In un viaggio iniziatico di un giovane alla ricerca del fratello il Nord e il Sud della Cina sono messi a confronto, province ribelli per opposte tradizioni: Hong Kong, contaminata dall'influenza dell'occidente, e il Tibet, radicato al suo passato buddista.

GEGEdi Yan Yan Mak

 

Cieli azzurri, tanto vicini che si potrebbe toccarli con mano. E nubi che corrono veloci. E terre piatte fino all'orizzonte. Il ricordo nostalgico di un fratello scomparso. Il tetto del mondo visto da un cinese vagabondo alla Kerouac. Il Nord e il Sud a confronto, province ribelli per opposte tradizioni: Hong Kong, contaminata dall'influenza dell'occidente, e il Tibet, radicato al suo passato buddista. Gege ci racconta tutto questo. E lo fa con una messa in scena scevra di parole, affidata quasi totalmente allo sguardo, al fuori campo, al rimosso. Yan Yan Mak, già production manager di Wong Kar-wai per In the Mood for Love, non attinge neanche per un attimo alle atmosfere estetizzanti del cineasta di Hong Kong. Qui nessun ralenti strisciato, nessun montaggio effettistico, nessun falso raccordo. Ma invece una rappresentazione lineare, fatta di inquadrature fisse, movimenti di macchina ridotti all'essenziale, brevi piani sequenza. Il tutto accompagnato da una musica quasi improvvisata (chitarra acustica) che si confà al tono di ricerca del film, come se la nota giusta sfuggisse insieme al protagonista e al compositore.

In Gege sono centrali i volti della gente che si incontra, le strade polverose, le case povere e essenziali, l'inizio di una cultura omologante che si intrude nel tessuto di un gruppo umano ridotto ai minimi termini (si vedano i cappelli all'americana, i biliardi all'aperto, la prostituzione ampiamente suggerita, l'alcolismo). E soprattutto il desiderio di un ritorno a qualcosa di riconoscibile intimamente, qualcosa che in Cina come in Tibet (come nel resto del mondo, d'altronde) è sempre stata importante e che ora è esplosa, disintegrata, assente: la famiglia.

Questo desiderio riempie il film di un vago sentimento di fratellanza, come se quell'approssimarsi di corpi dentro la fotografia fosse l'unica forma sostitutiva dell'antica struttura sparita. Come se il sentimento del mondo andasse oltre la dimensione del tempo. D'altronde le immagini che il giovane protagonista ricava dalla telecamera digitale lasciata dal fratello anni prima sono pressoché identiche a quelle da lui viste lungo il suo cammino. Ancora volti, sguardi, sorrisi, gesti di gioia e di dolore che fanno una comunità. Con esse anche il film ritrova la sua antica famiglia, quella dei Lumière, quella di un cinema fatto per la memoria e non per il consumo.

Luciano Barisone