Parin¥tå : toh, chi si rivede!

film diretto da Bimal Roy nel 1953, rifatto nel 2005 da Prad¥p Sarkår e tratto dall’omonimo romanzo bengalese del 1914 di Sharatchandr Chattopadhyåy.

 

Parin¥tå (Una donna sposata), diretto nel 1953 da Bimal Roy, rifatto nel 2005 da Prad¥p Sarkår è tratto dall’omonimo romanzo bengalese del 1914 di Sharatchandr Chattopadhyåy. Nonostante le differenze sociali e antropologiche rilevate nei due film [Parin¥tå : il contesto], non cambia il rapporto psicologico tra i due protagonisti: la natura egocentrica e possessiva di Shekhar trova corrispondenza nei sentimenti di dedizione e sudditanza di Lalitå. Questo rapporto ineguale, di padrone-schiava, pervade le due opere dall’inizio alla fine, ma con altrettanta chiarezza emerge la dipendenza emotiva, oltre che banalmente quotidiana, di Shekhar da Lalitå, suo “centro di gravità permanente”.

Le due facce di questo legame vengono in piena luce quando Shekhar si scontra con un’inconcepibile eventualità: Lalitå, quasi escrescenza della sua stessa persona, così sua da non richiedere dimostrazione, come il proprio fegato (intercambiabile con “cuore”, in hindurdu), sembra volersi staccare da lui mutilandolo, aspirare a un’esistenza indipendente, e accanto ad un altro. In preda al panico, comincia a tormentarla con accuse e insinuazioni: Giren/Gir¥sh l’ha invitata a teatro/nightclub perché innamorato di lei e lei ci sta; per procurare i soldi allo zio, invece di chiedere o aspettare il suo aiuto, si è rivolta a un ‘estraneo’, che ha dato i soldi a Gurucharan per comprare lei e lei approfitta della situazione. “Non sei mica una bambina che qualcuno può costringere a fare quello che non vuole!”, commenta sarcastico Shekhar 1953, come se una ragazza povera e orfana - o anche ricca e non orfana - del 1900 (e, in buona misura, pure del 1962: si pensi alla donna italica di pari epoche, prego!) potesse decidere della propria e altrui vita, a 13 anni, come nel romanzo, a 20 anni o su di lì come nei due film. Lalitå 1953, infatti, non ribatte. Cosa potrebbe dire? Neppure Lalitå 2005, pur avendo un grado di autonomia maggiore, ha da opporre molto più che le lacrime e il silenzio, come il suo doppio. Quel pianto e l’assurdità delle accuse – insieme con la scoperta che Lalitå non è poi andata a teatro o al nightclub - rassicurano Shekhar del suo possesso e del suo potere.

 

Il rito delle ghirlande si propone allora anche come conferma di questo possesso/potere e come prevenzione di possibili ‘appropriazioni indebite’. Nel primo film, Lalitå entra nella stanza di Shekhar e, vedendolo intento a leggere, gli getta scherzosamente la ghirlanda intorno al collo, per rasserenare l’atmosfera. Shekhar, turbato, le chiede se si rende conto del significato di quel gesto in quella sera particolare. Lalitå scappa via confusa e intimorita, ma Shekhar la segue sul terrazzo che unisce le due case e completa “il rito che tu hai lasciato incompiuto”. Lalitå è sgomenta, anche per le conseguenze di quel vincolo: socialmente non è alla sua altezza. Ma Shekhar sostiene di aver compiuto quel gesto in piena consapevolezza (consapevolezza che poi getterà alle ortiche, senza un attimo di dubbio): “Mi eri vicina, ma io non avevo capito cos’eri per me. Oggi ho capito che senza di te non posso vivere”. Il sentimento e anche il desiderio, rimasti fino ad allora inconfessati e repressi, si rivelano ad entrambi, per esprimersi con sguardi inquieti e smarriti. Ma non è un trasporto tra uguali: Lalitå vede in Shekhar un dio clemente che si è abbassato fino a lei per sollevarla con la sua grazia. Gli si inginocchia davanti e, da perfetta pativratå, la sposa totalmente devota al patidev, il marito/padrone-dio, si passa sulla scriminatura dei capelli la polvere dei piedi di lui che, dopo un’adeguata pausa, la rialza soddisfatto.

