All'infermo e ritorno - prima parte

Nel 1947 l'India britannica si divide in due stati sovrani, India e Pakistan, con scontri e massacri intercomunitari di proporzioni spaventose. Il cinema evita a lungo di affrontare questo evento, con alcune eccezioni: Dharmputr e Subarnarekha, all'inizio degli anni Sessanta, e Garm hava nel 1973.

ALL'INFERNO E RITORNO Prima parte

 

"Allo scoccare di mezzanotte, nell'ora in cui il mondo dorme, l'India si sveglierà alla vita e alla libertà. Sta per giungere uno di quei momenti, tanto rari nella storia, in cui gli uomini lasciano il vecchio per il nuovo, in cui un'epoca finisce e l'anima di una nazione, lungamente costretta al silenzio, trova finalmente espressione".

Queste parole di Nehru, pronunciate la sera del 14 agosto 1947, vigilia dell'indipendenza, si prestano a un'ironia sinistra alla luce della tempesta già iniziata e procinto di rovesciarsi come un cataclisma (...) sui due stati-nazione nati dalla partizione del paese: i due tronconi del Pakistan e, in mezzo, l'India. Proprio a questo momento della storia indiana ci riporta Karvan (Shadows in the dark; lett. "carovana"), il film di Pankaj Butalia. Karvan si alterna tra diversi spazi temporali (la partizione e gli anni immediatamente successivi, una quindicina di anni più tardi e oggi) e due generazioni di due famiglie, quella hindu di Devan Chand e quella musulmana di Zamir Miyan:

 

Devan Chand arriva a Delhi, profugo da Lahore, con la moglie Bhagvati, incinta, e viene alloggiato in un'ala di una casa requisita per l'occasione. Qui abita Zamir Miyan, il cui figlio è stato appena ucciso durante i tumulti; con lui vivono la nuora Farida e il nipotino Jamal. Bhagvati dà alla luce un bambino, Gautam. Qualche anno dopo vengono raggiunti dalla sorella di Devan Chand, Lajjo, scomparsa durante i disordini. Con lei, che ha perso l'uso della parola per le violenze subite, c'è una bambina di cinque anni, sua figlia Lajma. Le vicende delle due famiglie e i rapporti che legano i tre bambini diventati adulti prendono forma principalmente attraverso i flashback innescati dai ricordi di Lajma, tornata dal Pakistan dove si è trasferita e dove ritorna alla difficile ricerca del passato.

(...) La scelta del soggetto induce a una riflessione sul significato e sulle conseguenze della partizione, in termini socio-culturali (trascurando quelli economici e senza chiedersi chi la volle e chi la determinò, questione su cui gli storici non sono affatto concordi). I confini dei due paesi vennero tracciati da una commissione presieduta dal giurista Cyril Radcliffe, assistito da quattro giudici del Bengala e quattro del Panjab, metà del Congresso e metà della Lega musulmana: decisioni prese sulla carta e astratte dalle realtà fisiche e umane delle regioni che si dovevano letteralmente tagliare. Quando furono rese note, gli scontri sanguinosi che già imperversavano da un anno andarono assumendo proporzioni terrificanti, sia sul confine orientale sia su quello occidentale, ma soprattutto in Panjab, dove villaggi interi e folle di profughi hindu, sikh e musulmani furono sterminati. Si calcola che dodici milioni di persone attraversarono i confini nelle due direzioni, accompagnati da treni carichi di cadaveri, "dono dell'India" e "dono del Pakistan", mentre il numero dei morti, ancora incalcolato, si avvicina al milione. Le notizie di quanto avveniva sui confini, arrivate a Delhi con i rifugiati, provocarono un'ondata di ritorsioni sui musulmani. Gandhi riuscì incredibilmente a riportare un minimo di ragione negli animi esacerbati; a ciò contribuì anche il suo assassinio. Forse bisognerà paradossalmente ringraziare Nathuram Godse, l'estremista hindu che gli sparò, se la tragedia non assunse proporzioni ancora più immani.(...)

