One harmed swordsman - Dubi Dao

Zhang Che alla regia lancia la star Jimmy Yu con il celeberrimo personaggio dello spadaccino monco, che sarà una delle figure mitiche della cinematografia hongkonghese, generando innumerevoli sequel. Il wuxiapian all'apice della sua gloria, uno dei film mitici degli anni sessanta.

ONE ARMED SWORDSMAN - DUBI DAO

 

Hong Kong/1967/116'
Produttore: Run Run Shaw
Regia: Zhang Che
Interpreti: Jimmy Wang Yu, Pan Yin-tse, Chiao Chiao, Huang Chung-shun

Figura imponente nel panorama del cinema d'arti marziali, l'eroe eponimo è stato soggetto di numerose riletture e parodie critiche. L'ultima in ordine di tempo è stato il remake del film, diretto da Tsui Hark col titolo The Blade/Dao (1995). Tsui, mente prodigiosa dell'industria hongkonghese, ha saputo a fasi alterne ritrovare nell'ambito della tradizione le figure, i temi, le correnti più importanti, ed ha tentato lungo tutto il corso della sua carriera di ridare nuova vita a generi diversi spesso creduti morti. È più che naturale dunque che la sua attenzione si sia rivolta verso questo personaggio tenero e leale, coraggioso e ribelle che all'epoca ha rivoluzionato, insieme a Come Drink With Me/Da zui xia (King Hu, 1965), il wuxiapian hongkonghese. Parimenti, The Blade è un omaggio al regista Zhang Che, maestro dei film di cappa e spada, occhio che ha saputo forgiare un mondo e che ha esteso la sua influenza a decenni di storie del cinema dell'ex colonia inglese ("il paradigma mitopoietico per eccellenza del cinema di Hong Kong" ). Se, però, Tsui Hark da par suo calca sull'acceleratore ed inietta adrenalina nel suo film, che procede velocissimo, possiede un montaggio serrato (anzi quasi: è un montaggio serrato), e inventa forme alla stessa insana rapidità con cui le brucia per trasformarsi in continuazione, il film di Zhang è lento e riflessivo, pieno di dialoghi struggenti e di riflessioni sul tema del rapporto maestro-discepolo, ovvero sul conflitto tra la natura eroica e belligerante dell'eroe e la spinta della compagna femminile alla stabilità di una vita rurale e contemplativa (in Tsui, tutta la vicenda è raccontata dal punto di vista della protagonista, ed acquisisce un tono più intimista e più caotico, a causa della voce off).

Pur tuttavia, in rapporto ad altri registi dell'epoca (in particolare si pensi alle opere coeve di King Hu), il tratto di Zhang è molto più sporco: le lunghe scene di combattimento non prevedono un accompagnamento musicale, ma si lasciano al piacere fisico di una sonorizzazione espressionista (il cozzare delle lame, il sibilo del getto di sangue arterioso che schizza dalle ferite aperte, il fruscio delle vesti). Durante i lunghi duelli, in cui si ripete ossessivamente la figura dell'eroe solitario che si scontra con innumerevoli avversari, la telecamera è sovente portata a spalla, creando così un oscillare dal ritmo frammentato che ben esprime la violenza. Oppure, la mdp è fissa sul suo asse, riprende l'azione ed al suo culmine ruota su se stessa: il movimento del corpo che cade trafitto dalla lama micidiale dell'eroe viene accompagnato e sottolineato dal parallelo vortice della mdp. Frequente è anche il ricorso allo zoom, che isola brani di spazio, volti nella folla, l'eroe nel mezzo dell'azione. Le scene sono cupe quando in King Hu sono chiare e luminose; Zhang predilige visibilmente le tenebre e le tinte scure degli scenari. Questi ultimi sono per la maggior parte ricostruiti in studio, sì che l'atmosfera generale sia di forte teatralità.

Il racconto è espressionista, una parabola morale cupa e pessimista. L'eroe, si è detto, è diventato un emblema: il vendicatore monco, lo sciancato che impara ad usare la propria debolezza in suo favore, e che riesce dove gli altri, ben ligi alla regola e all'ortodossia, falliscono.