In Parin¥tå 2005, Lalitå entra allegramente nella stanza di Shekhar per aiutarlo a prepararsi, ignara del rancoroso seguito. Prende da un cassetto i gemelli e la collana che il giovane deve indossare ma, travolta da una valanga di recriminazioni, scoppia in lacrime. Shekhar si scioglie, soprattutto quando viene a sapere che non è andata al nightclub (“Quando mai sono andata da qualche parte senza il tuo permesso?”). Non ancora rasserenata, Lalitå, senza guardarlo, gli consegna i gemelli e gli mette intorno al collo la collana. Shekhar la attira a sé, chiedendole se si rende conto di cosa significhi quel gesto in quella sera. “Piantala con questo scherzo, Shekhar, ti prego!”, Lalitå è confusa e sgomenta dal rivelarsi di un sentimento e di un desiderio finora innominati. “Non sto scherzando. Lascia che io completi il rito”: Shekhar, in preda allo stesso turbamento, le pone la collana intorno al collo. Poi l’abbraccia dolcemente e la adagia sul letto. Pur castissima, la scena ha una carica apertamente erotica: Shekhar e Lalitå sono un uomo e una donna che si amano, che scoprono il desiderio del corpo e vi si abbandonano con emozione. Una volta tanto, ma solo in questo caso, sono sullo stesso piano. Il film tradisce per altro una fisicità, una carnalità ­ che all’epoca di Bimal Roy sarebbe stata impensabile. Ma, a dire il vero, le scene amorose sugli schermi dell’India continuano ad evidenziare l’impaccio dei registi nell’affrontare questo aspetto delle relazioni umane: oltre alle forbici della censura – e anche in vista di quelle – è sempre in agguato l’estasi mistica. O peggio. Una volta o l’altra sarà il caso di prendere di petto questo argomento.

L’incanto del matrimonio segreto viene distrutto dalla costruzione del muro tra le due case durante l’assenza di Shekhar e, al suo ritorno, dalla notizia dell’imminente matrimonio di Lalitå con Giren/Gir¥sh. Shekhar non ritiene neppure per un attimo di dover ascoltare l’accaduto dalla bocca di sua moglie, verso la quale esibisce una stupefacente mancanza di fiducia e rispetto. In Parin¥tå 1953, insinua che lo zio Gurucharan l’abbia venduta per soldi e che lei si sia lasciata vendere. In Parin¥tå 2005, è ancora più brutale: non solo l’accusa di essersi prostituita, ma arriva perfino a colpirla con violenza.

Immediatamente dopo il ‘chiarimento’, Lalitå deve partire con la famiglia e Giren/Gir¥sh per far curare lo zio. Per la prima volta, Shekhar rimane solo. La notizia dell’avvenuto matrimonio rende ancor più devastante il vuoto con cui deve fare i conti. In Parin¥tå 2005, Shekhar non fa che suonare convulsamente il piano mentre gli scorrono davanti le immagini del primo incontro da bambini, i momenti dell’adolescenza, la scoperta dell’amore. Una notte, in sogno, vede Gir¥sh e Lalitå abbracciati sul letto, si sveglia di soprassalto, fuori di sé (forse perché avvolti dalla sua coperta?); ricomincia a suonare come in preda a un delirio,  finché le vibrazioni fanno cadere dal piano un bicchiere che si infrange sul pavimento. Accorrono mamma e papà  e Shekhar comunica loro di acconsentire al matrimonio combinato.

In Parin¥tå 1953, la sequenza è meno emotiva, ma anche meno scontata. Shekhar è seduto nella sua stanza; d’improvviso tace ogni suono ed egli, nel silenzio più assoluto, si alza, esce sul terrazzo, guarda il muro della separazione, il lontano campanile illuminato, testimone del rito nuziale, i volti lieti delle persone dalla finestra di una casa vicina, compie con lo sguardo un desolato giro di 360 gradi;  rientra in camera, torna a sedersi, mentre, come fantasmi, appaiono immagini di Lalitå intenta a studiare, a rassettare la stanza, in lacrime dopo le sue cattiverie; rivede il loro matrimonio, seguito da una visione di Giren in abito nuziale. Si alza con orrore e, mentre torna l’audio, corre dalla madre a comunicarle di acconsentire al matrimonio combinato. La sequenza dura tre minuti esatti: nulla come quel silenzio assoluto mentre scorrono le immagini potrebbe rendere con altrettanta efficacia il silenzio dell’anima di Shekhar. Che comunque avrà ancora modo di sfogare il suo orgoglio ferito e il dolore per il supposto tradimento, con insultante ironia nel primo film e con brutale asprezza nel secondo.

