Storia di orologi e di fantasmi - Che ora è laggiù

Con Che ora è laggiù, Tsai Ming-liang ha saputo approfittare della necessità per ribadire il proprio universo creativo, allargandone contemporaneamente la tavolozza dei toni e l'ampiezza del discorso sulla condizione umana che gli sta dietro.

 

STORIA DI OROLOGI E DI FANTASMICHE ORA È LAGGIÙdi Tsai Ming-liang

Titolo originale: Ni neibian jidian/Et làbas, quelle heure est-il? Regia: Tsai Mingliang. Sceneggiatura: Tsai Ming-liang, Yang Pi-ying. Fotografia: Benoît Delhomme. Montaggio: Chen Sheng-Chang. Scenografia: Yip Kam Tim. Interpreti: Lee Kang-sheng (Hsiao-kang), Chen Shiangchyi (Shiang-chyi), Lu Yi-chin (la madre) Miao Tien (il padre), Cecilia Yip (la donna di Parigi), Chen Chao-jung (l'uomo nel métro), Tsai Guei (la prostituta), Arthur Mauzycuziel (l'uomo al telefono), David Ganansia (l'uomo al ristorante), Jean-Pierre Léaud (se stesso). Produzione: Homegreen Films/Arena Films. Distribuzione: Istituto Luce. Durata: 116'. Origine: Taiwan/Francia, 2001.

 

Un uomo è solo in casa, si prepara da mangiare, accende una sigaretta, si dimentica del cibo che lo attende. Un funerale: il morto è l'uomo che abbiamo visto nelle sequenza precedente. Hsiao-kang, il figlio del defunto sbarca il lunario facendo il venditore ambulante di orologi; una ragazza si ferma al suo banchetto, gli chiede un orologio capace di dare indicazioni per fusi orari differenti. Quando vede quello che porta al polso il ragazzo, gli chiede di venderglielo. Questi le dice che cercherà di procurargliene uno uguale, ma la giovane cliente ha molta fretta: deve partire per Parigi il giorno dopo. Tanto fa che alla fine lo convince. Per ringraziamento, oltre alla somma dovuta per il pagamento dell'orologio, gli dona un dolce. Quel gesto provoca l'insorgere in Hsiao-kang di una vera e propria ossessione geo-erotica: dopo aver acquistato una videocassetta de I 400 colpi, se la guarda la sera per sentirsi in qualche modo trasportato là dove la ragazza si è recata. Contemporaneamente inizia a regolare tutti gli orologi che trova sulla sua strada secondo l'ora di Parigi.

La faccenda degli orologi si sovrappone alla speranza, nutrita dalla madre, che lo spirito del marito da poco defunto torni a visitarla. Quando la donna trova, una mattina, l'orologio di casa con l'orario modificato, in anticipo di sette ore, si convince che ciò sia opera del caro estinto. La sua speranza diventa un'ossessione: dapprima identifica lo spirito del defunto con l'enorme pesce bianco che nuota nell'acquario domestico; poi incomincia a preparare cene succulente nel cuore della notte, rispettando le nuove indicazioni dell'orologio a muro, riservando un posto a tavola al fantasma del coniuge; infine, decide di oscurare le finestre e di togliere la corrente elettrica all'appartamento per favorire il ritorno del morto (anche se quest'ultima decisione comporterà lo spegnimento di luce e riscaldamento nell'acquario e, quindi, la morte del pesce bianco). Nel frattempo, la ragazza a Parigi conduce una vita da turista solitaria, spaesata e spaventata. Nelle sue sconclusionate peregrinazioni incontra casualmente, in un cimitero, Jean-Pierre Léaud senza riconoscerlo. Una sera si sente male, viene soccorsa da un'altra turista orientale, di Hong-Kong. Le due finiscono per trascorrere la notte nello stesso letto. La medesima notte viene consumata da Hsiaokang in automobile, in compagnia di una prostituta che, al sorgere dell'alba, gli porta via pure la valigia degli orologi. Da parte sua, la madre del ragazzo trascorre la notte persa nel suo desiderio di ricongiungimento con il marito defunto, consolandosi nella masturbazione. Il mattino dopo, Hsiao-kang raggiunge la madre e si corica vicino a lei addormentandosi. A Parigi, invece, la ragazza si aggira con la sua valigia nei giardini delle Tuileries; si addormenta su una sedia, al bordo di un laghetto artificiale; dei ragazzini giocano con la valigia. Stacco. Un anziano signore orientale (copia perfetta del padre di Hsiao-kang: verosimilmente è il fantasma del defunto) recupera dall'acqua del laghetto la valigia, mentre la ragazza è sempre addormentata sulla sedia, e poi si allontana verso la grande ruota panoramica sullo sfondo

 

