Tamasha: Il teatro della "liberazione"

Il Tamasha è una forma di teatro tradizionale nata nel Maharashtra alla fine del XVII secolo. Erotico nei contenuti e scevro da tabù inibitori, si era diffuso soprattutto tra alcune comunità di fuoricasta, benché tra gli autori figurino diversi brahmani. Usato spesso come strumento di satira politica, il Tamasha oggi ha suscitato l'interesse di molti artisti e intellettuali che hanno contribuito ad una ripresa di questa forma nell'ambito del teatro contemporaneo, soprattutto di lingua marathi.

TAMĀSHĀ: Il teatro della "liberazione"

 

Origini
La forma teatrale detta Tamāshā - parola persiana che significa "divertimento", "intrattenimento", "spettacolo" - nasce in India alla fine del XVII secolo, all'epoca degli scontri tra l'esercito dell'imperatore mughal Aurangzeb (1618-1707) e i guerriglieri del Maharashtra, i Maratha, capeggiati da Shivaji (1627-1680). Al seguito dell'esercito imperiale, accampato nelle valli e nelle colline del Maharashtra, c'erano anche cantanti e danzatori del Nord dell'India e proprio l'incontro della cultura del Nord con quella del Maharashtra portò alla nascita del Tamāshā.

I Dormbari e i Kolhati, acrobati e saltimbanchi delle comunità locali del Maharashtra, impararono prontamente le danze del Nord, rielaborandone le tecniche. Anche le danzatrici di Gondhal (performance rituale del Maharashtra, da cui secondo alcuni studiosi deriverebbe il Tamāshā), che si esibivano per celebrare la dea Pārvatī (consorte di Shiv), portarono il loro contributo a questa nuova forma di intrattenimento: gli strumenti da loro usati - tuntune (strumento a corda unica) e manjīrā (cembali metallici) - vennero incorporati nel Tamāshā nel corso della sua evoluzione.

Dopo la morte dell'imperatore Aurangzeb e sotto il dominio dei peshvā, cioè dei vari primi ministri che si succedettero nell'amministrazione del regno maratha durante il XVIII secolo, il Tamāshā fiorì e si sviluppò. Raggiunse il momento di massima popolarità durante la fine del XVIII secolo, per registrare invece una grave battuta d'arresto quando le redini del potere passarano in mani inglesi nel 1818.

A causa dei suoi contenuti erotici, il Tamāshā era generalmente aborrito dalle classi più elevate. Ad avvicinarsi per primi a questo genere di intrattenimento furono infatti i Mahār e i Mang, due comunità di fuoricasta. I Mahār formarono e formano tuttora la spina dorsale del Tamāshā e si considerano socialmente più elevati rispetto ai Mang ed altre classi di intoccabili (B.R. Ambedkar,1891-1956, uno dei padri fondatori della Costituzione indiana, apparteneva alla loro comunità). Tuttavia, questa forma teatrale seppe attirare anche brahmani di alta casta. I migliori autori di Tamāshā dell'ultima metà del '700 furono proprio tre brahmani - Ram Joshi, considerato il primo autore di Tamāshā, Anantphandi e Prabhakar - che per questa loro attività vennero tutti allontanati dalla comunità d'origine. Ram Joshi (1762-1812) era un poeta superbo e le sue poesie di contenuto erotico, le lāvnī (si veda oltre), sono un esempio insuperabile nella produzione per il Tamāshā. Bayabai, una cortigiana, amava tanto le sue composizioni che le cantava anche nel suo baithak ("salotto") per intrattenere i suoi protettori. Poi si innamorò del poeta e cominciò a vivere con lui, mettendo in musica molte delle sue poesie, in cui veniva fatto ampio uso di metafore e simboli erotici. Proprio per i contenuti erotici del Tamāshā, prostitute e cortigiane ne imparavano melodie e movimenti di danza per intrattenere i clienti.

