Makhmalbaf e L'elefante

Un profilo di Mohsen Makhmalbâf in occasione di una retrospettiva che il Torino Film Festival ha dedicato al regista nel 1996. Dall'apprendistato alla maturità, Tullio Masoni descrive le principali caratteristiche della sua poetica attraverso il commento dei suoi film chiave.

MAKHMALBAF E L'ELEFANTE

 

"La nostra storia di appassionati di cinema, del cinema nella sua interezza, ricorda l'elefante della poesia di Molavi. Nel nostro caso, l'animale sconosciuto (il cinema) non è stato rinchiuso in un luogo buio, ma addirittura sulla luna..."

"La verità era uno specchio
che cadendo dal cielo si ruppe.
Ciascuno ne prese un pezzo e,
vedendo riflessa in esso la propria immagine,
credette di possedere l'intera verità".
 Mevlana Rumi

 

Con la consueta sensibilità per quel che occorre, Cinema-Giovani di Torino ha raccolto segni e testimonianze per mettere assieme una retrospettiva capace di far conoscere un altro cineasta autentico dei nostri giorni. In verità Mohsen Makhmalbaf va ben oltre i confini del cineasta e si propone come scrittore e filosofo; ciò non deve stupire, perché sovente, dal cosiddetto "terzo mondo", giungono figure d'artista che la nostra supponenza vorrebbe perdute. A confronto con Makhmalbaf, che da estreme lontananze sa parlarci con una lingua familiare (finisce sempre così quando un autore che abbiamo fretta di eleggere a mito rivendica gli insegnamenti del neorealismo italiano), si è tentati, almeno per un momento, dalla domanda: "... chi dice che il cinema è morto, e che il Visconti di Bellissima appartiene solo alla Storia e al Museo?". Guardiamo le immagini di apertura di Salaam cinema (1995), uno dei film più ammirati al festival torinese: non è tanto il flash­back dell'antico capolavoro a colpire, ma piuttosto la sua "attualità". In altre parole qual travolgere di folla, quel premere inesausto fra bisogni primari e desiderio, riporta la nostra storia, così miope e proterva, così gerarchica, a un respiro planetario. Vivendo nel lavoro concreto di Makhmalbaf, Bellissima torna a far parte del presente.

L'incipit di Salaam cinema, peraltro, ha necessità sue proprie da esprimere. In primo luogo un fresco contrappunto fra realtà e finzione, come vedremo, l'esercizio del regista iraniano (ma ciò potrebbe valere per altri che si muovono fuori dalle rotte occidentali o, comunque, ai margini) non va confuso coi giochi manieristici del postmoderno; in secondo luogo un "dialogo tra affini". Il contrappunto anima la memoria, cioè usa il flashback, ma spezza anche sull'immediato: la folla di Bellissima entra in diretta nell'occhio della mdp e subito, come in differita, subisce la sgranatura della cinepresa. E un'alter­nanza che produce stacco — oltre a stravolgere in pochi secondi tutto un ordine temporale — per poi collegarsi al Kiarostami di Close-up. Ecco il "dialogo tra affini" che, in un saggio molto suggestivo, Luciano Barisone vuole simbolicamente rappre­sentato dall'incontro fra Makhmalbaf stesso e l'impostore Sabzian: "... Alla fine di quel film — Close-up, ndr — non se ne vanno insieme soltanto il vero e il falso, l'autentico e il millantatore, ma anche il mittente e il ricevente. Sabzian è lo spettatore di Mackhmalbaf, quello che ha ricevuto il suo messaggio e lo ha tanto amato da identificarsi con il regista...". Visto in questi termini il contrappunto si arricchisce straordinaria­mente, cioè pone il rapporto tra vero, falso, memoria del cinema e istantanea, con leggerezza immaginaria inusitata e soprattutto, col segno della creazione. Commentando l'opera di Kiarostami, nel suo libro sui grandi registi, Goffredo Fofi scrive in proposito: "... Se il cinema ha un futuro, è grazie a registi come Kiarostami, capaci di reinventarlo partendo dal grado zero dell'espressione, ma caratterizzati da ingenuità e da sapienza, da purezza e da malizia, da scoperta e da progetto che tengono ben conto di cent'anni di storia, e non incantati, non ricattati dalla novità della tecnica, dalle lusinghe del mercato." Vale per Kiarostami e vale per Makhmalbaf, l'"affine­diverso" di cui è possibile, oggi, ricostruire la vicenda artistica.