Precedenti importanti sono giapponesi: oltre al massaggiatore/giustiziere cieco Zato Ichi (protagonista di una serie di film –una ventina- negli anni sessanta) bisogna ricordare la più diretta derivazione dell'eroe monco: il regista Daisuke Ito aveva messo in scena una serie di film (il primo datato 1928) su Sazen Tange, samurai monco di un braccio e con una cicatrice che gli segna il lato sinistro del volto.

La versione hongkonghese: Fong Kong è il figlio dei servi della casa del maestro d'arti marziali Chai Yu-fung. Per salvare la vita di quest'ultimo il padre di Fong Kong (ancora un bambino) sacrifica la sua vita; così il maestro decide di prendere il piccolo sotto la sua protezione e di insegnargli la sua arte. Gli anni passano, il giovane diviene il migliore del suo corso, ma è osteggiato dagli altri discepoli. Al parossismo, pure la figlia del maestro, giovane bella e viziata, vuole scontrarsi con lui. L'eroe non vuole usare le armi contro di lei, sarebbe troppo pericoloso. La batte; lei, infuriata, estrae la spada e gli trancia di netto il braccio. Il giovane trova rifugio presso una contadina locale dal passato misterioso, la quale lo accoglie e cerca di accasarlo: le armi, dice a ragione, non possono altro che ingenerare violenza con moto irrevocabile a spirale. Ma come resistere al richiamo del dovere, quando il giovane si accorge che una banda di feroci assassini ha trovato una tecnica in grado di sconfiggere la pur potente abilità del suo ex-maestro? Così, tragicamente spinto dall'ineluttabilità del destino e da un senso dell'onore più forte del razionale timore egoista della sua ragazza, l'eroe parte per avvertire il suo ex-maestro, riunitosi per festeggiare il suo compleanno con tutti i suoi discepoli, della minaccia incombente. Appena in tempo. È grazie alla prodigiosa tecnica che ha saputo sviluppare battendosi con un solo braccio, il sinistro, che Fong Kong riesce dove tutti i dotati allievi avevano fallito: da notare come il suo allenamento sia penoso e difficile, ma in qualche modo corrisponda al suo destino: egli infatti usa un libro d'arti marziali che trova presso la paesana che lo ha aiutato; il libro è monco, pure lui, è mancante. Una parte infatti è bruciata, e resta solo quella relativa agli esercizi per il braccio sinistro. Per finire, l'eroe possiede la spada lasciatagli dal padre, una spada spezzata, monca anch'essa (queste trovate saranno entrambe riprese in Tsui Hark). Dunque la formazione dell'eroe è intrapresa suo malgrado, ma conformemente ai disegni del destino ed ai desideri paterni espressi in punto di morte; il cavaliere trova la sua ragione d'essere, e non può sottrarsi alle sue responsabilità. Dopo una dura battaglia sconfigge il crudele avversario proprio sfruttando la sua mancanza, la sua lama spezzata, la sua tecnica mancina inedita ed inattesa. Una volta vittorioso, però, parte, solo, lasciando il maestro e la scuola.

Figura epica e paradigmatica la tempo stesso, l'eroe monco, mancante, incompleto che trova la sua pienezza nell'esercizio della virtù e nella strenua pratica marziale si può considerare a tutti gli effetti uno dei miti fondatori del cinema di Hong Kong.

Zhang Che fonda la sua personale mitologia gettando le basi per il wuxiapian dei decenni successivi: innanzi tutto fa di Wang Yu una star, invertendo la tendenza che aveva imposto, sino ad allora, uno star system femminile. Con la creazione di un nuovo universo maschile, Zhang Che (e con lui il romanziere Gu Long, dalle cui opere sono tratti numerosissimi film del periodo) inietta nel cinema di Hong Kong una componente violenta, sanguinaria ai limiti del gore, fortemente macho e misogina, omoerotica, visivamente fiammeggiante ma tematicamente cupa e pessimista. Gli eroi si battono quasi sempre per la vendetta (la forma più stilizzata la si trova in Vengeance/Baochou, 1970), e sono cavalieri loro malgrado; l'amicizia virile e l'onore sono i valori fondamentali.

La sua opera, vastissima, onnivora di influenze, plagi e citazioni passa da diversi registri e generi (wuxiapian, kungfu pian) e lascia un marchio indelebile su tutta la cinematografia hongkonghese; il più eclatante dei quali è John Woo, suo assistente alla regia divenuto... John Woo!

Corrado Neri