Variazioni sull'infanzia - Il tempo dei cavalli ubriachi

Il regista curdo, nel suo primo lungometraggio, lavora sulla costruzione dell'inquadratura, sulle diverse dimensioni dell'infanzia, dell'adolescenza, dell'età adulta, sulla crudeltà del reale, per creare un cortocircuito cinematografico incarnato da Madi, ragazzo di quindici anni, affetto da nanismo. Un adulto-bambino e un bambino-adulto.

 

 

 

 

VARIAZIONI SULL'INFANZIA: IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI

di Bahman Qobadi

Titolo originale: Zamani barayé masti asbha. Regia e sceneggiatura: Bahman Qobadi. Fotografia: Saed Nikzat. Montaggio: Samad Tavazoee. Musica: Hossein Alizadeh. Interpreti: Ayoub Ahmadi (Ayoub), Rojin Younessi (Rojin), Amaneh Ekhtiar-dini (Amaneh),Madi Ekhtiar-dini (Madi), Kolsolum Ekhtiar-dini, Karim Ekhtiar-dini, Rahman Salehi, Osman Ka-rimi, Nezhad Ekhtiar-dini e gli abitanti delle città di Sardab e Bané. Produzione: Bahman Ghodabi per Bahman Qobadi Films/Farabi Cinema Foundation/Mk2. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 80'. Origine: Iran/Francia, 2000.

In un villaggio kurdo al confine tra Iran e Iraq vive una famiglia composta da cinque fratelli. Il secondo di loro, Ayoub, accetta qualsiasi occupazione pur di guadagnare il denaro necessario per far operare il fratellino Madi, affetto da nanismo per una grave malattia alle ossa. Ad aver cura di lui lo aiuta la sorellina Amaneh. Ayoub si muove ai limiti della legalità, accettando di trasportare merci attraverso il confine iraniano, in una zona dove sono seppellite ovunque mine antiuomo. In più, il confine è spesso pattugliato dai militari: le imboscate e gli agguati si moltiplicano con frequenza.

Il fratello maggiore muore proprio in uno scontro a fuoco. Lo zio dei ragazzi diventa quindi il nuovo capofamiglia, ma è sempre Ayoub a farsene maggiormente carico. Pur lavorando fino allo stremo delle forze, però, non riesce a mettere insieme la somma necessaria per l'operazione di Madi. La sorella maggiore decide quindi di sposare un irakeno, a condizione che Madi si trasferisca con la nuova famiglia, per essere curato dalla suocera, ma l'affare salta e Madi resta con i fratelli. La sorella se ne va con lo sposo e alla famiglia di Ayoub viene donato – come indennizzo – un mulo, utile per gli scambi oltre il confine. Ayoub parte con Madi, unendosi a un gruppo di contrabbandieri diretti in Iran, con l'intenzione di vendere il mulo per pagare l'operazione al fratello.

L'accidente

«L'accident dont je voulais parler n'est peut-être que notre arrivée consciente, hébétée dans une histoire déjà commencée».
(Jean Louis Schefer)

[...] I primi dieci minuti del film sono importanti. Sono quelli che immettono nell'azione, in media res. Ci immettono in una storia che è già iniziata da tempo. Una storia che inizia e procede da tempo immemorabile; si ripete, scandita dalle ore, quotidianamente, a macchie geografiche (in Cina, a Taiwan, in Sud America, in Africa); sono gesti, situazioni che si ripetono, movimenti che il cinema ha captato (Los Olvidados, Germania anno zero, Sciuscià...). [...]

Che cosa vediamo in questi dieci minuti? Un formicaio. Uomini, donne, ragazzi e ragazze che si spostano velocemente tra le stanze labirintiche di un mercato. È un brulichio di gesti, di voci, urla seguiti dalla camera a spalla: un'onda che diventa rumore di fondo. Movimenti impellenti, a volte sgraziati. Tra i vari avventori, tra i vari ragazzini che chiedono un lavoro, pronti ad offrire manodopera, precisione e professionalità, ecco Ayoub, inginocchiato, intento ad incartare i bicchieri acquistati da un passante. I suoi gesti sono precisi, come quelli di una macchina automatizzata. Ogni tanto alza la testa, come se volesse controllare qualcosa. Il suo sguardo incrocia quello della sorella. È una questione di istanti. Servono sei ragazzini per scaricare e poi ricaricare la merce su un camion e trasportare il tutto oltre confine.

