Jiang Jie, il balletto rivoluzionario e la dimenticanza

Remake dell'omonima opera rivoluzionaria, riposrta alla ribalta il balletto rivoluzionario e desta riflessioni sullo statuto di tale forma rappresentativa nella Cina contemporanea.

JIANG JIE, IL BALLETTO RIVOLUZIONARIO
E LA DIMENTICANZA

 

La proiezione dell'ultimo film di Zhang Yuan al Far East Film Festival di Udine nell'Aprile del 2004 ha destato numerosi interrogativi che gettano una luce ambigua sul regista, autore del primo film indipendente cinese e che ora lavora nell'ambito del circuito commerciale, e un sospetto inquietante su tutta la produzione commerciale cinese contemporanea. Il film è Jiang Jie (id., 2004), remake dell'omonima opera rivoluzionaria del 1968 diretta da Huang Zimu e Fan Lai. Al contrario di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, Zhang non ha optato per alcuna modifica sostanziale nel girare il film; esso si presenta come un fantasma dell'originale, i cui colori vividi restano pur sempre inalterati nella copia a disposizione di alcune cineteche – anche europee. La contraddizione principale risiede naturalmente, da un punto di vista filmico – si farà cenno più sotto a quello ideologico – nel fatto che le opere rivoluzionarie, pur se di natura ibrida, sfruttavano arie e motivi popolari, ritmi familiari agli ascoltatori dell'epoca; esse erano non per nulla opere destinate a una fruizione di massa. Il film di Zhang Yuan non usa, invece, i motivi pop che si odono ovunque in Cina al giorno d'oggi, ma restituisce una sorta di archeologia estetica ricreando tale quale un oggetto sepolto dal tempo, e spesso rimosso dalle coscienze. Piuttosto che una versione cinese del postmoderno Moulin Rouge! (Baz Luhrmann, 2001), dunque, Zhang propone una operazione simile a quella che intraprese Gus Van Sant rifacendo Psycho (1999). Il che racchiude senza dubbio – come fa notare Marco Müller durante la conferenza stampa – un'interrogazione sul modo di rappresentazione e sul fare cinematografico. Eppure questa argomentazione (difesa, verrebbe da dire) resta tautologica, e poco ci dice sui motivi profondi e sulla necessità di questo film, che pare proprio cercare giustificazioni e porre interrogativi cui non risponde; ancor di più, nasce il sospetto di una svendita in saldo a interpretazione zero di una capitolo fondamentale della cultura cinematografica cinese. Lanciare uno sguardo alle opere della Rivoluzione Culturale è forse utile per contestualizzare il nuovo film dell'ex-dissidente, e rispondere ad alcune delle questioni che pone.