Dopo Il buco (1998), per la seconda volta Tsai Ming-liang si è trovato a dover lavorare per una co-produzione franco-taiwanese, nella quale, però, la componente francese non si è limitata, questa volta, alla commissione del prodotto (sia pure, almeno sulla carta, vincolante a precisi riferimenti – come era accaduto per il film precedente), ma è entrata nel progetto come parte attiva a tutti gli effetti. Ne testimoniano soprattutto la presenza di Benoît Delhomme alla fotografia e, in maniera sfumata, l'articolazione geografica dell'intreccio che "collega" fra loro i personaggi principali. Non voglio aggiungere ulteriori considerazioni su quanto sta avvenendo, sul piano produttivo e distributivo, ai registi della wave taiwanese affermatasi negli anni '80 e '90 (...). Vale la pena, piuttosto, di andare e vedere come, Tsai Ming-liang abbia saputo approfittare della necessità per ribadire il proprio universo creativo, allargandone contemporaneamente la tavolozza dei toni e l'ampiezza del discorso sulla condizione umana che gli sta dietro.

Il film inizia, significativamente, con un abbandono. C'è un personaggio (noi non sappiamo ancora chi sia) che si prepara da mangiare, si siede a tavola davanti al piatto pronto, inizia a fumare una sigaretta e – trascurando del tutto il cibo – si allontana verso il fondo della cucina, varca una porta-finestra ed esce di campo, sottraendosi così al nostro sguardo e a quelle stanze in cui non appariva propriamente a suo agio. Si tratta di un piano-sequenza lungo, a macchina fissa, modulato soltanto dai movimenti del personaggio e dalle impercettibili (ma acute) variazioni di focale che ne accompagnano l'andirivieni tra il tavolo in primo piano, la cucina in campo medio e la porta-finestra sullo sfondo. Sappiamo che una lettura dei film di Tsai Ming-liang troppo indirizzata in senso allegorico costituisce un esercizio azzardato e, in definitiva, ingiustificato, ma, alla luce della ricomparsa del personaggio nell'ultima scena del film (del dove e del come di quella ricomparsa) qualche pensiero sulla messa in scena figurata di un altro addio non possiamo negarcelo: quello, evidentemente, del regista spinto ad abbandonare senza un saluto il suo status di artista taiwanese per assumere quello, ben più problematico e, al limite, inafferrabile – un fantasma? – di cineasta "internazionale", costretto a mantenere una sua identità credibile nel conflitto degli interessi economici e culturali complessi che pure gli permetteranno di continuare a lavorare.

 

Nelle scene immediatamente seguenti prendono forma alcuni collegamenti logici che, insieme alla comparsa di altri personaggi, ci permettono di dare un'identità a quello che ci ha appena lasciato. A quanto pare, quella sua uscita di scena, prefigurava metaforicamente la sua morte imminente: ascoltiamo un breve monologo del figlio, Hsiao-kang, che, in taxi, si rivolge all'urna contenente le ceneri del defunto mentre la reca alla cerimonia funebre; assistiamo ai riti successivi, prima a quelli celebrati nel luogo in cui vengono conservate le urne e poi a quelli domestici, che faranno da premessa (ancora non lo sappiamo) all'ossessione di cui la vedova resterà prigioniera. Fino a questo momento, le carte messe in tavola non sembrano accennare a novità sostanziali rispetto ai parametri di riferimento che Tsai Ming-liang ci ha proposto in passato: siamo a Taipei, l'appartamento in cui tutto ha avuto inizio è il medesimo in cui era stato girato Il fiume, la famiglia (seppure subito mutilata della sua componente paterna) che si delinea davanti ai nostri occhi è incarnata negli stessi interpreti che davano vita alla famiglia protagonista di quello stesso film: Tien Miao è il padre, Lu Hsiao-ling la madre, Kang- Sheng Lee il figlio. Già su queste prime immagini aleggia, per la verità, un velo di impalpabile comicità, nonostante la gravità apparente di ciò che ci viene mostrato: un sorriso fantasma, che sia il punto di vista del morto? Siamo come Alice al termine dell'incontro col Gatto persiano. 

Questa comicità a volte colorata di nero, altre volte lunare, altre volte ancora burlesca al limite del nonsensico, si afferma progressivamente, nel corso del film, come una presenza importante. Non si tratta di una novità in quanto tale – l'elemento ironico facendo parte da sempre dell'armamentario espressivo di Tsai Ming-liang – ma lo è sicuramente nella continuità del suo riproporsi esplicitamente a caratterizzare i rapporti tra i personaggi (protagonisti od occasionali). Un sentimento comico di genere beckettiano, verrebbe da dire, che non ammorbidisce i termini della visione del mondo di cui il cinema del regista taiwanese è da sempre portato re, ma piuttosto li rende ancora più affilati. La m.d.p. di Tsai Ming-liang cerca i dettagli di un mondo che appaiono "grotteschi" solo nel momento in cui vengono messi in evidenza e portati ad occupare tutto il campo della visione; riportati, per così dire, alla loro condizione abituale, di dettagli per l'appunto, riacquisterebbero lo status di insospettabili componenti di quell'indistinta normalità in cui scorre la vita quotidiana. Il realismo del cinema di Tsai Mingliang si definisce nel movimento dialettico – finora discreto, in questo film più accentuato ed esplicito – tra questi due poli.