Ayoub lascia i bicchieri e si getta nella mischia. Chiama la sorella e le ordina di recuperare Madi. (Chi è Madi?). Una sagoma gialla entra nel piano. Un accidente. Per un istante il mercato, le voci, il doppiaggio, il film stesso non ha più importanza.Un accidente improvvi-so. Il film si blocca, s'inceppa, anche se la proiezione prosegue normalmente. Madi è l'accidente. Una sagoma gialla (il giallo di un impermeabile), due occhi neri come palline di gomma (ma certo, sono gli occhi di Popeye, «l'uomo più piccolo del normale» che William Faulkner descrive nelle prime pagine di «Sanctuary»; quell'essere con «piccole mani di bambola», e gli occhi simili a palline di gomma «come se fossero state conficcate nelle orbite con una ditata e rischizzassero fuori segnate dalle impronte concentriche del pollice»). Da questo momento in poi il film non sarà più quello di prima. Non importa il cinema dei paesi arabi (iraniano, egiziano, marocchino...), quello postmoderno, quello citazionista o peggio minimalista. Non importa il mercato, la finzione, il tono documentaristico. Qualcosa si stacca, si emancipa, inceppa gli ingranaggi: Ayoub, Amaneh, Madi trasformano il film in una serie di variazioni su un tema, il cui dramma è interamente costruito sulle loro azioni, sui loro gesti e sulle poche mirate scelte di messa in scena di Bahaman Qobadi (la trama giustamente evapora. Restano, a volte, gli spazi bianchi – quelli di un panorama nevoso – a fare da interpunzione, a separare le sequenze...). Ayoub, Amaneh e Madi caricano il peso del film sulle loro spalle.

Ma qual è il tema di cui stavamo parlando? Questo tema non può essere altro che quello di un'infanzia finita precocemente, in cui al bisogno fa da contrappunto il desiderio; un'infanzia il cui candore lascia emergere un'aura crudele. Questi ragazzini sono in realtà adulti cresciuti troppo in fretta, e lo sono diventati per necessità, innocentemente. Il tempo dei cavalli ubriachi non fa altro che ripetere questo strano e implacabile gioco di sproporzioni tra le figure in campo. Ogni cosa trova la sua verifica incerta nelle dimensioni, nelle loro irregolarità segnalate dalla macchina da presa: ingrandimenti, variazioni scalari, declinazione di segmenti sproporzionati (corpi, oggetti, paesaggi). Oggetti e dimensioni: qualcosa si trasforma nell'essenza stessa dei sentimenti. Che cos'è la macchina da presa se non un evidenziatore, un misuratore di distanze?

Prendete la sequenza al confine con l'Iraq. I ragazzini vengono fatti scendere dal camion, messi in fila e perquisiti dai militari. In questa massa umana che diventa uno steccato nerastro improvvisato tra la neve, un pettine sdentato, una piccola macchia gialla attira il nostro sguardo. In un unico piano possiamo notare le variazioni scalari, le diverse altezze su cui si gioca il film. Una è quella degli adulti (in questo caso dei militari). Un'altra è quella dell'adolescenza. Ma ne esiste una terza: si tratta di quella che traccia la sagoma di un ragazzo di quindici anni che ne dimostra tre. Su queste tre diverse dimensioni (altezze) si muove la macchina da presa di Qobadi, alternando, variando i piani, distanziandoli, lasciandone emergere l'incertezza, l'anomalia.

Pensate alla bella sequenza all'interno dell'abitazione familiare. Ayoub è appena tornato da un viaggio lungo il confine, faticando. Il tempo di bere un tè, scambiando due parole con il barista suo coetaneo, acquistando a credito uno strano foglio biancastro. La scena familiare è illuminata da una luce calda. All'interno della stanza, Amaneh disegna; una bambina e un'altra figura femminile siedono su un tappeto, Madi manovra una radio (Madi è un mutante: vederlo manovrare quella vecchia radio mi fa improvvisamente pensare a E.T., a un alieno in attesa di mettersi in contatto con la sua famiglia. Un'altra famiglia. Madi è un prodigio, un freak: è – paradossalmente – un essere che si è trasformato molto più velocemente di noi stessi. Per questo, quella radio diventa un ponte verso un altro mondo; Madi attende il suo mondo, un mondo che – per ogni freak – si attarda a nascere).

Qobadi riprende frontalmente Madi, la bimba e la ragazza più anziana. Ancora tre stadi, tre dimensioni, tre età in cui qualcosa stride: è l'ambivalenza della figura di Madi. Sproporzioni: Madi è un adulto/bambino e, insieme, un bambino/adulto. La bimba al suo fianco dimostra la stessa età – pensate a «Las Meninas», di Velásquez. Ma non è finita qui. Finalmente riusciamo a comprendere che cosa ha comprato Ayoub. È un regalo per Madi: qualcosa che egli desidera da tanto. Si tratta di un piccolo poster che egli appende alla parete. Sulla carta l'immagine di un body builder. Sul fondo della parete campeggia il poster. Il capo e la schiena di Madi riempiono il lato destro dell'inquadratura. Questione di dimensioni (capovolte, in questo caso). Nella stanza tutto tace. Noi sentiamo lo sguardo di Madi osservare quella montagna di muscoli. Questo silenzio è letteralmente insopportabile. Questo silenzio, questa composizione figurativa che perturba le di-mensioni umane, circoscrive un sentimento.