Dovendo per ovvie ragioni restare a Kiarostami-Makhmalbaf (insufficienti per me e, credo, per molti, sono le conoscenze dirette d'area), è forse superfluo invocare la cautela? Direi proprio di no, soprattutto per una elementare esigenza di modestia. Certo apprezzamento per la crudeltà, anche linguistica, di Makhmalbaf rischia, a mio avviso, la sovrapposizione di griglie abituali per il cinefilo occidentale ma forse inadatte o forzate. Intendo che scoprire nel regista iraniano il vitalismo che seduce dagli schermi "tossici", citazionisti e maledetti, magari scambiando il suo col cinema attraversato dagli agonismi "B-movie", oltre a portare fuori strada potrebbe confermare la tendenza, così assidua nelle abitudini festivaliere, a indebite appropriazioni di gusto. Io credo, al contrario, che approcci al mezzo cinematografico fra loro somiglianti, abbiano segno diverso a seconda del punto di partenza, e che tale diversità rimanga, per certi aspetti, incolmabile. Se lo scambio fra realtà e finzione (o la contaminazione dei generi, o la messa in scena del cinema nel cinema) ci viene dall'Europa o dagli Stati Uniti, sappiamo ormai tutto, cioè partecipiamo a un gioco di maniera spesso raffinato ma più raramente innovativo; se lo scambio ci viene proposto da Kiarostami o da Makhmalbaf tutto cambia, perché il gioco agisce su verifiche morali ed estetiche necessarie. Quando, a proposito di Salaam cinema, riconoscevo l'attualità di Bellissima, nel mutato ordine di tempo che i media e l'emergenza dei paesi altri consentono oggi, volevo sottolineare proprio questo: il mondo è grande se entrando con segni "altri" nel nostro linguaggio ci costringe a ripensarlo. Trovo perciò assai inutili le graduatorie: meglio Makhmalbaf di Kiarostami perché più spericolato e selvaggio (ho sentito anche questa), meglio Kiarostami perché vanta una maggiore coerenza di stile...

Pur offrendo argomenti seri, e recuperando il confronto a prospettive credibili — sia Kiarostami che Makhmalbaf perse­guono un cinema democratico e, nel contempo, elitario — anche il bel saggio di Barisone rischia talvolta di semplificare. Non credo, insomma, che si farebbe un buon servizio a Makhmalbaf e alla sua storia complessa di autore, esaltando i sintomi più vistosi di un'espressione radicale: "... la magmatica e incandescente eruzione dei segnali...", nè, d'altro canto, mi sembra accettabile l'immagine di Kiarostami armonizzatore degli opposti, saggio, contemplativo e fiducioso nell'amore. Basterebbe ricordare, a proposito, la "crudeltà" dei suoi documentari sulla scuola (Avalhia / I primi, 1985, o Ma­shgh-e shab / I compiti della sera, 1989) e considerare le sue sospensioni prolungate, le sue disgressioni, per quel che procurano al di là del lirismo in ansia o addirittura angoscia.