Il secondo elemento evolutivo caratterizzante Che ora è laggiù?, è senza ombra di dubbio collegato al peso che la componente produttiva francese ha avuto nel progetto, ma non per questo estraneo alla topografia dell'universo (dis)umano definita e tracciata con meticolosa spietatezza nei film precedenti. Anzi. Da Rebels of the Neon God in poi, sappiamo bene che il cinema di Tsai Ming-liang si occupa di Taipei, città della quale sa "due o tre cose" troppo importanti per essere taciute o liquidate più o meno frettolosamente. Questa componente di referenzialità specifica del discorso non poteva, ovviamente, essere sottovalutata o servire da alibi per circoscriverlo a una realtà limitata. In "Cineforum" (n. 375, p. 25) Rinaldo Censi scriveva: "Non si tratta dunque di mostrare lo scarto che separa gli esseri umani dal mondo che li circonda, un mondo a loro incomprensibile. Al contrario, nelle pellicole di Tsai Ming-liang, l'angoscia, la solitudine derivano dal sentirsi inesorabilmente parte di quello stesso mondo, senza vie di fuga". Parlando di esseri umani in generale, Censi allargava di fatto l'ampiezza del discorso, mostrando la portata sovranazionale di una tale percezione antropologica; ebbene, in Che ora è laggiù?, questa prospettiva appare esplicita nel raddoppiamento dell'ambientazione che, sottolineando la separazione temporale tra Parigi e Taipei, ne conferma ancora più decisamente la totale omologazione per quanto riguarda le loro caratteristiche di "contenitori" di (dis)umanità. Sul piano narrativo è la comparsa di Shiang-chyi, la ragazza, ad aprire una breccia nel contesto urbano fino a quel momento riproposto e riconosciuto. Il fatto che lei voglia acquistare un orologio con doppio quadrante per visualizzare due diversi fusi orari già ci informa sul fondo di indecisione che la tormenta: andarsene da Taipei e, nello stesso tempo, potervi rimanere virtualmente, attraverso l'evocazione degli aspetti quotidiani della città veicolati dal controllo dell'ora corrispondente. Hsiao-kang è il venditore ambulante a cui si rivolge, ma l'elemento scatenante rispetto a ciò che verrà è senz'altro l'ostinazione di Shiang-chyi nel volere proprio l'orologio che il ragazzo porta al polso: una compravendita anomala, suggellata dal dono di un dolce, come un ringraziamento o un pegno.

Un breve incontro, quello tra Hsiao-kang e Shiang-chi, che, nonostante una certa singolarità, potrebbe rimanere tranquillamente nel novero di un quotidiano anonimato. Ma la sua fugacità produce, in questo caso, qualcosa: la scomparsa della ragazza apre un nuovo, imprevedibile vuoto nella vita di Hsiaokang e completa la rete delle corrispondenze necessarie all'avvio del dispositivo filmico. Da questo momento, davanti ai nostri occhi scorreranno le vicende minime di tre esistenze che, separate, finiranno per tracciare la mappa inconsapevole di un comune percorso nei territori del lutto: a Taipei, la donna resa vedova e il figlio segnato irreparabilmente dalla perdita di una giovane sconosciuta; a Parigi, la ragazza prigioniera di una solitudine che solo un introvabile numero telefonico potrebbe, forse, aiutare a superare. Che ora è laggiù? è un film sul fallimento a cui è destinato qualsiasi tentativo di esorcizzare l'esperienza del lutto attraverso le forme di un'illusorio controllo del tempo, negando a quest'ultimo la dimensione esperienziale che a sua volta lo sostanzia intimamente e cercando pateticamente di ridurlo a una questione di numeretti segnati su un quadrante. I risultati di una simile operazione potranno essere angosciosi o grotteschi, comici o pietosi, ma tutti saranno comunque caratterizzati dall'inevitabilità della sconfitta. Il cinema di Tsai Ming-liang è da sempre contraddistinto da un'ossessione claustrofobica legata alla presenza di ambienti "inabitabili" nei quali gli individui si sforzano di trovare il senso della loro permanenza. Questo rimane vero anche per Che ora è laggiù?: penso sia all'appartamento dove tutto ha inizio, e in cui continuano ad abitare la vedova e il figlio, sia alle camere d'albergo parigine in cui Shiang-chyi si rinchiude, da sola o in compagnia; inoltre, per quanto riguarda l'appartamento, non si può ovviamente dimenticare la strategia di oscuramento messa in atto dalla madre per favorire il ritorno del defunto. Ma al di là di questi riferimenti ai contenitori architettonici, il senso di immobilità e claustrofobia più intenso proviene proprio dall'incapacità dei tre "sopravvissuti" protagonisti di liberarsi dalle pastoie in cui sono stati cacciati dalla loro malintesa idea del tempo come insieme di segni grafici con cui negare a se stessi l'evidenza di distacchi ormai avvenuti.