Dopo l'occupazione inglese, le corti del Maharashtra decaddero. Nel XIX secolo, mecenati del Tamāshā diventarono le persone più facoltose della regione e ciò contribuì notevolmente alla sua popolarità. Ancora un bramano di alta casta, Patthe Bapu Rao (1868-1941) ottenne grande fama in tutto il Maharashtra come poeta-cantante di Tamāshā. Sebbene sposato, si innamorò di Pavala, una bella ragazza della comunità dei Mahār, e le insegnò a cantare, a ballare e a recitare. Fino ad allora, a interpretare le parti femminili erano degli adolescenti, che venivano chiamati nāchya poryā ("giovinetti danzanti"). Fu Pavala la prima donna - e la più illustre - a recitare in una compagnia di Tamāshā. Dopo di lei, la partecipazione delle donne negli spettacoli diventerà sempre più consistente. Patthe e Pavala formarono una compagnia che tra il 1900 e il 1920 ebbe migliaia di spettatori in tutto il Maharashtra. Patthe, a causa della sua attività e del suo amore per Pavala, fu allontanato dalla famiglia e dalla comunità. Nel 1920 un ricco proprietario terriero convinse la donna a lasciare Patthe, che abbandonò la professione e morì in povertà: fu l'ultimo dei grandi compositori di Tamāshā.

Oggi ci sono 800 compagnie di questa forma teatrale, per un totale di 4000 persone (attori, ballerini, strumentisti e le loro famiglie), tra cui 3000 donne, la maggior parte delle quali viene dai Mahār, come Pavala.

La performance
Nelle piazze dei villaggi lo spettacolo si apre con due suonatori di tamburo, dholkīvālā (o suonatore di dholkī) e halgīvālā (o suonatore di halgi), che rimangono in scena dall'inizio alla fine della performance. La dholkī è un tamburo lungo e orizzontale che il suonatore tiene appeso al collo. Il centro della membrana di destra è incrostata di una sostanza nero scuro che dona al tamburo un suono metallico, mentre il lato di sinistra è coperto da una pelle di cuoio grezzo. Il suonatore, piegato in avanti, appoggia il tamburo su una gamba distesa, mentre tiene l'altra piegata all'indietro, così che sembra costantemente pronto a balzare in avanti.

La halgī è un piccolo tamburo cilindrico di legno con una faccia coperta con la pelle del ventre di una capra, mentre l'altra faccia rimane scoperta. Sul bordo del tamburo si trovano anche degli anelli d'acciaio. Il suonatore scalda il tamburo sopra un fuoco in modo da indurire la pelle e lo porta al livello del mento, tenendolo con la mano sinistra. Con la mano destra percuote la membrana, mentre con la sinistra tiene fra due dita una piccola canna ricurva con cui batte sul bordo del tamburo, producendo un suono acuto, che può essere sentito a chilometri di distanza e annuncia che lo spettacolo sta per cominciare.

Halgīvālā e dholkīvālā suonano il loro strumento con gusto competitivo, ma non si tratta di una vera e propria rivalità, bensì un modo per creare atmosfera e tensione. Altri due esecutori si uniscono ai primi due: il manjīrāvālā (o suonatore di manjīrā) e il tuntunevālā (o suonatore di tuntune). Sono questi ultimi a intonare il ritornello ripetendo, con un eccezionale salto tonale, l'ultimo verso della strofa eseguita dal o dalla cantante principale. Gli strumentisti stanno dietro al/alla cantante principale, che funge da sūtradhār ("che tiene le fila", il direttore di scena) , con il compito di commentare e di far procedere la vicenda rappresentata nei vari atti.

Le percussioni sono seguite poi da un'invocazione propiziatoria, durante la quale i suonatori, in piedi con le spalle al pubblico, si muovono sul palcoscenico cantando. Questa cerimonia, chiamata āvāhan (invocazione agli dei), è più comunemente conosciuta come gān che è un'abbreviazione di "Ganesh", il dio dalla testa di elefante, invocato all'inizio di un'opera come colui che allontana gli ostacoli. Qualche volta sono invocati anche Shiv e Pārvatī, perché, secondo la tradizione hindu, sono i genitori di Ganesh.