C'è un lato crudele nelle scelte filmiche di Qobadi. Una crudeltà che suona come un monito a non mentire sulla vita di queste persone; a non mentire sull'infanzia, sul freddo, sulle privazioni, sulla sporcizia, sui rapporti di forza tra consanguinei. Anche in questo caso gli esempi non mancano: pensate alle iniezioni a Madi, al percorso di Ayoub, che insieme ai contrabbandieri trasporta merce fino al confine, pensate alle dimensioni dei pacchi da trasportare (che Ayoub carica sulla sua schiena), alle dimensioni delle enormi gomme di trattore che vengono riempite di chissà cosa, e caricate sulla groppa dei cavalli. Gomme le cui dimensioni sovrastano quelle di Ayoub (per tacere di quelle di Madi). Pensate ai cavalli che bevono acqua e alcool per vincere la rigidezza del clima; ai cavalli presi a calci, frustati, esausti della sequenza finale, dove si comprende che la sproporzione non è solo loca-lizzata negli oggetti, negli animali, nelle figure,ma riguarda un intero mondo: è il mondo degli adulti che si mostra sproporzionato rispetto a quello di un ragazzino che, per necessità, deve con-viverci. Tanto sproporzionato da esplodere (uomini, ragazzini, cavalli, muli, gomme, spari, ogni cosa cade, si disperde, scivola giù, lungo un soffice scivolo biancastro, una pista da sci non ancora battuta, una collina innevata: in poche parole un intero mondo precipita). [...]

Ma forse la scena più istruttiva, in questo senso, è quella dello scambio matrimoniale, e del rifiuto della famiglia irachena di occuparsi di Madi. Ayoub, straziato, segue nella neve lo zio e il cavallo che trasporta la sorella maggiore, con Madi infilato in un sacco, come un bagaglio. La famiglia del futuro marito aspetta ai piedi di una collina. Ayoub si ferma, osservando la scena dall'alto. La sequenza è un susseguirsi di andirivieni, saliscendi lungo quest'ammasso di terra e roccia, dove la vita umana viene barattata come bestiame o mercanzia, dove i corpi non sono altro che cose. In questa lunga sequenza agonizzante, singhiozzante, prima Ayoub e in seguito Madi, fissano impotenti il lento fluire dei fatti. Dall'alto del colle. Le lacrime scendono sul viso di Ayoub. Ma è nell'istante in cui la macchina da presa inchioda in un leggero plongée il corpicino di Madi, avvolto nel giallo dell'impermeabile, in mezzo alla neve, con le mani tremanti, le piccole gambe ossute, le minuscole scarpe da ginnastica, i denti che battono, che ogni cosa appare così com'è real-mente: crudele, tragica, inevitabile . E ciò che vediamo fa male. E ciò che vediamo non è un gioco.

Similmente al fratello, anche Madi sembra osservare da lontano la sorella, distante. Campo e controcampo. Gioco di opposizioni crudeli, più che di sguardi. Tra la novella sposa e il resto della famiglia, la distanza si fa incolmabile. Lo zio e due fratelli si allontanano. Resta lo sguardo di Bahaman Qobadi, a fissare una donna scortata da sagome sconosciute, in viaggio nella direzione opposta.

Il tempo dei cavalli ubriachi, è stato realizzato da un regista kurdo-iraniano (un popolo – quello kurdo – senza "Stato", e che si ritrova disperso, oltraggiato, senza difese, come i personaggi di questo film). Questo è il suo primo film. A Cannes ha vinto il premio della Caméra d'Or per la migliore opera prima. Meritatamente.

Note
«A volte in questi quadri i nani si presentano frontalmente [...]. Le loro dimensioni sono sempre definite dal contrasto con bambini e adulti normali o con gli animaletti che erano i loro rivali o più semplicemente con i vasti spazi che abitano ma ai quali non corrispondono.Velasquez, che ne era os-sessionato più di ogni altro pittore, riuscì a inclu-dere nelle famose Las Meninas tutti e tre questi elementi di riferimento...». L. Fiedler, Freaks, Milano, Garzanti, 1981, p. 66. Ambivalenza dei freaks...

Si veda l'illuminante osservazione di Jean Louis Schefer, dedicata ai ragazzini di Los Olvidados, Germania anno zero, Sciuscià: «Questi ragazzi sono stati i soli attori metafisici della nostra infanzia, cioè di quel mondo senza la tortura o l'espressione del desiderio,e che ha conosciuto per l'ultima volta l'asprezza del bisogno fisico (questa strana verità senza limite di ciò che sono,allo stesso livello, il freddo, la pioggia, la richiesta d'amore, gli occhi negli occhi, l'arrossire, gli occhi abbassati o distolti, il sentimento di ingiustizia, le gambe nude marmorizzate dal freddo...». J.-L. Schefer, Allemagne neuz zéro, in «Images mobiles. Récits, visages, flocons», Paris, P.O.L., 1999, p. 118 (traduzione nostra). Il tempo dei cavalli ubriachi non fa che attualizzare e rinnovare la questione. 

Rinaldo Censi