Ritrarre l'uomo - Conversazione con Lin Cheng-sheng, Pesaro 1998

I film di Lin Cheng-sheng fanno figura di salutari boccate d'ossigeno in una cinematografia saturata dalla sofferenza.

RITRARRE L'UOMOConversazione con Lin Cheng-sheng, Pesaro 1998

 

All'interno del fervido ma ristretto panorama taiwanese, la figura di Lin Cheng-sheng costituisce un caso a se stante. La sua parabola è ciò che di più tangenziale si possa immaginare rispetto al cinema perfettamente calibrato di Hou Hsiao-hsien o di Edward Yang. Anche in rapporto alle nuove generazioni (Tsai Ming-liang in testa), che pure hanno la tendenza a sporcare questa cornice formale con l'intrusione del reale, l'immagine di Lin Cheng-sheng resta altra. Sa ancora del pane che per anni il regista ha fatto, anche quando il piano sequenza si allunga, quando il montaggio si complica, quando la storia si ritira. Questo gusto dolce del neofita è sensibile in tutte le sue opere: dal primo esito fortemente formalistico, A Drifting Life (1996), all'ultimo post-moderno, per colori e situazioni, Sweet Degeneration (1997). Tra i due film si situa Murmur of Youth (1997), piccolo gioiello, costruito attorno a due ragazze che, rintanate nel botteghino di una sala cinematografica, "si incontrano". La gioia esplosiva di questo attimo dionisiaco (presente in forme diverse in tutti e tre i lungometraggi) stempera il senso di dolore e di oppressione che pare essere la cifra della Taiwan separatasi dalla Cina popolare. Così i film di Lin Cheng-sheng fanno figura di salutari boccate d'ossigeno in una cinematografia saturata dalla sofferenza. (...)

La selezione dei tuoi film presenti a Pesaro è frutto di una tua scelta? Mi sembra che l'escluso (A Drifting Life) abbia uno stile particolare, che lo separa dagli altri due.
La scelta dei film è stata fatta dal Festival. È però vero che il mio primo film è piuttosto differente dagli altri due. Probabilmente questo è anche il risultato di una maggiore confidenza nei confronti del cinema. Sul set di A Drifting Life ero assillato da mille preoccupazioni; credevo di dover fare attenzione a tantissimi particolari, soprattutto a quelli formali. Nei film successivi ho pensato che lo stile non era così fondamentale e ho potuto in questo modo lasciare maggior spazio agli attori. Questo cambiamento credo sia in parte spiegabile con la visione di alcuni film iraniani, che mi hanno molto colpito. Vedendo le opere di Kiarostami, mi sono reso conto che il modo migliore e più vero per realizzare un film ero quello di riprendere le cose che si vedono con la forma più semplice possibile.

Anche i due film presenti si impongono per la loro diversità. Murmur of Youth dà grande spazio alla parola, con la macchina da presa fissa; Sweet degeneration colpisce per l'uso del montaggio e la scelta dei colori. Volevo sapere se queste soluzioni erano già definite in fase di scrittura.
Generalmente queste decisioni sulle forma sono prese sul set. Non sono una persona che ha le idee chiare fin da subito e che programma il film nei minimi dettagli, quando lo scrive. A volte capita che io ne scriva una parte e incominci a girare. Poi scrivo la seconda e la giro in modo diverso. Questo è anche dovuto al mio carattere: io sono da sempre molto sensibile a ciò che mi circonda. La forma di un film può dipendere in buona misura dagli attori impiegati o dalle indicazioni del direttore della fotografia o, ancora, da cose più banali come il tempo atmosferico. Probabilmente questo modo di girare è il risultato del mio lavoro di documentarista, dove è fondamentale la capacità di adattare un programma alle variabili reali. La stessa cosa avviene quando giro della fiction. Per me fare del cinema significa conoscere delle persone, capirle e poi riprenderle. Filmare insieme a loro; il cinema è sempre il frutto di un lavoro comune.

Non so se hai notato, ma i titoli inglesi dei tuoi film si avvicinano all'"acqua", (drifting=gocciolante, murmur=mormorio), che è un elemento in mutazione continua.
Non ho prestato particolare attenzione a questa cosa, anche perché i titoli dei film in cinese sono molto diversi da quelli inglesi (ad esempio Murmur of Youth in mandarino suona "Mei-Li canta"). Comunque, rivedendo i film che ho fatto e che non rivedevo da molto tempo - e chiacchierando con i registi presenti qui a Pesaro - ho avuto modo di fare il punto della mia situazione. Credo di volermi nuovamente allontanare dalla narrazione, per concentrarmi su atmosfere delicate o sugli stati d'animo dei personaggi. Voglio ritrarre l'uomo, piuttosto che le cose che gli succedono. Cercando di avvalermi di agenti atmosferici o di piccoli particolari, per arrivare a descrivere cosa è fondante in un dato essere. Un po' come ho fatto con la pioggia in Drifting life, dove ogni volta che piove il padre ritorna a casa. O anche in Sweet Degeneration, dove il senso di vuoto è dato dalle inquadrature della sorella in attesa del fratello, che è sempre in giro...