La dialettica, concluderei, non dipende solo dalle forme violente del conflitto, né tantomeno, da un temperamento indocile d'artista che si traduce in eclettismo; dunque la follia di Arusi-ye khuban (Il matrimonio dei benedetti - Makhmalbaf, 1989) non è detto sia più provocatoria della preghiera disperata che lo scolaro de I compiti della sera rivolge a Kiarostami e a Dio. Ben diverso, quanto a dialettica e radicalità, sarebbe leggere l'opera di Makhmalbaf in un quadro di geniale apprendistato: si spiegherebbero meglio, in tal modo, l'affinamento progressivo e la poetica rarefatta di alcuni fra gli ultimi lavori. E si spiegherebbe meno accademicamente un film come il già citato Salaam cinema, tutto interno alla fase di pensiero che l'autore chiama relativistica e antidogmatica, dove recita a soggetto, gioco delle parti e lapsus drammaturgico, non sono mai separabili dalla metafora di un potere maieuticamente esibito dal regista attraverso il proprio stesso ruolo.

L'apprendistato
Da uomo di fede Mohsen Makhmalbaf ha militato, giovanissimo, in un gruppo terroristico antimonarchico, ha seguito la rivoluzione di Khomeini per poi approdare, sottolineavo poco sopra, a convinzioni relativiste, cioè contrarie a ogni for­ma di intolleranza ispirata dal dogma. Assai significativamente i primi film, di forte impronta religiosa come Este'aze (Rifugiarsi in Dio, 1984) e gli ultimi, quelli così lontani per padronanza del mezzo e valore in assoluto, fanno i conti sia con il bisogno dell'azione che col superamento di essa attraverso l'ideale. Non erano presenti, nella rassegna torninese, Tobah-ye-Nasuh (Pentimento definitivo, 1982), né Do che­shm-e bi su (Due occhi senza luce, 1984), ma il già richiamato Rifugiarsi in Dio, che sembrerebbe affine al primo, Il matrimonio dei benedetti, sul tema dei reduci qualche anno dopo il secondo, danno l'idea di un andare e venire di motivi che segna, al di là dei sensibili progressi linguistici ed estetici, una evidente continuità sostanziale.

Makhmalbaf ha imparato il cinema facendolo, anzi s'è deciso a prendere in mano la macchina da presa per un'esigenza critica, cioè per dimostrare in concreto che un altro cinema era possibile rispetto a quello offerto correntemente nel suo paese. Anche questo spiega l'eclettismo dei suoi inizi, accanto alla voracità di spettatore: "... Una moltiplicazione delle superfici — osserva Umberto Mosca —, quella contenuta nell'opera cinematografica di Mohsen Makhmalbaf. Una moltiplicazione di stili (il regista, in L'ambulante, ne indica addirittura cinque). Una moltiplicazione dei modelli di cinema...", stili e modelli volta a volta fanno emergere Buñuel, Ozu, De Sica, addirittura Sam Peckinpah e Hitchcock, Chaplin.

Un eclettismo che, mentre afferma un bisogno di acquisire tecnica e mestiere pur senza mai rinunciare all'originalità di fondo, rivela anche un personalissimo anelito di liberazione: "... Del cinema iraniano del passato — scrive lo stesso Makhmalbaf — sono giunti sino a noi solo i film che hanno attraversato una doppia selezione: dapprima, quella del regime monarchico, impegnato a salvaguardare i propri enormi interessi; poi quella della Repubblica islamica, in base alle sue convenienze, dettate da condizioni oggettive (più accettabili)... Questo doppio filtro ci ha sinora impedito di guardare al cinema in una prospettiva più ampia... La nostra storia di appassionati di cinema, del cinema nella sua interezza, ricorda l'elefante della poesia di Molavi. Nel nostro caso, l'animale sconosciuto (il cinema) non è stato rinchiuso in un luogo buio, ma addirittura sulla luna...".

