Il giorno in cui sono diventata donna

Tre generazioni di donne, tre episodi solo apparentemente slegati tra loro per una condanna forte e chiara della condizione in cui vivono le donne in Iran. In un finale surreale le tre protagoniste si incontrano su una spiaggia: la strada per l'emancipazione sembra essersi aperta, ma il viaggio rimane ancora lungo e difficile.

 

ROOZI KEH ZAN SHODAMIl giorno in cui sono diventata donna di Marziyeh Meshkini

 

Tre generazioni di donne. Tre episodi apparentemente slegati tra loro. Nel primo Hava sta per compiere nove anni. È il suo passaggio alla "maturità". Oggi diventerà donna. La madre le dice che da oggi non potrà più giocare con il suo amico del cuore. Non potrà più uscire da sola con lui. Da oggi commetterebbe peccato se lo facesse. La bambina è tristissima e si dispera, vorrebbe almeno congedarsi un'ultima volta dal suo compagno di giochi. La madre e la nonna, dopo essersi consultate la lasciano libera ancora per qualche momento, fino a mezzogiorno, l'ora in cui lei è effettivamente nata nove anni prima. Secondo episodio. Durante una gara ciclistica femminile una ragazza è rincorsa prima da suo marito e poi dai parenti sempre più lontani, fino alle autorità del villaggio. Tentano di dissuaderla dal proseguire la gara. La minacciano: se continuerà nel suo gesto peccaminoso saranno costretti a cacciarla di casa. Lei resiste fino allo stremo. Poi, di fronte ai propri fratelli, e costretta a cedere. Terzo episodio. Una vecchina su sedia a rotelle arriva all'aeroporto. Vuole essere accompagnata al centro commerciale. Comprerà con il denaro di un'improbabile eredità tutte le cose che per una vita intera ha desiderato senza potersele permettere.

Opera prima della trentunenne Marziyeh Meshkini, gia aiuto-regista di Samira e di suo padre Mohsen Makhmalbaf (nonché sua seconda moglie) Roozi Keh Zan Shodam si distacca piuttosto chiaramente dai film del maestro. Se, infatti, a Makhmalbaf si devono sceneggiatura e produzione, e nell'aspetto visivo che Il giorno in cui sono diventata donna mostra le sue doti più originali. A cominciare dal bellissimo incipit che vede la piccola Hava uscire da una strana capanna/zanzariera sul tetto della casa. È, al mattino, il suo risveglio, ma è anche una nuova nascita. Come non scorgere, infatti, nel foro della costruzione che trema nel vento una sorta di altro ventre (più sociale che naturale) che tiene a battesimo, come presto scopriremo, la nuova Hava, non più bambina ma donna.

Efficace poi, sempre nel primo episodio, il più riuscito dei tre, il metodo che Hava utilizza per scoprire quanto tempo manca a mezzogiorno, cioè al suo forzato rientro a casa: un bastoncino infisso nel terreno. Ogni volta che Hava teme si sia fatto tardi ripete la prova e l'ombra del fuscello ogni volta e più corta. E noi sentiamo con lei questa angoscia, viviamo con lei questa agonia. Struggente e al tempo stesso ridicola la scenetta, infine, che la coglie presso la finestra a sbarre della casa dell'amichetto, a condividere l'ultimo lecca-lecca della sua infanzia. D'ora in poi la malizia degli adulti caricherà questo gesto ingenuo di altri significati, del tutto alieni naturalmente ai due bambini. Ma ormai è mezzogiorno, e la piccola non deve neppure tornare verso casa per ricevere il chador che la madre le porta e le impone mentre, ancora per strada, Hava sta vivendo i suoi ultimi attimi da bambina. Il secondo episodio è probabilmente il più rigoroso nell'assunto pur mostrando, nello svolgimento, i segni di un'evidente impasse. Vi si alternano, infatti, una serie infinita di carrelli e camera-car che seguono la protagonista, una giovane donna, nelle fasi alterne di una gara ciclistica. Salta subito all'occhio il contrasto tra le biciclette, tutte mountain bike nuove di zecca e coloratissime, e l'abbigliamento delle "atlete", rigorosamente vestite di nero e con i veli che impacciano i movimenti. Certo, la condanna e forte e chiara nei confronti di un paese che solo recentemente ha concesso alle donne di andare "liberamen-te" in bicicletta, un'attività prima ritenuta poco dignitosa per il genere femminile, come ha spiegato la regista in conferenza stampa, e tuttavia la schematicita degli incontri con i vari uomini, sempre a cavallo e sempre imperativi nei confronti della protagonista, alla lunga intorpidisce un po'i sensi, almeno allo spettatore occidentale.

Di ben diverso spessore il terzo episodio, in cui tutta l'atmosfera surreale della "vecchina allo shopping" pare uscita da una fiaba antica e moderna al tempo stesso. Anche qui, intendiamoci, la serialità è obbligata, dalla camera da letto al tinello, dal frigorifero al televisore, tutti gli stereotipi del benessere occidentale sono percorsi e proposti con poche o nessuna variante. Al centro commerciale c'e tutto. Tutto ciò per cui vale la pena vivere. Tutto quello che serve e basta a rendere felice un'esistenza. Il difficile è, avendo ormai una certa età, ricordare per bene le commissioni da fare. Ecco allora entrare in gioco i legacci multicolori alle dita adunche della vecchia. Non sono, come credevamo all'inizio il segno di qualche distinzione esoterica, ma soltanto un promemoria per i "desiderata" di tutta una vita, per ciò che si è soltanto potuto sognare da sempre.

E questo sogno, questa dimensione onirica non può che finire (un po' scontato?) in riva al mare. La vecchina spinge i suoi piccoli aiutanti, ragazzini che si guadagnano da vivere aiutando i ricchi che possono permetterselo a far compere nella città, a togliere dalle confezioni tutte le merci. Ma a che cosa serve un aspirapolvere su di una spiaggia, e come funzionerà un frigorifero senza la corrente? Il finale diventa ancor più surreale quando le tre protagoniste si incontrano. Hava d'altronde giocava in riva al mare mentre aspettava invano il suo compagno, e la gara ciclistica si svolgeva su di una pista asfaltata sempre in vista del litorale. L'anziana signora, caricati tutti gli acquisti su zattere improvvisate fatte di vecchi barili usati (si indica la provenienza della ricchezza?) guida la piccola flotta verso il largo.

Un finale aperto quindi, che può indicare soltanto il verso di un movimento, la direzione di un'evoluzione. La strada per l'emancipazione della donna iraniana si è aperta, ma il viaggio (vedi alla stessa Biennale anche il film di Jafar Panahi Dayereh/Il Cerchio) rimane ancora lungo e difficile.

Roberto Figazzolo