Governance europea e pandemia. Intervista a Stefano Soriani

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Photo by Gabriella Clare Marino on Unsplash

Come ha inciso la pandemia nelle politiche di governo europee e quale ruolo hanno giocato le città dal punto di vista sia economico che politico? Questi sono alcuni dei temi chiave della conferenza Internazionale Multi-level governance in Europe: the case of Covid-19 pandemics, in Aula Baratto, a Ca’ Foscari, il 9-10 maggio 2022. Apre il convegno l’ex Presidente del Consiglio, prof. Giuseppe Conte.

In vista del convegno, abbiamo intervistato Stefano Soriani, esperto cafoscarino di Geografia economica e politica e co-organizzatore dell’evento, con Jan Zielonka (Università Ca’ Foscari Venezia e Progetto Horizon EU3D) e John Erik Fossum (ARENA, University of Oslo e Progetto Horizon EU3D). 

La pandemia, fenomeno globale ma dagli impatti profondamente differenziati. In che termini?

La pandemia ha evidenziato come tutte le società umane siano inestricabilmente parte della “rete globale della vita” e la fallacia della presunzione moderna di poter gestire confini impermeabili. Fenomeno globale, la pandemia ha colpito in maniera diversa a seconda di una serie di fattori: individuali, in quanto le condizioni di salute (ipertensione, obesità, diabete, malattie respiratorie croniche, ecc.) hanno giocato un ruolo chiave nel determinare i tassi di mortalità; demografici, perché sono stati più colpiti i segmenti più anziani della popolazione; socio-economici, perché in molte realtà i gruppi più poveri sono stati quelli, per vari motivi, più colpiti; territoriali, in quanto gli effetti sono stati molto più forti e drammatici nella grandi aree urbane  rispetto a quelle rurali; mentre risultati non univoci vi sono rispetto al nesso tra pandemia e condizioni ambientali, in particolare qualità dell’aria. Fondamentale si è dimostrata la qualità del sistema sanitario e in modo particolare la presenza dei servizi che definiscono la così detta medicina territoriale. In quest’ultima direzione, è evidente la natura territoriale delle politiche di welfare. La pandemia ha poi confermato l’importanza della qualità delle istituzioni, internazionali, nazionali e locali, e del grado di fiducia/sfiducia dei cittadini verso queste, in particolare nazionali e locali.

In che modo la pandemia ha impattato sulla politica europea?

Anche in questo caso gli effetti sono stati diversi e per molti aspetti contraddittori: la sospensione dell’accordo di Schengen e le decisioni di molti Paesi di bloccare l’esportazione di prodotti ritenuti strategici per contrastare l’epidemia (come i dispositivi sanitari di protezione) hanno segnato un’importante battuta d’arresto nel processo di progressiva integrazione, favorendo soluzioni nazionali e generando l’idea (dimostratasi molto presto illusoria),  che fosse possibile proteggersi ripristinando i confini e quindi l’esercizio del potere di controllo nazionale sui flussi di persone. D’altro canto, l’Europa ha svolto un ruolo chiave nella politica dei vaccini e nel sostegno economico alle categorie più colpite (quelle, in particolare, legate ai servizi non essenziali e alla mobilità delle persone). Inoltre, proprio per contrastare la crisi economica l’Europa ha finalmente introdotto strumenti finanziari inimmaginabili solo qualche anno prima, nella direzione della formazione di un debito comune. La pandemia ha poi confermato i costi economici e umani derivanti dalla mancanza di politiche maggiormente coordinate a livello comunitario. La questione del così detto “cost of non-Europe”, soprattutto nella gestione delle “crisi striscianti”, quale è stata ed è la pandemia, chiama evidentemente in causa la resistenza, ancora forte, degli stati nazionali a cedere quote crescenti di sovranità alla Commissione Europea. O forse, secondo alcuni, la scarsa propensione a fare i conti con i limiti strutturali del disegno europeo, per lo meno nelle sue declinazioni più ambiziose.

Dal punto di vista politico, in senso lato, quali sono stati gli effetti più importanti della pandemia?

