Ten– Dieci sequenze per raccontare la donna iraniana

Kiârostami, in Ten, non si interessa più del rapporto tra l'uomo e la natura, come nei precedenti film, ma tra l'uomo e la cultura, in particolare tra l'uomo e la donna, raccontando di come la condizione femminile dipenda sempre e comunque dalle esigenze e dalle pretese maschili. Il tutto senza che la mdp mostri mai un uomo sulla scena

 

 

 

 

Dopo avere, in film come E la vita continua, Sotto gli ulivi e Il vento ci por-terà via, scandagliato il rapporto dell'uomo con la natura, Kiarostami sembra ora interessato a quello con la cultura, termine che nello specifico assume un significato di ampia portata. Possiamo, infatti, ricondurre all'ambito culturale sia gli effetti della modernizzazione, qui rappresentati dal caos sonoro e dal traffico congestionato che sono tipici della grande città, sia i parametri sociali che regolano o condizionano i rapporti fra uomini e donne. A queste ultime è essenzialmente dedicato il film, che sarebbe opportuno accostare (o rivedere insieme) a Il cerchio di Panahi, per verificare come la trattazione del medesimo tema – la condizione femminile, la sua dipendenza dalle esigenze e dalle pretese maschili – possa dare luogo a strutture narrative e figurative del tutto opposte, ma anche, in qualche modo, complementari. Laddove infatti Panahi coniugava la coralità del ritratto ad un repertorio iconografico sempre mutevole e ad una forte mobilità della m.d.p., Kiarostami decide di ingabbiare l'intero racconto dentro all'abitacolo di un automobile, lavorando dunque essenzialmente sui primi piani dei volti di coloro che si trovano nella vettura. La scommessa allora consiste nel raccontare la donna iraniana senza muoversì da lì, dai due sedili anteriori della macchina e da chi li occupa, puntando tutto sulla direzione degli attori e sulla forza del copione.

La protagonista è la guidatrice, figura di ragazza indipendente, dalle cui parole trapela un'intensa vita professionale ed una travagliata vita sentimentale (ha mollato il marito, sta con un altro uomo), ma soprattutto un'orgogliosa rivendicazione delle scelte che le hanno determinate. I suoi interlocutori cambiano di volta in volta, a seconda delle circostanze che la inducono a scarrozzarli da una parte all'altra della città. Tutti però in qualche misura rappresentano una sfida, voluta o implicita, al suo modo di vivere. Il passeggero più frequente (torneremo su questo dettaglio) è il figlio, ragazzino petulante e insofferente, già pieno dei pregiudizi che lo faranno diventare, nel giro di qualche anno, un adulto dispotico e prepotente. I suoi continui rimproveri nei confronti della madre, che ne mettono in discussione la libertà di azione (perché non passi più tempo con me?) e di sentimento (perché non torni a vivere con papà?), trovano parzialmente eco nelle affermazioni della sorella di lei, preoccupata per l'inquietudine del nipotino, ed incline ad attribuirla alla scarsa presenza (ed influenza) dei genitori.

Ci sono poi passeggere occasionali, esterne al nucleo familiare della protagonista, che nondimeno manifestano comportamenti e convinzioni di tutt'altro indirizzo: un'anziana signora che si rifugia nella fede per lenire il dolore provocato dalla morte del figlio; una prostituta che sbandiera a mo' di corazza il proprio totale cinismo nei confronti degli uomini e, sul versante opposto, una ragazza emotivamente vulnerabile, che soffre perché il suo partner è tutt'altro che propenso a rendere stabile e duratura la loro relazione. Di volta in volta, la ragazza raccoglie confidenze e confessioni, ascolta e ribatte, oppure contrappone il suo punto di vista a quello dell'interlocutrice, proponendole soluzioni possibili, o provando a scalfirne le idee. In questo modo, evidenzia a sua volta una personalità che – pur nella strenua affermazione della propria autonomia – è comunque pesantemente condizionata dal fatto di vivere in una società modellata a immagine e somiglianza dell'uomo.

Se in Panahi l'oppressione maschile si toccava con mano, qui tutto rimane fuori campo, ad eccezione delle ripercussioni psicologiche, sociali e comportamentali che essa determina sulle figure femminili, puntualmente evidenziate dalle parole in libertà che scorrono fluenti in questa sorta di automobile-confessionale. A rappresentare l'altro sesso c'è solo il figlio, a cui Kiarostami concede però più spazio che agli altri personaggi (è protagonista di ben quattro dei dieci incontri con la ragazza), senza dimenticare che si tratta appunto di un bambino, anziché di un adulto. Quasi che il regista volesse rammentarci che la supremazia maschile nella società iraniana è destinata a continuare, ha il futuro assicurato, grazie ad un'infanzia già ben disposta a relegare le donne ad un ruolo subalterno. Un Kiarostami questa volta più attento alla dimensione dell'attualità che a quella della spiritualità, che rinnega inoltre una delle componenti essenziali del suo cinema, il paesaggio, per operare in profondità sul piano della sceneggiatura e della direzione degli attori. A conferma che la vitalità del cinema iraniano dipende non solo da un vasto numero di registi di qualità, ma anche dalla loro inesauribile curiosità, che si traduce in un notevole eclettismo, alla co-stante ricerca di un modello di messa in scena capace di coniugarsi efficacemente all'argomento trattato.

Leonardo Gandini