La lacerazione traumatica del paese, con l'infezione di odio e terrore che si porta dietro, lascia una cicatrice sanguinante, difficile a rimarginarsi, e una condizione ancora più difficile per gli indiani musulmani, divenuti improvvisamente stranieri in patria, ospiti nella propria casa, la loro lealtà e appartenenza all'India sempre guardata con sospetto, perché "nel cuore di ogni musulmano c'è una finestra aperta sul Pakistan". Così scrive Rahi Masum Raza, grande personalità letteraria e umana, musulmano perché nato in una famiglia musulmana, assolutamente laico e visceralmente indiano, che nella sua opera porta impresso il marchio della partizione. Il Pakistan, che doveva separare i musulmani dagli hindu, finisce per separare anche padri da figli e fratelli da fratelli, diventando "il cordone ombelicale" stretto intorno alla gola di chi è partito, di chi è arrivato e di chi è rimasto, tutti, ma soprattutto i musulmani, "aquiloni dal filo spezzato". Per la generazione di oggi, il Pakistan è un fatto compiuto, un dato acquisito. Ma per chi ha attraversato la partizione già adulto, sradicato da un contesto familiare e trapiantato in uno estraneo, ostile e disgregato, per chi ha trascorso in essa gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, il Pakistan "non è come dio che bisogna crederci anche se non si vede. Perché il nome di un nuovo paese conquisti la lingua c'è bisogno di molte generazioni. Che ne sarà della generazione di mezzo? Di queste generazioni sospese a mezz'aria?"

Il cinema, a cui lo stesso Rahi Masum Raza dedica gran parte della vita e dell'opera, e che raggiunge un pubblico molto più vasto rispetto alla letteratura, inizialmente evita in genere di affrontare quei momenti, il cui ricordo e i cui effetti sono ancora troppo sensibili, o sceglie modi traslati per raccontarli. Con alcune eccezioni: nel 1960 arriva sullo schermo Chhāliyā, prima regia di Manmohan Desai, che diventerà in seguito il maggior regista dei masala (lett. "spezie"; film popolar-commerciali) di trista fama. Pur con i limiti e i caratteri del cinema polare, che richiede commedia e tragedia, violenza e amore, canzoni e preferibilmente lieto fine, Chhāliyā tocca un tasto molto delicato:

A Lahore, Shanti e Keval, appena sposati, vengono separati in seguito ai disordini. Le loro famiglie riparano a Delhi, insieme a Keval, mentre Shanti, che non sa di essere incinta, rimane bloccata in Pakistan, salvata e protetta da un bandito afghano. Dopo cinque anni, con il figlio Anvar (nome musulmano, per motivi di sopravvivenza) riesce ad arrivare a Delhi, in un campo profughi. I genitori fingono di non riconoscerla, mentre il marito la abbandona quando sente il nome del bambino. Shanti trova protezione presso Chhāliyā, ladro gentiluomo e innamorato di lei, che riuscirà a riconciliarla con marito e famiglia.

Come sempre in queste circostanze, quella della donna è una tragedia dentro la tragedia. Stupri, individuali e collettivi, e rapimenti a scopo di prostituzione colpirono equamente donne di ogni comunità; appena fu possibile, i due stati avviarono trattative per il rimpatrio delle sopravvissute. In Karvan ne abbiamo un esempio col personaggio di Lajjo, il cui ritorno crea grande imbarazzo al fratello, che ben presto la farà rinchiudere in un istituto creato proprio per le donne vittime della nascita delle due nazioni. Lajjo è ancora fortunata, rispetto a tante sue sorelle di sventura, portate via dalla loro Patria per essere accolte nel loro Stato, come dice Yashpal, grande scrittore di lingua hindi, nel suo romanzo maggiore, Jhutha sach (Il falso vero, 1958/60), che copre il periodo dal 1945 al 1957. La sorte di molte tra loro è emblematicamente rappresentata dal personaggio di Banti, hindu, violentata dai musulmani, finita presso un mercante di donne, successivamente liberata e portata in un campo profughi. La famiglia e il marito rifiutano di riaccoglierla in casa, per non essere macchiati dalla sua "vergogna", e Banti si uccide sbattendo ripetutamente la testa sulla soglia di casa.