La pandemia, per molti aspetti, ha accelerato tendenze già all’opera, evidenziando problemi che già da qualche decennio caratterizzano il dibattito nelle scienze sociali. In generale, la pandemia ha rafforzato la tendenza verso l’accentramento dei poteri alla scala nazionale e la riduzione degli spazi democratici, ai diversi livelli. E’ del tutto evidente, e non può stupire, come la pandemia abbia ristretto l’ambito dell’esercizio democratico, sotto il peso di pratiche emergenziali. L’introduzione del green pass e lo sviluppo di sistemi di sorveglianza sanitaria, se da un lato sono apparsi e sono strumenti chiave nel tentativo sia di contrastare la pandemia sia di consentire un ritorno per quanto possibile a condizioni di vita normali (soprattutto dal punto di vista economico), dall’altro hanno rafforzato la natura bio-politica delle attività di governo: elemento, quest’ultimo, che ha suscitato non pochi rilievi critici, spesso banalizzati dalla retorica populista. Inoltre, tutti sistemi democratici europei, pur nella loro diversità, sono stati sottoposti a notevoli fattori di stress nella relazione tra i diversi livelli di governo: la necessità di prendere decisioni in tempi molto stretti, la difficile gestione delle chiusure e riaperture, soprattutto nei Paesi che mostravano grandi differenze interne nella diffusione della pandemia e le contrapposizioni politiche hanno dappertutto reso difficili i rapporti tra governi nazionali e le amministrazioni locali (regioni, province, città metropolitane, ecc.).

In questa prospettiva la pandemia ha rafforzato la tendenza alla ricentralizzazione nazionale delle scelte e delle decisioni politiche che già era evidente negli anni precedenti per effetto della crisi dell’eurozona, soprattutto nei paesi (e tra questi l’Italia) con un imponente debito pubblico. Grazie alla pandemia, i governi nazionali hanno canalizzato e gestito un flusso enorme di denaro, che ha in qualche modo ridefinito il campo di gioco della governance locale: molto più condizionata dalle politiche nazionali di quanto non fosse qualche anno prima, quando il “primato del locale” non era messo in discussione.

Si è molto discusso del ruolo degli scienziati e degli esperti, in che senso?

La pandemia ha riportato in primo piano il ruolo degli scienziati e degli esperti, soprattutto nelle primi fasi della stessa, quando la politica sanitaria nei diversi Paesi si muoveva seguendo il principio o motto “follow the science”.  Man mano che la pandemia ha assunto i toni di una “nuova normalità”, la politica sanitaria ha spesso ondeggiato sotto la pressione delle forze politiche e di una pubblica opinione sempre più inquieta, anche per effetti economici dei periodi di lockdown. Al tempo stesso, la complessità delle relazioni tra scienza e media ha in molte situazioni accentuato lo scetticismo nei confronti degli scienziati e degli esperti e favorito il radicamento di sentimenti “cospirazionisti”, elementi fondamentali della post-verità e spesso veicolati da reti trans-nazionali volte a scardinare i sistemi democratici.  Non si può però dimenticare come il mondo della scienza e della ricerca, grazie alla cooperazione alla scala globale e agli enormi investimenti pubblici che hanno ridotto il rischio degli investimenti privati, abbiano fatto passi enormi in brevissimo tempo, come lo sviluppo dei vaccini mRNA dimostra. Al tempo stesso, l’esperienza europea conferma come una riflessione sul funzionamento e sull’efficacia dei “sistemi tecno-scientifici” non possa mai essere disgiunta dalla considerazione sul contesto sociale e culturale nel quale questo si innerva. E da questo punto di vista la pandemia ha dimostrato come il ruolo di mediatori (nel senso più ampio del termine) svolto da scienziati ed esperti tra cittadini da un lato e governi nazionali dall’altro, sia estremamente delicato e condizionato non solo dall’incertezza dell’avanzare delle conoscenze scientifiche ma anche dalla tendenza alla spettacolarizzazione della scienza e dei saperi esperti.

Si è spesso sostenuto che la pandemia abbia dimostrato la fragilità della globalizzazione. È vero?