Sviati da questa illusione, Hsiao-kang, sua madre e Shiang-chyi non possono che cercare rifugio, dalla disperazione che li opprime, in una mediazione artificiosa (oggettivamente artificiosa, al di là dell'autenticità straziata dell'impulso che ne sta all'origine), in una messa in scena in grado di surrogare temporaneamente ciò di cui soffrono la mancanza. Il percorso che si snoda nel corso del film, accomunandoli, finisce per trovare il suo climax nella corrispondenza di tre atti sessuali diversi fra loro per quanto riguarda il modo ma identici nella loro funzione sostitutiva. Alla fine, come sempre per Tsai Mingliang, non resta che il corpo a funzionare come strumento con cui rispondere, incosapevolmente, sul piano della mera estrinsecazione degli impulsi sessuali, a domande provenienti da un altrove, per definire il quale mancano al soggetto pensieri e parole adeguati.

Che ora è laggiù? è un film di fantasmi e di presenze fantasmatiche. Iniziato con un'uscita di campo e di scena, completata l'architettura di rapporti interni attraverso una separazione irreparabile, prosegue articolandosi in due presunte evocazioni, la cui forte intensità è pari all'evidenza dell'equivoco ingenerato nel momento stesso del loro effettuarsi. Mi riferisco alla straordinaria scena che vede la madre alla ricerca disperata di un "colloquio" con il grande pesce bianco nell'acquario, temporaneamente identificato con il fantasma del defunto, e all'altrettanto disperato tentativo di Hsiao-kang di superare la distanza che lo separa ormai da Shiangchyi sovrapponendo una Parigi che non esiste più – quella de I 400 colpi – a quella odierna, irraggiungibile. Per implacabile ironia, Shiang-chyi incontra casualmente a Parigi, nel corso dei suoi insensati vagabondaggi, proprio il protagonista di quel film; l'evento ha luogo su una panchina collocata all'interno di un cimitero, ma non è tanto l'accostamento metaforico tra il luogo e il personaggio a trasformare quest'ultimo in un "fantasma" (di un cinema e di una Parigi che non esistono più), quanto il fatto che la ragazza non lo riconosce per niente. Jean-Pierre Léaud, che le dà il proprio numero telefonico per consolarla del fatto che lei non riesce a trovare quello di cui ha bisogno, è agli occhi di Shiang-chyi trasparente come un fantasma. Successivamente, del resto, all'appuntamento con il vero fantasma Shiang-chyi si sottrarrà semplicemente perché addormentata: in un modo o nell'altro la fanciulla riesce a mancare completamente gli avvenimenti che avrebbero potuto trasformare la sua deludente e patetica trasferta francese in una esperienza indimenticabile.

E il fantasma di questo taiwanese libero di materializzarsi senza più restrizioni, a Parigi come ovunque, meno – verosimilmente – che nell'appartamento in cui è stato costretto a vivere forse per troppo tempo, finisce per apparire come il meno evanescente tra i personaggi del film. Affermazione paradossale, d'accordo; ma, guardando quel compassato signore allontanarsi verso la grande ruota (che, come fa notare Olivier de Bruyn in "Positif" n. 488, si muove in senso antiorario) dopo aver recuperato la valigia dall'acqua del laghetto delle Tuileries, è impossibile non pensare a lui come al custode, necessariamente muto, della risposta alle domande informulabili che hanno attraversato le immagini del film così come affollano ogni giorno della nostra esistenza.

Note
Utilizzo il prefisso "dis" per comodità, per alludere a una variazione nei parametri di riferimento rispetto al concetto richiamato (appunto quello di "umanità"). È evidente che, se si accetta l'affermazione citata di Rinaldo Censi (e io mi trovo, in tal senso, perfettamente d'accordo con lui), il prefisso in questione non avrebbe motivo di essere utilizzato, trattandosi semplicemente di una nuova forma dell'essere umanità che si va consolidando, prodotto eminentemente culturale e, in quanto tale, né peggiore né migliore, in assoluto, della precedente. 

Adriano Piccardi