A questo riguardo, una delle cose che ho ammirato di più è la forza degli attori, come le due fantastiche ragazze in quel botteghino di Murmur of Youth. Volevo chiedere come concili la presenza di una così grande libertà con gli imperativi della narrazione, di un dialogo.
Naturalmente agli attori io do una sceneggiatura, però non chiedo loro di rispettarla parola per parola. Spiego quale deve essere lo stato d'animo, l'atmosfera del film, poi lascio una grossa libertà agli interpreti. Nella scena che citavi, io avevo un testo di base: su questo spunto le ragazze (René Liu e Tseng Mei-li), che nel frattempo si erano incontrate ed avevano discusso la sceneggiatura, hanno improvvisato con parole loro su argomenti, come le mestruazioni o la masturbazione, che erano effettivamente nello script. In altri casi è capitato che alcune battute, che le protagoniste si scambiavano sul set, mi abbiano colpito per la loro freschezza e spontaneità e che siano state inserite nel film.

Facendo entrare in scena il set, quasi fosse un soggetto da riprodurre, il cinema si avvicina alla realtà taiwanese. É così per te?
Sicuramente. Lasciando totale libertà d'espressione alle persone che lavorano con me, posso dare l'impressione di una ripresa reale della Taiwan di oggi, in quanto queste persone lavorano e vivono in quest'ambiente e pertanto lo riproducono, anche se in maniera involontaria. Tuttavia ciò che io mostro nei film è uno sguardo della realtà molto personale. In più, non posso dire che il mio sguardo sia esattamente quello di un uomo di Taipei, perché io sono cresciuto in campagna, non ho lo stesso background di altri registi, non ho studiato cinema e non mi sono mai laureato. Quando mi sono trasferito a Taipei ho fatto un po' tutti i lavori: dall'ambulante al venditore di tagliatelle... Il mio sguardo sulla metropoli è rimasto quello di un emigrato. Da fuori, Taipei sembra un luogo dove si va a cercare fortuna, a portare a termine le proprie ambizioni, ma non assomiglia mai a casa.

Vorrei sapere qualcosa di più sui tuoi inizi cinematografici, visto che la tua origine e il tuo apprendistato sono tratti evidenti nel tuo cinema.
Sono originario di un piccolo paese di provincia. Dopo gli studi secondari, a 16 anni, mi sono trasferito a Taipei. Lì, ho fatto il "pane" per dieci anni. Nello stesso tempo ho nutrito la mia passione per il cinema con visioni quasi quotidiane. All'età di 28 anni, per strada, ho visto un manifesto che annunciava un seminario di cinema e teatro. Lì ho incontrato Peggy Chiao, la più eminente critica cinematografica di Taiwan, che era incaricata di gestire i corsi. Dopo questo corso, durato un anno, ho fatto una serie di documentari, fino a quando ho ottenuto una borsa di studio per la realizzazione di un film in 16mm. Durante il corso ho potuto vedere opere di autori europei come Rossellini o Antonioni, che non conoscevo... All'inizio mi veniva un po' da dormire, perché non li capivo. È stata però un'opera di Ozu, Viaggio a Tokyo, a far scattare qualcosa di particolare. Ho capito che il cinema poteva arrivare a cogliere stati profondi della nostra mente. In quel film, in particolare, ho ritrovato, espressi con una forza incredibile, episodi della mia infanzia - l'ambiente povero, una famiglia numerosa.... Quello che poi ho cercato di fare - e cerco tuttora - è di realizzare delle opere in cui il pubblico possa riconoscersi, o comunque provare, senza identificarsi con il personaggio, delle sensazioni che ha sperimentato nella vita. Non so come spiegare questo processo che mi ha portato verso il cinema: so solo che è stato molto casuale. Avrei potuto aprire una bisca clandestina e invece, come se ci fosse un destino, ho scoperto il cinema e sono andato in quella direzione.

Fare il fornaio è un mestiere molto manuale; una bisca è invece un lavoro concettuale. Volevo chiedere se questa materialità (relazione con le materie, pellicola, obiettivi...) è rimasta nel tuo rapporto con il cinema.
In realtà anche quando faccio dei film devo usare molto le mani, perché non mi avvalgo di un'industria cinematografica così sviluppata da permettermi di isolarmi e progettare mentalmente il film, mentre davanti a me una schiera di persone lavora manualmente. Ciò che è fondante per me non è tanto il rapporto con la manualità (con un gesto), quanto quello con la concretezza che si esprime attraverso un mondo rurale o una mentalità che io metto in scena. Forse, in questo, i miei film sono un po' differenti da quegli degli altri autori taiwanesi.