Per certi versi si, per altri meno. Bisogna distinguere tra la critica alla globalizzazione in quanto fenomeno complesso, dalla critica alle narrative stereotipate (e acritiche) della globalizzazione (come quella iper-globalista). Una cosa, cioè, è sviluppare un ragionamento critico sulla globalizzazione, cogliendone le sue contraddizioni intrinseche; altra cosa è criticare (cosa banale) le visioni stereotipate della globalizzazione. Indubbiamente la pandemia ha colpito in modo molto forte la mobilità delle persone e il settore turistico; ha colpito, pur in forme differenziate tra le diverse regioni economiche del pianeta, il commercio internazionale e i flussi di investimenti esteri; ha generato una diffusa percezione che “niente sia più come prima” e quindi messo in crisi le narrative mainstream, molto legate alla visione “trionfante” della globalizzazione neoliberista, che celebravano i benefici della globalizzazione,  mentre minore attenzione si poneva all’altro lato della medaglia (disuguaglianze, problemi ambientali globali, affermazione di stereotipi culturali, ecc.). Al tempo stesso, al di là della conferma della dimensione globale dentro la quale le nostre vite sono inevitabilmente inserite (anche di coloro che intendono sfuggire alla globalizzazione), la pandemia ha accentuato la natura digitale delle nostre attività e della vita personale e sociale, che costituisce un tratto essenziale della globalizzazione, con conseguenze per le nostre città e per l’organizzazione del tempo di lavoro e di vita ancora per molti aspetti inesplorati. Ma ciò che la pandemia ha davvero evidenziato è la natura contraddittoria della globalizzazione (processo tutt’altro che lineare e che si nutre di differenze e quindi di squilibri socio-economici e territoriali, che non sono le conseguenze non volute, o inattese, della globalizzazione ma il suo vero motore), la viscosità che ne regola lo sviluppo e la difficoltà di governarla, o per lo meno indirizzarla verso forme più equilibrate di sviluppo, sia socio economico sia ambientale. In fin dei conti la pandemia non ha fatto altro che riportare al centro del dibattito il modo in cui la globalizzazione è stata governata, o non è stata governata (secondo i punti di vista) negli ultimi decenni, per lo meno a partire dalla fine della guerra fredda e dall’avvio di quei processi di crescita delle economie “periferiche” che hanno ridefinito l’ordine (o il dis-ordine) economico contemporaneo. Senza dimenticare come la pandemia, “stressando” il rapporto tra cittadini, settori economici e i diversi livelli di governo, riporti al centro dell’attenzione il tema del conflitto sociale e della capacità dei sistemi democratici di gestirlo.

Veniamo al ruolo delle città, che costituiscono un livello fondamentale della governance multi-livello.

Negli ultimi anni le scienze sociali hanno evidenziato il ruolo essenziale delle città, soprattutto delle grandi aree metropolitane (ma anche delle aree metropolitane policentriche, che caratterizzano in modo particolare il contesto europeo), dal punto di vista sia economico sia politico. Le città concentrano la gran parte della popolazione, sono gli attrattori fondamentali degli investimenti esteri, sono le sedi delle grandi imprese multinazionali e delle organizzazioni internazionali, sono hub fondamentali della connettività contemporanea, che regola, pur non in modo lineare o scontato, i processi di globalizzazione. Al tempo stesso, le città sono sempre più collegate tra loro, definiscono reti di competenze innovative e ospitano poderose concentrazioni di potere economico, finanziario e politico. Le città sono attori fondamentali delle reti trans-nazionali e costituiscono lo spazio nel quale le opportunità e le contraddizioni della globalizzazione (le concentrazioni di ricchezza, la marginalità sociale, le disuguaglianze, i conflitti e la loro “messa in scena”, i problemi e le opportunità generate dal flusso migratorio) si palesano. Le città sono luoghi di elaborazione di strategie politiche e attori fondamentali nella ridefinizione del concetto di sovranità, che vede i poteri degli stati nazione – nonostante il processo di ricentralizzazione in atto – progressivamente erosi dall’“alto” (dalla finanza globale, dal cambiamento climatico, delle organizzazioni internazionali e dalle reti trans-nazionali, anche criminali) e dal “basso” (la crescente forze dei nuovi movimenti sociali e delle dinamiche di cittadinanza attiva). Ciò significa che nello sviluppo dei sistemi contemporanei di governance (necessariamente multi-livello e multi-attore: si pensi al ruolo delle partnership pubblico-private, delle fondazioni bancarie, delle fondazioni culturali e delle agenzie di sviluppo nel produrre cambiamento e rigenerazione urbana), il ruolo delle città sta progressivamente aumentando. Anche nella prospettiva internazionale, come dimostra l’ampia diffusione di approcci e strumenti riconducibili alla così detta city diplomacy.

