998. Il punto è sempre il peso geopolitico: ci sono stati esperimenti importanti, come quello del Venezuela, finito malissimo, ma anche l’Argentina di Kirchner e il Brasile di Lula, che però non avevano il peso sufficiente per imporre un cambio di agenda globale.

Come ho già detto, ora l’amministrazione Biden sta dimostrando di voler cambiare rotta: staremo a vedere quali saranno le conseguenze a livello mondiale, e il G20 sarà un ulteriore banco di prova

Joangela Ceccon / Federica Scotellaro