Il nuovo incontro avviene alla vigilia del matrimonio, a casa di lui nel primo film, a casa di lei nel secondo. In Parin¥tå 1953, Shekhar sta scendendo le scale in fretta; vedendolo, Lalitå si ritrae intimidita e a disagio (nel romanzo, sono passati tre anni dal loro ultimo abboccamento). Shekhar si rivolge a lei altezzosamente: non voleva che la invitassero, temeva che venisse fuori la “bambinata” accaduta tempo addietro. Poi fa delle considerazioni sprezzanti sul suo modesto abbigliamento: “Ho sentito dire che tuo marito è molto ricco. Non apprezza le nobili fanciulle come te?”. “No”, risponde Lalitå, “e io non discuto quello che fa”. “Oh, ecco quello che si dice una moglie devota. Non se ne vedono molte al giorno d’oggi!” e, senza ascoltare quello che Lalitå tenta di dirgli, si allontana velocemente, lasciandola disperata.

Nel film del 2005, invece, è Lalitå a fermare Shekhar che sta scendendo lungo le scale e gli chiede direttamente se l’ha dimenticata, se non la desidera più. Shekhar comincia a perdere l’ostile freddezza che ostentava: “Non hai un minimo di vergogna? Una donna sposata non dice certe cose”, risponde alterato. Ma Lalitå non ha né vergogna né paura e cerca un contatto fisico. Shekhar si strappa da lei con violenza: lui non è Gir¥sh, lui sa chi è Lalitå veramente, “una traditrice svergognata che finge di essere una moglie fedele e innocente”. La allontana da sé, facendola cadere con uno spintone, e corre via.

Poi, lo scioglimento finale. L’arroganza di Shekhar viene umiliata dalle parole di Giren/Gir¥sh e Lalitå ottiene il premio della sua fedeltà. Mentre un’altra vittima, la mancata sposa di Shekhar (innocente in Parin¥tå 1953, un po’ meno nella nuova versione, ma sempre vittima), viene abbandonata al suo destino ed esce insalutata dalla storia.

Il finale è forse il momento meno indovinato in Parin¥tå 2005, un po’ troppo ‘bollywoodiano’ per un film diretto, recitato, fotografato e coreografato in maniera impeccabile: Shekhar, dopo lo scontro col padre, apre un passaggio nel muro della separazione, sfondandolo con una fontana di pietra che, come l’incredibile Hulk, sradica appositamente dal suolo, mentre la madre, l’amico, via via tutti gli invitati lo incoraggiano rumorosamente e Lalitå lo attende dall’altra parte. “Accendete a festa tutte le luci, è arrivata mia nuora”, esulta la suocera.

Nel film di Bimal Roy, tutto avviene in modo meno eccessivo. Shekhar corre a cercare Lalitå e la trova seduta in un angolo, al buio la prende per mano e quasi la trascina a casa, non dal terrazzo, stavolta, ma dall’ingresso principale. La conduce, per la benedizione, davanti alla madre (felice della scelta), che si meraviglia delle vesti dimesse di Lalitå, ma poi sorride ricordando l’episodio mitologico: “Oh, capisco, anche la dea Pårvat¥ dovette compiere una lunga ascesi per ottenere come sposo il dio Shiva”.