Dharmputr (Figlio per fede, 1961), realizzato dai fratelli B.R. e Yash Chopra, illustre famiglia cinematografica attiva dal 1950, è ambientato tra il 1925 e il 1947. Anche qui ci sono due famiglie, una hindu e una musulmana, ma legate da profondi vincoli d'affetto:

Per evitare alla giovane Bano, musulmana, il disonore di una maternità al di fuori dal matrimonio, la famiglia hindu ne alleva come proprio il figlio, che viene chiamato Dilip. Crescendo, Dilip diventa sempre più settario e anti-musulmano, con sgomento dei "genitori". Durante gli scontri della partizione, minaccia di uccidere Bano e il marito Javed (suo padre), ritornati a casa dopo anni di assenza. È allora che la verità gli viene rivelata.

Il leitmotiv del film - l'appello all'unità tra hindu e musulmani - si esprime in diverse forme: voice-over che commenta gli avvenimenti e ricorda tra l'altro che "hindu e musulmani erano uno, sono uno e saranno uno"; flashback di momenti affettuosi di vita comune; e un simbolo architettonico, il terrazzo-ponte che collega le due case e che Dilip vorrebbe abbattere. Ma forse più interessante è il tema dell'identità dell'individuo, più complesso in India che altrove (...). Dilīp, così sicuro della propria identità perché certo delle proprie coordinate, si scopre improvvisamente nudo, senza direzioni e orizzonti, incapace di definirsi e di riconoscersi. Il nodo rimane, perturbante e sospeso sull'improbabile lieto fine.

L'anno successivo, nel 1962, viene realizzato il film bengalese Subarnarekha (Il fiume Subarnarekha), che esce solo nel 1965. A dirigerlo è una delle figure più straordinarie espresse dal cinema e dalla cultura indiana, Ritvik Ghatak (...) Come accade per Rahi Masum Raza, la vita di Ritvik Ghatak è segnata dalla partizione con la stessa intensità. Anche il confine orientale era stato teatro di massacri, al momento della divisione e durante l'anno precedente, e di esodi nelle due direzioni, benché di proporzioni meno vaste. Nel film non ci sono contrasti tra hindu e musulmani; l' "altro" è, eventualmente, l'intoccabile Abhiram, il bambino che il protagonista, Ishvar Chakravarti, prende sotto la sua protezione nel campo profughi, dove si trova con una bambina, la sorella Sita:

Un ricco ex-compagno di scuola di Ishvar gli affida la direzione di una fonderia, lungo il fiume Subarnarekha. Abhiram e Sita, cresciuti, vogliono sposarsi, ma Ishvar si oppone. I due giovani fuggono a Calcutta, dove vivono stentatamente con il loro bambino. Quando Abhiram muore in un incidente, Sita è costretta a prostituirsi. Invecchiato e solo, Ishvar viene trascinato da un amico per i locali di Calcutta e condotto ubriaco da una prostituta. Entra nella camera e si trova davanti la sorella, che si uccide con una roncola. Ishvar, rimasto senza lavoro e senza casa, prende con sé il nipote per portarlo alla "nuova casa" sul fiume, la promessa che fa da motivo conduttore film.