Dopo questa invocazione, i due suonatori di tamburo - l'uno nel ruolo di una divinità, l'altro come semplice suonatore - introducono la cornice della storia dialogando tra loro. Questa introduzione è seguita poi dal vag, la pièce vera e propria, che si ispira a soggetti mitologici o leggendari, o a situazioni più realistiche, come il comandante e re, il mercante e la moglie, il guerriero che incontra una giovane vergine in un paese straniero, due fratelli che litigano per un pezzo di terra, il marito tiranneggiato dalla moglie, ecc. Il vag si conclude tradizionalmente con la consueta morale: la verità risplenderà sempre e la falsità continuerà a soccombere. Le gag spassose, la lāvnī erotica, i balli provocanti, i canti e le poderose sessioni di percussioni costituiscono la parte principale del vag, che nel XVIII e XIX secolo veniva lasciato alla capacità creative degli attori. Questi - in base alle linee generali della storia - improvvisavano direttamente in scena, così che ogni rappresentazione costituiva una novità. Il cantante si intrometteva nel dialogo tra gli attori, cantava la lāvnī e faceva procedere la vicenda, sottolineandone i punti più importanti. Oggi il vag si basa sempre su un testo scritto; in questo modo gli attori e i cantanti non devono più fare la sforzo di improvvisare, ma lo spettacolo perde in freschezza e vivacità.

La lāvnī
La lāvnī è una composizione poetico-narrativa che costituisce la spina dorsale di una rappresentazione di Tamāshā. Il cantante principale canta il primo verso di questa composizione lentamente e con grande enfasi, mentre declama velocemente i versi che seguono, mimando le parole con gesti vivaci e introducendo così il pubblico nella storia. Quando la narrazione entra nel vivo, i due suonatori di tamburo cominciano a picchiare sul loro strumento; tuntunevālā e manjīrāvālā ripetono a squarciagola per molte volte l'ultimo verso cantato dal cantante per sottolineare il momento e improvvisamente si fermano. Per esempio, se la lāvnī racconta la storia di un generale che tradisce il suo re, la canzone descriverà il luogo e il tempo della storia, ma l'ultimo verso potrebbe contenere la sorpresa. Il cantante conclude la canzone con la frase "Ma il re aveva un generale corrotto!"; tali parole diventano il ritornello. Tuntunevālā e manjīrāvālā continuano a ripeterlo per imprimere nelle menti degli spettatori questa affermazione.

In media, negli spettacoli Tamāshā ci sono 30 lāvnī, che occupano metà delle sei ore dell'intero spettacolo. La prima di queste introduce i protagonisti, svela la trama e prepara il pubblico all'intreccio.

La lāvnī è sempre cantata con intensa partecipazione e la scelta delle parole è sempre ingegnosa e sensuale. Il lessico che viene utilizzato deriva direttamente dalle lingue dell'India del Nord e dal marathi.

La compagnia teatrale di Tamāshā
Le compagnie di Tamāshā - denominate gammat, phada e altro, secondo il tipo di rappresentazione o lo stile di canto - sono divise in due sezioni: dholkī bārī (i percussionisti) e sangīt bārī (le/i cantanti).

La dholkī bārī è la componente fondamentale della compagnia e comprende 15/25 attori che recitano il vag accompagnati dal suono dei tamburi. La sangīt bārī è composta da 6 o 7 persone più un suonatore di harmonium, un suonatore di clarinetto e un suonatore di tamburo. La loro performance è costituita esclusivamente di canto e danza.

La componemte musicale, in questa come in altre forme teatrali tradizionali, rivela una commistione di forme classiche e di elementi popolari e locali. Come accennato, nei secoli XVIII e XIX, a interpretare le parti femminili erano degli adolescenti. Negli ultimi 50 anni le donne, soprattutto nel ruolo di danzatrici, sono diventate un elemento essenziale nelle rappresentazioni Tamāshā. Le danze del Tamāshā sono di forma composita, in cui entrano diversi elementi, come lo stitle nātuch (o nautch) dell'India del Nord, le danze folk del Maharashtra e i movimenti acrobatici delle performers Kolhati.

