Didattica Indiana: Profilo di Adoor Gopalakrishnan

Adoor Gopalakrishnan è una figura di spicco del cinema del Kerala. Il regista si avvale spesso di percorsi circolari, come dinamica che si avvolge su se stessa: il protagonista trova la sua dimensione in un preciso impianto storico e l'affresco della società si specchia nell'agire del singolo.


Bisogna incominciare dalla geografia, è questo che insegnano nelle scuole. Il ragazzo deve avere una mappa molto chiara dei luoghi che visiterà, altrimenti rischia di perdersi, incapace di orientarsi tra paesi e contrade sconosciute. Seguendo questo stesso principio, il catalogo della 33° Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro, dedicato al Kerala, esordisce con una cartina geografica, in cui il paese di lingua malayalam si evidenzia come una breve striscia nera lungo la costa sud-occidentale dell'India. La soluzione adottata materializza la distanza che ci separa da quest'universo. La comprensione del cinema di Adoor Gopalakrishnan, che del Kerala è - dopo la prematura morte di John Abraham (autore del fantastico Amma Ariyan, Lettera alla madre, 1986) - la figura di spicco, risente in primo luogo di questa cesura. Non è solo la lingua parlata - che comunque è come l'ombra della incomunicabilità tra film e spettatore - ma soprattutto l'informazione sul costume e sulla società a venire meno. Mai come in questo caso evidenti vengono a galla quelle categorie che regolano la nostra percezione: Occidente ed Oriente. Nell'intervista con il regista abbiamo avuto l'impressione di trovarci di fronte ad un altro modo di considerare la realtà e di utilizzare i propri meccanismi intellettuali per comprenderla. Non a caso i film che ci hanno maggiormente colpito sono quelli in cui una struttura letteraria o un impianto teatrale funge da filtro primario della realtà: Vidheyan (Il servile, 1993) e Mathilukal (I muri, 1990) oltre all'affascinante Anantaram (Monologo, 1987). Eppure le prime opere - dove la messa in scena della realtà, attraverso la ricostruzione di situazioni precise e l'attenzione per il valore di ciò che viene inquadrato, lascia il posto al piacere della narrazione - sono quelle a restare maggiormente vive nel ricordo. Quando Gopalakrishnan - come in Kodiyettam (L'inizio delle festività, 1977) - affronta direttamente la società del Kerala, abbandonandosi al suo fascino, si ha l'impressione che la sua arte tocchi l'apice, come dispiegasse di fronte a noi, ignari viaggiatori, una mappa incredibilmente articolata del suo paese.

D'altra parte, Adoor Gopalakrishnan è in un certo senso lo specchio fedele della regione da cui proviene e a cui ha deciso di restare legato. Il Kerala è lo Stato più piccolo e più povero dell'India, ma è anche quello con il maggior tasso di alfabetizzazione. Allo stesso modo le sue opere appaiono come dei libri aperti sui temi più disparati, rivelando attraverso il potere del racconto e l'utilizzo di un'immagine dai colori saturi e sempre finemente riprodotta, un'impressione di superficialità e di didascalismo. In realtà, la cura dei particolari storici e psicologici e il loro richiamarsi in strutture sempre più ampie lasciano intravedere un'abilità nel costruire opere a più livelli, difficilmente riscontrabile nell'industria occidentale.

L'immagine simbolo di questa saggezza che si maschera di innocenza è forse racchiusa nel capolavoro indiano di Renoir (The River). L'episodio in cui il bambino trova la morte a causa del serpente conserva, nella sua facilità d'esecuzione, un mistero ed una complessità difficilmente descrivibili. Stesso segreto sembra emanare dalla figura della giovane donna in Anantaram. Si resta attoniti di fronte all'arte di questo regista, capace di una lucidità che la superficie delle sue opere non lascia presagire. Tutto avviene nello stesso tempo: realtà e magia (del cinema), documento storico e metafora convivono tranquillamente nella stessa immagine. I critici non-indiani hanno sottolineato come i suoi film lavorino dopo la visione, restino nella mente e lì costruiscano nuovi percorsi. In realtà è già durante la proiezione che il film scava altre strade, tanto che queste, a visione conclusa, sono già perfezionate. Come Gopalakrishnan ha insistito a proposito di Anantaram, il cinema è innanzitutto un problema di percezione. Tutto si gioca nell'atto percettivo: nel ricevere le immagini si creano storie differenti, si stabiliscono rapporti particolari tra la sensibilità dello spettatore e i temi che il film mette in scena.

Questa stratificazione raggiunge forse il suo culmine in Kathapurushan (L'uomo della storia, 1995). Qui davvero tutto entra in gioco: dalla storia del Kerala fino all'evoluzione di una singola cellula familiare. E tutto, come sempre, trova la sua unità in una figura centrale - punto di raccolta delle informazioni e ragione dello sguardo e dell'indagine del regista. L'uomo della storia racchiude le varie dimensioni che Gopalakrishnan ha trattato: dalla gioia della vita coniugale del primo Swayamvaram (Matrimonio per scelta, 1972) alla sofferenza per un contrasto insanabile con la società dello scrittore-prigioniero politico di Mathilukal. Seguendo la tradizione della narrazione orientale, Gopalakrishnan si avvale spesso di percorsi circolari. Tutto ritorna, non nel senso elementare di ripetizione ciclica della Storia, bensì in direzione di una dinamica che si avvolge su se stessa: il protagonista trova la sua dimensione all'interno di un preciso impianto storico e l'affresco della società si specchia nell'agire del singolo come suo esempio concreto e vivificante. I film più riusciti in questa direzione richiamano le produzioni televisive di Rossellini, un autore che con la cultura indiana ha avuto più di un rapporto. Non solo per un'effettiva comunione estetica, ma soprattutto per l'applicazione di un metodo in cui una struttura minuziosa non interferisce con la suddetta verità. Anzi la amplifica. Verità cinematografica - preciserebbe subito Gopalakrishnan - quella particolare verità che preleva dalla totalità del reale una parte e la espone in quella sala delle magie che è l'oscurità del cinema.

Carlo Chatrian