Ma… avrà poi fatto un buon’affare questa novella Pårvat¥? Un commento di Sarbari Sinha (A Bengali lost in Bollywood, in “The Hindu”, Jul. 15-19, 2005), con precisi riferimenti al romanzo, si chiede infatti cosa diavolo veda Lalitå in un uomo che quasi costantemente si dimostra dispotico e pieno di sé quando si trova in posizione di forza, indeciso e codardo quando invece è chiamato a rispondere dei suoi stessi atti e a difendere le proprie scelte. La meschinità e la pochezza di questo pusillanime ‘eroe’, a fronte della fedeltà assoluta e della forza d’animo di Lalitå, della sua accettazione di una vita di quasi vedovanza, determinata e senz’ombra di di autocommiserazione, sono tratti molto marcati nel romanzo di Sharatchandr e si ritrovano anche nei due film. Ahimè, quest’inconfondibile fisionomia ci riporta faccia a faccia con qualcosa che  speravamo di dimenticare: ecco infatti riecheggiare il lamentoso lamento del tristo fantasma, ecco riaffacciarsi l’urente fastidio dell’inestirpabile herpes zoster del cinema indiano, di Devdås, insomma, per farla breve. Ciò non sorprende nel film di Bimal Roy, che due anni dopo, nel 1955, avrebbe riproposto appunto il suo Devdås, tributo a P.C. Baruå  e congedo da Sharatchandr.  E, a conti fatti, non sorprende nemmeno nel film di Prad¥p Sarkår, viste le fonti di ispirazione. Ma ci turba: il nobile tentativo di Shyåm Benegal – rifare Devdås  per farlo a pezzi ­­– continua il suo viaggio nella frustrazione.

In Parin¥tå 1953, la debolezza caratteriale di Shekhar è più direttamente evidente, come la sua esitazione e il suo timore nell’affrontare le decisioni familiari e le convenzioni sociali che lo stanno separando dalla sposa. Qui non ci sono veramente buoni e cattivi: il padre, pur avido e imperioso, non è una figura determinante, anzi, è poco piu di una macchietta. La sua opportuna e rapida dipartita lascerebbe a questo Shekhar, non proprio di primo pelo, la possibilità di cambiare il corso degli eventi, ma si sa, il coraggio,  uno non se lo può dare. Anche quando alla fine si risolve al passo decisivo, rimane traccia di una pusillanimità di fondo: non può far a meno di scaricare una buona dose di colpa su Lalitå. “Continuerai a tormentarmi standotene in silenzio?”, brontola, mentre la porta dalla madre per la presentazione ufficiale.

In Parin¥tå 2005 viene  invece fornito un  ‘cattivo’ a cui affibbiare gran parte delle responsabilità: il padre, sinistra figura di capitalista senza scrupoli, non priva di fascino, alla cui dominante personalità Shekhar non riesce a sottrarsi. Nav¥n, che conosce l’orgoglio temperamentale e la fragilità psicologica del figlio, non ha difficoltà  a metterlo contro Lalitå: “Quella ragazza…Che bisogno aveva di rivolgersi a Gir¥sh [per i soldi]? Sai perché si è rivolta a lui invece di chiederli a te? Perché pensa che tu sia un impotente buono a nulla che vive alle spalle del padre, [con significativo code-switching in inglese] a good-for-nothing impotent idiot. Will you let her think that?” In realtà è quello che Nav¥n stesso pensa del figlio. Shekhar, infatti, investe Lalitå con le stesse parole usate da lui: “Quelle come te…” e Lalitå completa, ricevendo in cambio un tremendo ceffone: “Come ci chiama la gente rispettabile come voi? Prostitute, puttane? Sono parole di tuo padre, non tue, ma tu sei come lui”. Solo nella scena finale Shekhar trova il coraggio di opporsi al potere del padre, al quale comunque imputa ogni colpa, pur riconoscendo la propria ignavia. Ma anche mentre sta abbattendo il muro, l’ordine imperioso di Nav¥n – o la Voce, per dirla con Dune – riuscirebbe ancora a fermarlo, se l’intervento della madre e dell’amico non soffocassero il “lato oscuro della Forza”.

Un’ultima annotazione su Parin¥tå  2005. La sequenza iniziale, come quella finale, è commentata da un’inconfondibile voce narrante, quella di Amitåbh Bachchan. In questo ruolo – in cui tanti anni fa l’avevano scelto Mrinål Sen (per Bhuvan Som, id., 1969) e Satyajit Råy (per Shatranj ke khilår¥/I giocatori di scacchi, 1977) – lo troviamo sovente nei (pochi) film dove oggi non compare tra i protagonisti.

Signor Big B, è sempre un piacere!

 

Cecilia Cossio