La "primadonna" o nātuchni è la figura centrale della rappresentazione per quanto attiene alla danza, ma non ha costumi particolari. In genere porta una sārī o un'ampia paithānī (una veste di seta) drappeggiata e impreziosita da fiori dorati. Gli ornamenti sono costituiti da anelli d'oro e braccialetti marroni o verdi, ornati con frammenti di vetro, collana, orecchini, anello al naso, cavigliere e una cintura dorata. Una minuscola luna rossa abbellisce la sua fronte e la scriminatura dei capelli è cosparsa di polvere vermiglia. I capelli sono raccolti in una crocchia ornata di fiori perché la treccia potrebbe disturbare i movimenti di danza. Palmi delle mani e piante dei piedi sono tinti di rosa.

Nemmeno gli altri performers hanno costumi particolari, né hanno un trucco o delle maschere specifiche, ma vestono gli abiti comunemente usati nel Maharashtra, in base allo strato sociale di appartenenza. I musicisti in genere portano il kurtā (una lunga casacca) e la dhotī (telo avvolto intorno ai fianchi, spesso con un lembo passato tra le gambe e agganciato alla vita), un panciotto ricamato, un shelā (cintura) rosso e un phetā (turbante). Di solito halgīvālā e tuntunevālā vestono pressocché allo stesso modo. Se possono permetterselo, indossano un turbante di seta di colore arancione, giallo o rosa con i bordi d'oro.

Il Tamāshā oggi
Attualmente ci sono 200 teatri in tutto il Maharashtra che ospitano quasi esclusivamente compagnie di Tamāshā. L"Arya Bhushan Theatre" di Puna ne offre uno spettacolo ogni sera. La più famosa compagnia di Tamāshā è la "Bhau Bapu Khude Narayangaonkar Gammat", fondata da Bhau Mang, discepolo ed erede della tradizione creata da Patthe Bhapu Rao durante il primo quarto del '900.

Il Tamāshā è stato anche una forte arma di propaganda politica in mano ad attivisti di sinistra, come Anna Bhau Sathe, della comunità Mang. Attualmente, sono numerosi gli scrittori satirici che cercano di utilizzare questa forma teatrale, sostituendo lo humour di contenuto erotico con quello di contenuto politico. Il nuovo interesse degli intellettuali le tradizioni artistiche indiane, orali, tribali e folk, ha contribuito ad una ripresa di forme di Tamasha nell'ambito del teatro contemporaneo e del cinema, soprattutto di lingua marathi.

Anche le istituzioni governative hanno compreso l'importanza del teatro tradizionale a fini educativi o di propaganda. Già in epoca nehruviana, la Commissione Cultura del governo aveva utilizzato questa forma di spettacolo per una campagna informativa sui Piani Quinquennali.

Oggi i commediografi più "puritani" si danno da fare per sostituire con uno humour "pulito" il linguaggio talora osceno del Tamāshā; mentre i riformatori sociali si sforzano di ampliarne il "codice morale", rimuovendo quella che viene considerata la "volgarità di questo teatro. Il governo del Maharashtra ha promulgato una legge che bandisce le espressioni volgari nel Tamāshā. Vag e lāvnī vengono sottoposti alla censura delle autorità preposte; queste concedono un certificato che dovrebbe garantire l'"integrità morale" della rappresentazione. Ma la vera essenza e la caratteristica principale del Tamāshā sta proprio nella sua mancanza di pregiudizi inibitori, che sono presenti più tra le classi medie urbane che nei villaggi, i luoghi privilegiati di queste rappresentazioni. Ed è qui che il Tamāshā si manifesta per quello che è: il teatro della "liberazione" da tabù sociali, sessuali e politici.

 

Bibliografia essenziale
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A cura di Stefano Checchin