La pandemia come è entrata in queste dinamiche? E rispetto all’Italia, quali valutazioni si possono fare?

Non esiste una risposta univoca, anche perché molto dipende dall’articolazione, diversa nei diversi Paesi, dei livelli di governo. E’ evidente come il ruolo dei Governi nazionali, anche per i motivi già richiamati, sia stato dappertutto fondamentale. In ogni caso il pendolo, a seconda delle diverse fasi della pandemia, è oscillato tra i due estremi, quello della cooperazione e della ricerca del coordinamento da un lato, e quello del confitto dall’altro. Risposte univoche non posso essere date perché le caratteristiche istituzionali dei diversi contesti nazionali contano molto. Dappertutto la risposta alla pandemia si è nutrita di un mix di risposte top-down e bottom-up. Anche in Italia. Nel nostro caso, inoltre, molte differenze si sono registrate tra le diverse regioni, alcune più attente al rapporto col Governo nazionale (soprattutto nella richiesta di sostegno economico o di misure specifiche per il contesto regionale), altre più attente a mobilitare risorse territoriali locali. Spesso le città e le regioni hanno rivendicato con forza il loro ruolo quando si trattava di premere per il “ritorno alla normalità” mentre hanno lasciato volentieri ai Governi nazionali il compito di “chiudere”. Altre volte, città e regioni si sono fatte promotrici di atteggiamenti più severi nei confronti della gestione della pandemia, proponendo approcci poi diventati parte della politica nazionale. Le città in ogni caso hanno rappresentato molto spesso la “prima linea di difesa” contro i problemi sia sanitari sia socio-economici posti dalla pandemia, fungendo spesso da incubatore o laboratorio per processi di innovazione organizzativa, che hanno visto il coinvolgimento delle diverse amministrazioni dello stato, di imprese private, di attori del terzo settore.

Cosa ci lascia in eredità la pandemia, anche rispetto al tema della governance?

La pandemia – dalla quale non siamo ancora usciti – lascia in eredità la percezione di un mondo diverso, meno prevedibile, con maggiori disuguaglianze, con la consapevolezza che la “società globale del rischio” è parte essenziale della nostra esperienza personale e sociale. Con la consapevolezza della difficoltà, e forse impossibilità, di trovare un giusto equilibrio tra dinamiche globali (anche legate ai virus e alle questioni sanitarie) e la domanda crescente di sicurezza. Con la convinzione che mentre i governi nazionali restano – a dispetto della narrative iper-globaliste, oggi evidentemente in crisi – fondamentali nella gestione delle emergenze e nella pianificazione della nuova normalità, i contesti locali e quindi le risorse locali (di diversa natura) giocano un ruolo fondamentale nei processi di innovazione organizzativa e istituzionale; che cooperazione tra attori pubblici e privati, sia orizzontalmente sia verticalmente, e maggior coordinamento delle politiche pubbliche, sia alla scala dei singoli Paesi sia alla scala europea, sono strumenti fondamentali per gestire il conflitto e i problemi redistributivi che le pandemie (e le guerre, pensando all’attuale situazione) inevitabilmente portano con sé. Infine, non si può non ricordare come il tema della governance, nelle sue diverse declinazioni, celi problemi di più grande respiro, come il rapporto tra scienza e società, privacy e gestione dei dati, democrazia e sicurezza.