Taiwan è un paese piuttosto piccolo geograficamente. Eppure numerose - e quasi tutte di alto livello - sono le produzioni cinematografiche. É davvero facile fare il regista?
Su questo argomento mi viene sempre una battuta. Siccome il cinema taiwanese ha così poco successo al botteghino, allora hanno lasciato fare dei film anche a me. Tuttavia, il fatto che la motivazione principale per un regista sia molto intima, come nel mio caso, e prescinda dall'istruzione e dalle possibilità economiche della persona, è un dato comune nel nostro paese; e forse questo spiega anche i riconoscimenti che il cinema taiwanese ha ottenuto. D'altronde è il successo che il nostro cinema ha avuto all'estero (non solo in Europa, ma anche in Cina popolare) che ha riportato in patria un po' di fondi per poter promuovere le nostre produzioni (i restanti finanziamenti sono statali e si aggirano intorno ai 3 milioni di dollari annui, ndr.).

Per quanto riguarda il lavoro con gli attori, hai un metodo preciso? Sono dei professionisti?
Normalmente lavoro con degli attori non-professionisti. In Sweet Degeneration, solo la protagonista (Cheng Hsiang-chi, scoperta da Edward Yang) è un'attrice di teatro e quindi proviene da una scuola di recitazione. Lo stesso Lee Kang-sheng (l'attore dei film di Tsai Ming-liang) non è un attore professionista, per cui non si può dirgli di interpretare un ruolo, perché lui non può che interpretare se stesso. L'evoluzione visibile all'interno di ogni film è il risultato dei cambiamenti della sua vita, che viene adattata per l'occasione. Per quanto mi riguarda, alle persone, che ho scelto in base al personaggio che devono interpretare, io do delle indicazioni di massima sul loro ruolo. Da un lato faccio quindi in modo che la differenza tra personaggio e interprete sia minima, mentre dall'altro do delle indicazioni molto generali sui comportamenti che devono attuare. Per quanto riguarda Cheng Hsiang-chi, avevo molta paura che il suo personaggio risultasse diverso dagli altri. Le ho quindi dato il minimo di indicazioni possibili, spiegando in breve la situazione e limitando, anche sul set, il dialogo tra noi due a semplici battute.

Mi pare che l'incontro (tra due ragazze, tra un fratello e una sorella, tra un giovane e una nonna) sia il momento fondamentale del tuo cinema. Esso però avviene in condizioni molto particolari. Un gabbiotto che assomiglia ad una vetrina, o attraverso un cellulare...
Questa peculiarità dei luoghi o dei tipi d'incontro tra i personaggi è decisamente voluta. Guardandomi attorno nella Taiwan di oggi, mi sembra molto difficile mettersi in comunicazione con gli altri. È come se, nel momento in cui cerchi di fare amicizia, esistessero dei continui ostacoli, derivati dalle disposizioni di tutti quanti, che rendono difficile o quasi impossibile ogni relazione. Due ragazze che si incontrano per caso in un posto chiuso, sentendosi isolate dal mondo esterno, riescono a comunicare nella maniera più intima. La stessa cosa avviene in Sweet Degeneration attraverso un cellulare trovato per caso: il contatto labile e la mancanza di conoscenza diretta conferiscono all'incontro una grande intimità. In definitiva quest'impossibilità di comunicazione si traduce in un reale desiderio di dialogo. In questo credo che il mio cinema possa definirsi positivo. In fondo le cose che realmente contano nella vita sono realmente poche e semplici: gli affetti vitali, l'amore e il contatto con gli altri. Credo che questo sia ben visibile in Sweet Degeneration, dove ho inserito molti episodi di contatto umano, come l'atteggiamento di aiuto e sostegno da parte del padre e del marito nei confronti della moglie che è sparita e non vuole farsi ritrovare.

Nei tuoi film mi pare si verifichi un avvicinarsi progressivo alla Storia e in quest'ultimo alla tua situazione personale. Non ti è mai venuto in mente di trattare direttamente la tua storia, tenendo conto anche che tu hai già fatto l'attore?
Sì, certo. Credo venga in mente a tutti di girare un film autobiografico: io, però, non ho progetti precisi a riguardo. E comunque non so se mi sceglierei quale interprete. È vero che nell'ultimo film gli elementi autobiografici erano numerosi; però le mie esperienze erano sempre trasfigurate o utilizzate con degli scopi precisi, inserite in situazioni che modificavano i dati di partenza. Credo quindi che anche Sweet Degeneration sia molto diverso da un film autobiografico. D'altra parte, pur amando il documentario, mi pare che esso non sia così adatto ai miei scopi. Perché nel documentario non si può che riprendere quello che avviene restandone esterni, mentre io cerco di rappresentare e mettere in scena la parte interiore dell'uomo. I gesti più intimi. Questo naturalmente coinvolge il mio passato, perché per ricostruire una psiche non posso che rifarmi alla mia. Io, per esempio, sono una persona che ricorda molto il passato: ricordo molti episodi, perché essi sono molto importanti per me. Credo però che anche per quelle persone che dicono di non ricordarsi nulla, il passato, attraverso una serie di piccoli ricordi sommersi, continui ad esistere. E poi queste cose trovano la via per mostrarsi, nei sogni o in lati del carattere, o in gesti... Comunque il passato sopravvive.

Carlo Chatrian