Se questo è vero, non sorprende che le forme con le quali il regista si manifesta nell'apprendistato, facciano pensare a una sorta di "eresia visionaria", cioè a una instancabile, spesso rozza, ma spregiudicata verifica, tanto carica di energia, quanto ferreo è il sistema entro cui si compie. L'archetipo del cerchio suggerisce allora la fatalità, ma anche il vortice, la coazione mortale: penso al girone nel carcere di Baycot (Boicottaggio, 1985), al "supplizio" del ciclista Nassim, condotto dalla sorte avversa e dall'ingiustizia a una prova che lo farà perdere a se stesso; al feto che ruota nella formalina in Dastforush (L'ambulante, 1987). Il cerchio presterà al regista l'occasione per un uso della macchina da presa a 360 gradi, fino alla vertigine, al turbine che poi, come nello stupendo epilogo di Ruzi ruzegari cinema - Nasseroddin Shah, actore cinema (C'era una volta il cinema, 1992) srotola un nastro colorato gigante, quasi a rivelare un mondo nascosto, pronto a nuove scoperte.

La "storica" convenzione del flashback, infine, è manipolata sia nei ritmi che in chiave fantastica: si deforma, apre squarci di delirio, variando da certa forzatura orrorifica o dai pochi, ma stupefacenti, risvolti grotteschi.

Nel lungo apprendistato Makhmalbaf si affina, dunque, ma si spende sempre con autenticità, ossia applica all'intuizione una forma "provvisoria" e, nello stesso tempo, "illuminata", convinta, personale. Makhmalbaf, insomma, evolve veloce­mente e a vista. L'opera ultima, che grosso modo dal 1992, anno di C'era una volta il cinema, arriva agli esiti eccellenti di Gabbeh (1995) e Nun va goldun (Un istante di innocenza, 1996), esibisce ormai un sicuro equilibrio di stile, di tecnica, ma anche e soprattutto di ispirazione, ove con questa si intenda un prezioso viaggio nel molteplice, e la sintesi capace di restituirne tutta la ricchezza.

La maturità (L'esilio?)
A conferma di quanto detto aggiungerei che la "fase adulta" di Makhmalbaf dispone davanti a noi una complementare alternanza di rottura e continuità. Alludo ai funambolismi di C'era una volta il cinema; travolgente come una tempesta e omaggio autoctono all'arte chapliniana, e alla favola contemplativa (non certo paciosa) di Gabbeh; al gioco destrutturante di Salaam cinema e alla composta, sublime vivacità di Un istante di innocenza. Il regista si muove ormai con disinvoltura nella sintassi più complicata, cioè allarga la conquista del relativo dalla filosofia all'arte. [...]

Non si pensi, però, che essendo arrivato a tali convinzioni Makhmalbaf si adagi nell'indifferenza o in un agnosticismo facile; egli vive la perdita delle certezze assolute come occa­sione di esperimento linguistico, per un verso, e per un altro verso come conflitto incessante. Se la suggestiva simbiosi fra il tappeto tessuto dai nomadi (Gabbeh) e il paesaggio entro il quale essi vivono propone un esempio di armonia astorica, altri film assumono come metafora — e chiave formale — la frantumazione. Resta allora l'ossessivo ritorno allo specchio: rivelatore dell'inganno o della verità prima ignorata, al vetro come materia ornamentale (i favolosi palazzi della monarchia, con saloni abbaglianti che suscitano "bugiarda" meraviglia) o duro, quanto metafonico, esercizio del rompere e del costruire (Sango shishen / La pietra e il vetro, 1993).

Ecco, l'alternanza tra forma continua e forma spezzata, tra Gabbeh e Salaam cinema, avviene nella necessità di frantu­mare, quasi scostando nell'abbattimento del dogma, la fatica di ritrovarsi. Perché la verità, come scrive Mevlana Rumi, si è riprodotta nei frantumi dello specchio; è la verità di ogni uomo, in sé risolta, ma dalle altre separata.