L'Opera di Pechino (jingju), una delle fonti di ispirazione principali dell'Opera rivoluzionaria, è una delle numerose forme operistiche cinesi, di matrice ibrida e sincretica. Forma d'arte totale, riunisce recitazione, balletto, numeri acrobatici, percussioni, canto. I personaggi sono fortemente connotati da trucco e maschere, le cui variazioni cromatiche indicano differenti caratteri immediatamente identificabili dal pubblico. Apprezzata da Brecht, che studiò a fondo l'arte del celebre attore Mei Lanfang, l'Opera di Pechino è fortemente astratta e basata su convenzioni popolari; i cinesi usano, per definirne il carattere, il termine xieyi, che letteralmente significa "scrivere la realtà", e indica un misto di realismo e simbolismo. In particolare, l'artista deve descrivere delle cose che filma, dipinge o rappresenta la realtà intrinseca, la natura profonda andando al di là della mimesi, ma fermandosi prima dell'assegnamento di significati simbolici fissi – si badi bene, il "prima" e il "dopo" sono puramente logici e non vogliono dare alcun giudizio di valore. Il primo cinema cinese, pur se talvolta riesumando il concetto di xieyi (che è usato anche da autori contemporanei quali Zhang Yimou, Tsai Ming-liang e Chen Kaige), si allontanò dal teatro filmato cercando una forma espressiva puramente cinematografica e nazionale, la cui principale fonte d'ispirazione fu nondimeno la narrazione hollywoodiana. Paradossalmente, ma come paradossale è stata buona parte della politica maoista dal Grande Balzo in avanti, fu proprio al teatro filmato che si rivolse il cinema rivoluzionario. Saldamente in mano a Jiang Qing, madame Mao, la direzione culturale del Partito negò ogni altra forma cinematografica, favorendo il ritorno del teatro filmato, delle sue figure allegoriche, dei suoi personaggi stilizzati. Già nei primi anni della Repubblica Popolare cinese si era fatto chiaro che la libertà personale degli artisti sarebbe stata sottomessa agli interessi del Partito. Non solo: anche pellicole che all'occhio non allenato sembrano ideolgicamente pure, subirono allora fortissime critiche e ostracismi, dovute alle diverse letture che ne davano le correnti politiche in lotta tra loro all'interno del Partito. Con la Rivoluzione Culturale la Cina entra in un'epoca di grande caos e instabilità sociale. Mao lancia – ma non guida di persona – la rivoluzione permanente, e la moglie si occupa di tutte le arti, stabilendo le "Otto opere modello" (yangbanxi) che avrebbero funto da traccia per ogni canzone, film o rappresentazione teatrale negli anni a venire. La più nota di queste in Occidente è forse East is Red (Dong fang hong, dir. Wang Ping, 1965). Si tratta di un balletto rivoluzionario che ricostruisce la storia del partito scandita da frasi di Mao e occasionali canzoni. Il movimento di massa è estetizzato, il singolo scompare; sul palco sfilano imponenti coreografie che raffigurano la lotta patriottica contro il Giappone, la crescita numerica del Partito, le minoranze nazionali che ballano la gloria della rivoluzione. Ballerini incipriati danzano sulla scena, alla presenza di un pubblico foltissimo che gremisce la sala del teatro del popolo. Più che di un film, pertanto, si tratta piuttosto di teatro filmato roboante e glorioso. La pellicola è diventata un'icona del maoismo europeo. Viene tuttora riproposta in rassegne cinematografiche o nel corso di mostre d'arte – come per esempio al Centro Pompidou o alla Cinémathèque Française. Non senza, però, provocare moti di ripulsa presso il pubblico cinese più anziano che ricorda quando era costretto ad assistere a interminabili proiezioni di film di propaganda. La partecipazione forzata del pubblico non si desume solo dalla letteratura storica a proposito, o dai romanzi che rievocano la rivoluzione culturale (come Zhang Xianliang, Achee Min, Wang Meng etc.), ma anche da alcuni film. Per esempio River Witout Buoys (Meiyou hangbiao de heliu, 1983) di Wu Tianming (direttore degli studi di Xi'an ove videro la luce le prime pellicole della Quinta Generazione), rievoca gli episodi in cui le giovani guardie rosse andavano a prelevare a forza i lavoratori e tutti gli abitanti del villaggio perché assistessero a un'opera di rieducazione ideologica; il film non manca di mettere in scena due donne che progettano di sedersi in disparte, seguire le prime scene di una rappresentazione che conoscono a memoria e poi andarsene per tornare al lavoro nei campi.

