Yi Yi - E uno... E due...

Profondità di campo, inquadrature elaborate ma invisibili, durata del tempo, centralità dei sentimenti. Per Edward Yang (ma il discorso è estendibile a tutto il cinema taiwanese più interessante, Hou Hsiao-hsien in testa) i precetti baziniani sono la materia viva attraverso la quale pensare il proprio essere cineasta.

 

 

 

 

YI YI - E UNO... E DUE...

 

Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Edward Yang. Fotografia: Yang Weihan. Montaggio: Chen Bowen. Musica e Scenografia: Peng Kaili. Suono: Du Duzhi. Interpreti: Wu Nianzhen, Kelly Lee, Jonathan Chang, Issey Ogata. Produzione: Shinya Kawai, Naoko Tsukeda per 1+2 Seisaku linkai, Pony Canyon Inc., Omega Project Inc. & Hakuhodo Inc. pres., Atom Films prod. Distribuzione: Istituto Luce. Origine: Taïwan/Giappone, 2000. Durata: 173 minuti.

Uno stupore cristallino pervade lo sguardo di fronte alla visione dell'ultimo capolavoro di Edward Yang. Ben 180 minuti di cinema che tentano consapevolmente di interfacciarsi con ciò che determina l'oscillare spiraliforme della vita stessa: una sottile membrana che accoglie i desideri del (nostro) vedere e sulla cui superficie si manifestano i segni di un agire che non cessa di pensarsi come differenza rispetto al reale. Ed è proprio questa invisibilità del cinema di Yang a stupire, a convincere della bontà del suo progetto. Nonostante oggi il 'saper girare bene' - banalissima categoria metaempirica attraverso la quale si assolvono narcisisti dell'immagine come P.T. Anderson o David Fincher, giustificando i peggiori esibizionismi formali - Yang opta lucidamente per una semplificazione del dispositivo di riproduzione (mettendo così in campo una superba maestria «umile», che sconcerta per la sua irriducibile modernità).

Profondità di campo, inquadrature elaborate ma invisibili, durata del tempo, centralità dei sentimenti. Per Edward Yang (ma il discorso è estendibile a tutto il cinema taiwanese più interessante, Hou Hsiao-hsien in testa) i precetti baziniani sono la materia viva attraverso la quale pensare il proprio essere cineasta. E in questa tensione di chiarezza dell'immagine (lo «splendore del vero» di cui scriveva Godard a proposito di Rossellini è estensibile anche a un film come Yi-Yi), Yang si tende consapevolmente verso gli uomini. Il cinema, perseguendo così radicalmente – genuinamente - la propria specificità linguistica, rivela infatti tutto il precipitato della propria inevitabile «democraticità» in un unico movimento «visivo» e «concettuale». Così, nello spazio di una singola inquadratura (in Yi-Yi il miracolo si ripete in continuazione, ma non per questo è meno «miracoloso»...) si saldano, senza sforzo alcuno, un «dire» (che è una precisa presa di posizione nei confronti del mondo) e una «poetica» (risultante dell'articolarsi strategico di una dialettica tra il mondo e lo sguardo, sotto forma di inquietudine e di inchiesta).

Regista fortemente teorico - nel senso che ogni suo film è anche una riflessione sullo stato dell'evoluzione del proprio progetto cinematografico - Yang giunge con Yi-Yi a realizzare una forma laica di cinema trascendentale. Certo, Ozu sembra essere il riferimento principale del film, ma non vi è mai compiacimento di secondo grado. Individuando anzi nella famiglia il nucleo base del proprio film, Yang si muove a circoli concentrici, alla ricerca non di modalità attraverso le quali sezionare lo spazio filmabile, ma tentando di intuirne i punti di maggiore permeabilità, quegli snodi cioè dove il farsi della solidarietà diventa visibile e si manifesta come epifania di cinema (che in questo modo diventa dunque il prodotto di un essere dentro l'articolarsi della vita stessa, piuttosto che del cinema). Vi è dunque un rispetto profondo dell'unità dello spazio in Yi-Yi. Eppure questo atteggiamento di Yang non rimanda a una presunta integrità dei sentimenti dell'agire umano. Muovendosi attraverso lo spazio come se lo sguardo potesse cauterizzare le ferite e le lacerazioni che gli umani s'infliggono, Yang non può fare a meno di inventariare gli infiniti dolori che si agitano di fronte ai suoi occhi. Ma, pudico oltre ogni dire, non indugia; e nemmeno finge di non vedere. La sua scelta è l'empatia, «l'essere con» nello spazio di una medesima inquadratura, in un tempo che nel suo fluire invisibile, impercettibile, tenta di suggerire possibilità di «altre vite».

In questo modo, mosso dalla volontà democratica di essere presente nel mondo come testimone, Yang riesce a intuire devastanti aperture verso realtà ulteriori (cosa tematizzata dal bambino, che fotografa dal punto di vista della nuca). Si tratta infatti di contribuire a far vedere ciò che non può essere detto. E solo la compassione nei confronti degli uomini (intesa come condivisione di un essere in uno stesso luogo, svolgendo il medesimo lavoro...) può permettere a Yang di intuire (suggerire...) quegli snodi nei quali la presenza del mondo si rarefa rivelando un «oltremondo» che è inevitabilmente anche un «oltrecinema».

Tutto il cinema più necessario del momento sembra interrogarsi sulla propria (possibilità di) durata (nel senso di merce) e capacità di intervento nel mondo (ormai avviato alla globalizzazione). E tutte le formulazioni più interessanti di questi risposte sembrano comportare una (inevitabile?) riduzione di «cinema», quasi come se un eccesso di immagini ci impedisse vedere il mondo. Non stupisce quindi se Edward Yang si conferma interlocutore privilegiato di chiunque abbia a cuore le sorti di ciò che resta del cinema.

Giona A. Nazzaro