Forse per la consapevolezza di tale destino, Makhmalbaf riesce a gettare un ponte nella zona femminile della società ira­niana. Sembra egli stesso condividere l'esperienza della "clausura", talvolta, come nel bellissimo Gozideh tasvir dar dorane Qajar (Una selezione di immagini del periodo Qajar, 1993), quando imprigionato fra le meraviglie della tradizione (dipinti ottocenteschi, oggetti di inestimabile finezza, reperti filmici trattati come papiri), lascia che giungano i clamori della strada. Tanto la condivide, che il tema femminile anima i suoi ricorsi. Già ne Il matrimonio dei benedetti, un film che inizia con citazioni anticapitaliste da Khomeini e fa emergere dalla fosca esperienza del protagoni­sta maschile — un reduce della guerra Iran-Iraq — l'immagine scolpita di una moderna donna islamica, Makhmalbaf scaglia un'accusa violenta, documen­tando conflitti che il mondo femminile iraniano vive con più apertura e pubblicità di quanto si immagini. A tale proposito, come testimonianza Azadeh Kian in un articolo pubblicato di recente su "Le monde diplomatique", può svolgere un compito tutt'altro che secondario anche un film come Gabbeh: "... Nell'esposizione di abiti femminili organizzata nel febbraio del 1993 — scrive la nicercatrice — i tessuti scuri erano stati soppiantati da stoffe dai colori vivaci e il velo islamico tradizionale sostituito dai tradizionali fazzoletti colorati utilizzati dalle donne delle tribù e dalle contadine, come nel film Gabbeh...".

Lo "sconfinamento" di Makhmalbaf, questo sì, segna una variante dialettica — in senso prevalentemente ideologico — rispetto a Kiarostami; ed è forse questa una delle cause principali di un esilio artistico, assai probabile, che per crudele ironia si accompagna alla maturità e alla fama internazionale. Volendo scegliere un solo film che esprima l'angoscia di una così drammatica rottura, sceglierei Honar Pisché (L'attore,1993). In esso Makhmalbaf raccoglie tutti i motivi della propria opera — dalla denuncia, al melodramma, al cinema nel cinema — piegandoli ai modi del comico o addirittura della farsa. Ma L'attore, col patetico avvenirismo dei suoi ambienti rivestiti di specchi, nasconde fra il rumore dei paradossi, l'inconciliabile diversità fra borghesi e sottoproletari (gli zingani, relegati nell'immondizia delle periferie come in tutte le città del mondo) e soprattutto, nel personaggio della sposa ricca, una umiliante psicosi riproduttiva che potrebbe facil­mente estendersi al costume generale della società. La donna ricca è sterile, la zingara dovrebbe partorire al suo posto; la prima fugge dalla realtà attraverso la finzione e il sogno, la seconda ne viene esclusa perché "inferiore". In mezzo c'è il pingue e inetto Akbar'Abdi, l'attore di successo, a simboleggiare una dipendenza maschile e un conformismo senza principi.

Forse l'esilio di Makhmalbaf comincia proprio in Akbar'Abdi; quanto alla causa di tante eroine a cui ha saputo dar voce, egli dovrà continuare a sostenerla, almeno per ora, lontano dal proprio paese.

Note bibliografiche
Luciano Barisone, Slittamenti progressivi del sapere, in: Alberto Barbera e Umberto Mosca, "Mohsen Makhmalbaf", Lindau, 1996.
Goffredo Fofi, "Come in uno spettacolo. I grandi registi della storia del cinema", Donzelli, 1995.
Luciano Barisone, cit.
Luciano Barisone, cit.
lI ruolo ricoperto da Makhmalbaf in diversi film è definito come "maieuti­co da Barisone nel saggio citato.
Umberto Mosca, Il corridoio, lo specchio e il cerchio, in: A. Barbera / U. Mosca, cit.
Mohsen Makhmalbaf, Il cinema è tutto il cinema, in: A. Barbera / U. Mo­sca, cit.
Azadeh Kian, Le donne iraniane contro il clero, Le Monde Diplomatique / Il Manifesto, novembre 1996.

Tullio Masoni