East is Red rappresenta uno dei filoni principali delle Opere Rivoluzionarie, ma altrettanto importanti sono quei film che declinano le figure degli eroi rivoluzionari. Vere e proprie icone della cultura popolare, i combattenti comunisti lottano contro il Giappone, dispiegando il loro coraggio e la loro devozione alla causa, oppure contro l'oppressione feudale, ancora una volta fornendo esempi ideologici quasi sacrali. Un sottogenere dei balletti rivoluzionari è quello che mette in scena un'eroina. La donna, a partire dai primissimi vagiti del cinema, era il simbolo privilegiato della nazione cinese: forte, determinata, virtuosa, ma vittima di soprusi e ingiustizie da parte del regime feudale. Oltre a Jiang Jie, su cui si tornerà tra breve, altre celebri eroine sono la ragazza dai capelli bianchi (White Haired Girl, Sang Hu, 1972) e la protagonista di Red Detachment of Woman (Hongse nianzi jun, Cheng Yin, 1970). Entrambi film-manifesto, entrati nella mitologia del cinema cinese hanno contribuito a dettare sullo schermo le regole imposte dal partito a Yan'an, e che graficamente stabiliscono lo standard degli eroi rivoluzionari: al contrario delle rappresentazioni tradizionali dove l'eroe maschile è un debole letterato, e la fanciulla è virtuosa e paziente, e diverso anche rispetto ai film anni Trenta, in cui le eroine svilupparono una personalità forte ed indipendente, ancorché fortemente seducente e femminile, ecco come l'archetipo dell'eroe rivoluzionario esprime una sensualità pura, raggiante, una forza di spirito ineguagliabile, una corporeità statuaria e lo sguardo deciso al futuro. Naturalmente, vengono abbandonati tutti i vezzi decadenti del cinema di Shanghai pre-1949, in cui i personaggi sperimentavano le affascinanti novità occidentali quali le sale da ballo e i caffè. Anche qui si tratta di prestiti (segnatamente dal realismo sovietico), ma nella sfera dell'idealizzazione della vita contadina: sono corpi scolpiti nell'acciaio per coltivare con rispetto e nell'uguaglianza la terra degli antenati. Mentre nel cinema impegnato degli anni Trenta la tensione dei cineasti era di dare voce al popolo che soffriva, ora la soglia è stata oltrepassata e una nuova autorità impone fedeltà. Nessuno ha più voce: la musica orchestrale cancella ogni parola, impedisce ogni dialogo. Si tratta d'un melange inquietante, tanto le fonti sono riconoscibili e contraddittorie. Una referenza è, si accennava poc'anzi, il realismo socialista sovietico: riprese dal basso, guance rosee, identificazione estetica tra maschi e femmine. Queste ultime, se durante la prima parte di Red Detachment of Woman danzano con una posticcia treccia incollata alla blusa (in modo che svolazzi gentilmente ma non troppo), nella seconda parte, dopo essere entrate nell'esercito, la perdono in funzione d'un caschetto più pratico e androgino. Corpi muscolosi, tondeggianti e truccati: l'estetica socialista si innesta sul balletto classico occidentale e sulle sue orchestrazioni, in un ossimoro che incarna l'ideale politico marxista-cinese così come l'ideale filmico del partito. È impressionante soprattutto questo prestito anacronistico che più di tutto simboleggia la schizofrenia profonda della Cina negli anni Settanta. Se, infatti, i tradizionali modelli artistici sono abusati e tutti possono essere tacciati di feudalesimo, estetismi controrivoluzionari, ideologia di destra, al Partito non resta che questa esibizione di forza, innestata su una matrice occidentale già desueta da anni: il balletto classico con tutti i suoi tic e le sue leziosità. Qui in veste rivoluzionaria, certo: eroine incatenate (il fatto che la prostituta/serva rappresenti la Cina sottomessa ed è di conseguenza simbolo ideologico e politico fa talvolta sospettare che in realtà non sia che un pretesto per rappresentare giovani corpi incatenati e sottomessi, fantasia interrazziale), pugni chiusi in gesti di sfida, occhi sgranati, muscoli guizzanti sotto ferite esposte, bandiere multicolori e violenza rivoluzionaria. Di cinese restano certo alcuni elementi: la mescolanza dei generi innanzi tutto, l'approccio simbolico nella rappresentazione dei protagonisti, il ritmo del corpo che segue le percussioni e, dopo aver eseguito un numero di danza di matrice occidentale, si immobilizza nella posa ritualizzata dell'Opera di Pechino, posa statuaria che gioca sul movimento degli occhi e sulla precisione nell'esecuzione del virtuale fermo immagine. Altrettanto tipica della stilizzazione astratta dell'arte cinese è una certa propensione per i balletti: feudatari e comunisti se la danno di santa ragione piroettando e formando figure stilistiche calligrafate nell'aria, come gli eroi dei wuxiapian a Hong Kong.

Ogni individualità è posta sotto silenzio, brillano solo flussi di corpi nel fervore rivoluzionario, ma è già evidente a questo punto la forza costrittiva e normativa del Partito; se, infatti, nei film progressisti anni Trenta erano evidenti la rabbia e il rancore del popolo, così come i sogni utopici erano descritti con partecipe impegno, ora resta la calligrafia grezza di un movimento suicida, fatto di onde silenziose, ogni eventuale voce individuale (che veniva educata all'obbedienza nella versione filmica di Xie Jin) è cancellata dal coro maestoso.

Anche l'apprezzamento del fervore collezionista, nostalgico e pseudorivoluzionario che spingeva gli intellettuali europei anni Settanta ad abbracciare la fede maoista, e che ha fatto di questi film classici vintage, impallidisce al pensiero delle condizioni in cui il popolo veniva all'epoca obbligato a seguire queste interminabili due ore e mezzo e poi discuterne pure nel corso di inesauribili dibattiti tautologici organizzati dal partito, come ricordato poco sopra.