Attraverso la storia di un solo individuo, il regista racconta la condizione tutta dei rifugiati, tra i quali, negli anni seguenti alla partizione, regnò una spaventosa miseria; e accanto alla miseria, il senso di sradicamento e la perdita di identità e di valori, la disgregazione dei legami familiari e umani, la ricerca di una nuova dimensione in una nuova società urbana in rapida, disordinata e cruda industrializzazione. Eppure, come dice lo stesso Ghatak, "qualunque cosa ci sia in ciò che ho mostrato, non vi è disperazione", perché nonostante le tragedie, le sconfitte e le delusioni non viene meno la volontà di credere nella possibilità della speranza. Film di estrema complessità e potenza, Subarnarekha appartiene a una sfera diversa rispetto agli altri due citati, anche se fino ai tardi anni '60 non c'è ancora una netta - e nefasta - distinzione tra cinema "alto" e cinema "basso". Nel 1969, con Bhuvan Som (Bhuvan Som), di Mrinal Sen, la spaccatura comunque si ufficializza e nasce il "nuovo cinema". Da questo ambito, nel 1973, esce Garm hava (Vento caldo). A realizzarlo è un team legato all'IPTA (Indian Peoples' Theatre Association), creata nel 1943 da un gruppo di artisti e intellettuali di sinistra. Diretto da M. S. Sathyu, già regista teatrale, è basato su un racconto inedito della scrittrice Ismat Ghughtai, nome prestigioso della letteratura urdu contemporanea, come il poeta Kaifi Azmi che, oltre a scrivere i testi poetici, collabora alla sceneggiatura, in cui eccelle Shama Zaidi (moglie del regista e altrettanto nota). Il protagonista (anche scrittore) è Balraj Sahni nel suo ruolo più rilevante. Il film racconta di Salim Mirza, proprietario di una fabbrica di scarpe di Agra, e delle vicissitudini della sua numerosa famiglia nel periodo successivo al 1947:

Due fratelli, con le famiglie, e il figlio maggiore di Salim emigrano in Pakistan, mentre la fabbrica si avvia al fallimento: le banche sono restie a concedere prestiti ai musulmani, per timore di emigrazioni. La casa avita, intestata al fratello maggiore di Salim, viene requisita e assegnata a un commerciante del Sindh, in base ad un provvedimento per la sistemazione dei profughi (...). L'anziana madre muore poco dopo il trasferimento in una casa d'affitto. La giovane figlia Amina, dopo aver dovuto rinunciare a sposare il cugino emigrato, sedotta e abbandonata dall'altro cugino che emigra a sua volta, si uccide. Sikandar, il figlio minore, pur diplomato, non riesce a trovare lavoro, soprattutto perché musulmano. Alla fine anche Salim si arrende e decide di partire per il Pakistan, con moglie e figlio. Lungo la strada per la stazione incontrano un corteo di protesta contro le ingiustizie sociali. Sikandar raggiunge il corteo e, dopo qualche momento di esitazione, anche Salim si unisce a loro.

Da un'atmosfera iniziale difficile, ma non chiusa a un'evoluzione positiva, il percorso narrativo si restringe verso scelte sempre più limitate, rappresentate visivamente dal passaggio dagli ampi spazi della casa avita alle anguste stanze dell'appartamento. Altre scene ricorrenti - Salim sempre più rassegnato che accompagna alla stazione parenti in partenza per il Pakistan o la costante diminuzione dei familiari intorno al tavolo di pranzo - sono simboliche del progressivo contrarsi delle possibili opzioni, fino al tragitto finale verso la stazione, sempre con lo stesso barrocciaio, la voce che scandisce il corso degli eventi. Ma il film non intende chiudersi alla speranza e Salim decide di lottare con civiltà e dignità per il diritto di vivere nel proprio paese. Garm hava, pietra miliare nel cinema indiano, è la prima opera post-indipendente a concentrare l'attenzione sulla condizione dei musulmani rimasti in India. E rimane isolata a lungo.

Cecilia Cossio
in 14. settimana internazionale della critica, 3-9 settembre 1999
catalogo a cura di Giuseppe Ghigi, La Biennale di Venezia-SNCCI, Il Castoro, Milano, pp.73-79.