Zhang Yuan, invece, non esita a filmare il remake di Jiang Jie che fa parte delle opere rivoluzionarie con protagonista femminile; il film originale, nonostante la supervisione di Jiang Qing in persona, non entrò mai nel canone delle opere rivoluzionarie. Si dice che il motivo sia legato ai conflitti sempre più accentuati che separavano Mao dalla moglie; o ancora che Jiang Jie, personaggio realmente esistito, sia stata collusa a Deng Xiaoping, all'epoca inviso a Mao.


A differenza di The East is Red, che mette in scena balletti basati sui principi maoisti e rappresenta in maniera astratta le classi sociali, e dei balletti rivoluzionari White Haired Girl e Red Detachmnt of Woman che raccontano un'epica storica senza l'uso di dialoghi, Jiang Jie si accosta più da vicino all'Opera nello stile di Pechino. Si alternano dialoghi e parti cantate; musiche orchestrali mescolate alle percussioni tradizionali. Le scenografie sono estremamente stilizzate, rendendo il film "teatro filmato" molto poco spettacolare. Racconta le vicende di Jiang, rivoluzionaria martire. L'eroina esalta i valori del partito, incita il popolo alla ribellione, resiste alle torture dei malvagi feudatari. Interessante la fine, quando le donne prigioniere odono, lontane, le esplosioni che annunciano l'arrivo dell'esercito maoista. Vengono anche raggiunte dalla notizia della fondazione della Repubblica Popolare da parte di Mao. Tessono la bandiera rossa con le stelle gialle della Cina Popolare, cantando inni alla neonata patria, "finalmente nostra". Ma è troppo tardi per Jiang, condannata a morte. Non vuole lacrime, e canta l'orgoglio di essersi sacrificata per la patria. Il finale è un florilegio di sequenze fortemente iconiche: all'immagine della donna che canta (gilet rosso, sciarpa bianca) si alternano, sullo sfondo, i segni della sua passione (gli strumenti di tortura), il fuoco, e infine uno stormo di bandiere rosse.

Ebbene, le variazioni che Zhang Yuan apporta al testo sono minime; la cantante è sempre frontale – anche se Müller sostiene che essa non è mai ripresa nel momento in cui si mette in posa, che è uno dei più attesi gesti dell'attore sul palco, che dimostra la sua bravura nell'accordare i movimenti alle musiche. I cattivi sono cattivissimi, mentre i comunisti sono leali e coraggiosi e declamano i medesimi slogan maoisti dell'originale. Qual è, dunque, il senso di questa parodia serissima?

In Cina si assiste da un decennio ormai al ritorno dell'iconografia maoista: famosi sono i santini con l'effige del Presidente appesi ai retrovisori di tutti i taxi, così come le ricorrenti riproposte della sua immagine con colori ipersaturi. Anche la musica popolare ha tributato onore al Grande Timoniere producendo cover di canti rivoluzionari, riarrangiati in chiave rock e pop. Tutto ciò è stato letto dagli osservatori stranieri come un potente segno di nostalgia e anche come critica nei confronti del regime. L'immagine di Mao, infatti, sarebbe un memento dell'idealismo che fondò lo Stato, idealismo ora svenduto al capitalismo sregolato.

Lungi da me portarmi sulle posizioni che in fondo hanno fatto la fortuna di Zhang Yuan, ovvero la necessità da parte dell'Occidente di trovare messaggi dissidenti in tutti i film orientali, e in particolare cinesi. Questo ha portato da un lato a sopravvalutare figure come Zhang che non sono identificabili con uno stile particolare o con una personalità autoriale ben definita, ma sono note per i soggetti tabù che trattano "per la prima volta" (nel particolare: i portatori di handicap, Tiananmen, gli omosessuali, i cantanti rock, il sesso, l'alcool, il sistema carcerario); dall'altro hanno portato critica e, ancor peggio, distributori, a dimenticare figure di spicco e di grande autorità artistica perché si sono riavvicinate al regime e dirigono film nazionalisti, come per esempio Zhang Yimou il cui capitale Hero non trova accesso alle sale. Ma il discorso che giustifica Jiang Jie reloaded è proprio quello di una presupposta dissidenza, interrogazione forzatamente critica dei meccanismi di regime. Eppure, è un film che difficilmente potrebbe venire criticato dal Partito Comunista; forse, la spiegazione della sua mancata uscita nelle sale cinesi è lo scarso interesse del pubblico locale. Infatti, perché mai guardare una fotocopia di un'Opera Rivoluzionaria senza che vi sia nessuna apparente aggiunta, sia essa critica o interpretativa, sia una riattualizzazione o una contestulizazione?

La categoria della nostalgia può venire usata, a rigore, poiché il regista rievoca il tempo passato, il tempo perduto degli eroi – e paragona la fede di Jiang Jie a quella di Giovanna D'Arco. Ma la nostalgia è anche ciò che traspare dalle rielaborazioni formali di aspetti della cultura materiale del passato di autori quali Zhang Yimou o, per citare un film noto in Italia, In the Mood for Love (Huayang nianhua, Wong Kar-wai, 2000). Jiang Jie – che qui uso come epigone dei prodotti culturali cinesi o occidentali che recuperano acriticamente le icone del maoismo – non è solo un segno di nostalgia, ma piuttosto di dimenticanza. Osservare le vetrine delle gallerie d'arte che espongono, in Cina come in Occidente, i cartelloni di propaganda maoista (quelli appesi nella camera di Théo, dreamer di Bertolucci), assistere alla proiezione di una mummia riesumata di un'eroina rossa che canta come se il tempo non fosse passato, indica la mercificazione globalizzata di un fenomeno che tutto fu, tranne che kitsch, divertente o postmoderno.

Il film Jiang Jie sembra indirettamente puntare il dito sulla dimenticanza della Cina odierna, che nei suoi film commerciali sempre più spesso dispiega la nostalgia per le campagne e per i tempi andati, ma che procede spedita verso una liberalizzazione ancor più estrema di quella statunitense. Le icone del maoismo, come appunto Jiang Jie, un decennio fa venivano rievocate, parodiate e sottoposte a critica dagli allora giovani artisti, che ne interrogavano le motivazioni e l'eroismo, così come le manipolazioni della politica. Ora il cinema cinese pare ricordare il passato, ma come un idillio lontano, che si affronta in maniera acritica; le immagini delle opere modello, che si è tentato di delineare per sommi capi, sono il caso più eclatante ma non l'unico. Senza discorso, senza filtri, senza mediazione, il film Jiang Jie si presta a ogni sorta di interpretazione semiotica, simbolica e intellettuale, così come Psycho di Van Sant fece a suo tempo. Ma forse non vuol dire nulla di più di quel che sembra: una cultura che non ha più possibilità e/o bisogno di criticare costruttivamente il proprio passato, ma si limita a vederlo come l'ennesimo bene da consumare, l'ennesima scoria di immaginario indifferente al flusso dei capitali. Dando per buono questo assunto, naturalmente suscettibile di discussione, si possono leggere una serie di film cinesi recenti come espressioni di dimenticanza, pur se paradossalmente parlano di memoria. Le opere di Feng Xiaogang, di Huo Jianqi, di Li Shaohong (opere popolari, che raramente hanno accesso ai festival occidentali) e altri ancora mettono in scena la modernità e ne denunciano la mancanza di valori, costruendo in parallelo la rappresentazione della campagna come luogo di tradizione e onestà. Dimenticando, però, di raccontarne anche le miserie, le sofferenze, i motivi ultimi che portarono e tuttora portano decine di migliaia di contadini a fuggirle. Sono immagini "belle", eleganti, come lo sono le immagini "ricostruite" delle Opere rivoluzionarie; ma di entrambi, i registi cinesi – la maggior parte di loro, o perlomeno quelli che riscuotono successo di pubblico e critica in patria appoggiati dalla macchina della propaganda statale – omettono di raccontare il contesto, trasformandole in cartoline ricordo colorate non solo per gli occhi occidentali, ma anche e principalmente per lo sguardo avido del nuovo e sempre più numeroso pubblico cinese cui, evidentemente, fa più comodo procedere verso un liberalismo economico sfrenato tralasciando di riflettere, ed eventualmente criticare o interpretare la propria storia.

Note
Come nota Shelly Kraicer nel catalogo del Far East Film Festival (2004, p. 30) non c'è accordo tra gli studiosi nell'identificare esattamente le otto opere. Sulla rivoluzione culturale la letteratura è enorme; mi limito qui a segnalare la recente traduzione della biografia di Mao scritta dal celebre sinologo e romanziere Jonathan Spence (2004, Fazi Editore).
Di entrambi questi balletti filmati esistono precedenti versioni filmiche "in prosa": White Haired Girl (Baimao nü, dir. Wang Bin, Shui Hua, 1950) e Red Detachment of Woman (Hongse nienzi jun, dir. Xie Jin, 1960).

Corrado Neri