Gestione Marco Muller, anno terzo. Anche in quest’occasione il festival veneziano non si smentisce e si mostra come la più capace, tra le grandi manifestazioni cinematografiche occidentali, a farsi catalizzatore delle proposte più importanti prodotte ad oriente, in particolare estremo.

VENEZIA 2007 Ancora sul cinema orientale

 

Gestione Marco Muller, anno terzo. Anche in quest’occasione il festival veneziano non si smentisce e si mostra come la più capace, tra le grandi manifestazioni cinematografiche occidentali, a farsi catalizzatore delle proposte più importanti prodotte ad oriente, in particolare estremo. Per gli amanti delle statistiche: ben 13 pellicole (Leone d’oro a Se, Jie  di Ang Lee compreso), distribuite su tutte le sezioni, in rappresentanza di 5 paesi (Taiwan, Corea del sud, Hong Kong, Cina e Giappone), con contributi di autori affermati o meno conosciuti, spaziando tra vari generi. Una proposta molto ricca, impossibile da riassumere in maniera esauriente in queste poche righe, senz’altro capace di indicarci lo stato di salute in cui versa il cinema asiatico prodotto in quest’ultimo anno.

Come se la passa allora il cinema dalle parti dell’Asia? Abbastanza bene, però, forse, neppure benissimo. Perché se è vero che è ad oriente che bisogna sporgersi per gustare il meglio del cinema contemporaneo mondiale, è anche vero che la 64esima edizione della Mostra non fa che confermare un sospetto già adombrato su queste stesse pagine nella passata edizione del festival. C’è infatti poco da discutere: dalle parti di quel cinema iniziano a mostrarsi i segni non tanto di una palese crisi creativa, quanto di un autocompiacimento (o di tentativo di compiacere il pubblico dei festival: il che è la stessa cosa), di ripetizione di stilemi ormai sin troppo collaudati, in una involontaria forma di manierismo che è il prezzo da pagare nelle coproduzioni confezionate apposta per i festival internazionali (specie occidentali), e che può essere sperimentata, ci sembra, a vari livelli.

Per esempio,
1) si consideri la proposta veneziana considerata dalla prospettiva del cosiddetto cinema d’autore. Da un lato, è un piacere raro – che solo i festival sanno  offrire – quello di poter vedere un film come Cheonnyeonhak, centesima (sic) fatica del vecchio Im Kwon-taek, straordinario autore ingiustamente troppo spesso fuori dalla distribuzione internazionale, che qui ancora una volta ripropone attraverso l’epopea dei pansori (come già in Chunjang) la incredibile ricchezza culturale ed umana di un’arte e una tradizione capace di spaziare, in maniera sinestetica,  tra vari livelli espressivi. D’altra parte, però, non fa affatto piacere trovarsi sempre più di fronte a quella malattia, tipicamente “autoriale” (e per certi versi “europea”), che invece sta aggredendo altri cineasti che nel recente passato abbiamo amato. Stiamo parlando della terribile tendenza del citarsi addosso, attraverso racconti che mettono magari in scena, spesso  metalinguisticamente, la propria incapacità nell’allestire una forma di spettacolo originale. Kitano Takeshi, per esempio, sembra ormai irrimediabilmente avvitato su se stesso. Come nel precedente Takeshis' anche in questo Kantoku - Banzai! sembra che al grande attore regista non resti altro che giocare con le proprie maschere fossilizzate e i propri doppi spettacolari (in questo caso lo troviamo alle prese con un fantoccio dalle sembianze kitanesche), con l’intento dichiarato di ribadire la propria crisi creativa e quasi irridere, consapevolmente, la stessa critica che ne aveva fatto oggetto di culto. Sempre rimanendo in ambito giapponese, Aoyama Shinji, invece, con Sad Vacation si trincera dietro la scusa di fornirci l’ultimo atto della trilogia “Kita Kyushu Saga” per ribadire il suo cinema sempre più uguale a se stesso e – va detto – sempre più incline a suscitare noia. Scansando Bangbang wo aishen, nel quale il regista Lee Kang-sheng praticamente ricopia il cinema del suo maestro Tsai Ming-liang, è meglio davvero, da questo punto di vista, rivolgersi al film di Lee, perché lo statuto più d’artigiano che da autore permette al regista di indagare con correttezza, attraverso gli stilemi del melodramma, una certa ossessione per l’auto-rappresentazione, una tensione che attanaglia i personaggi stessi del film, vittime inconsapevoli di un meccanismo che ne fa prima di tutto “attori” e icone nel grande “spettacolo”  della Storia.

Sul versante dei generi,
2) il festival registra l’involuzione di un altro regista oggetto di culto. Miike Takashi ha infatti ridotto la sua estetica fumettistica – un tempo sinonimo di inesauribile libertà –  a un gioco citazionistico a beneficio di un certo giovane pubblico cinefilo, tra l’altro rappresentato nella pellicola da Quentin Tarantino, la cui comparsata è l’unico motivo di interesse del film. Non ha destato maggiore interesse la megaproduzione Tiantang Kou, diretta da Alexi Tan. Solo Johnnie To conferma le attese, con il suo solito film impeccabile nella prospettiva del cinema di genere, ma anche pieno di fascino, nella deriva inaspettata che il film adotta, piegando il thriller verso la commedia di fantasmi, particolarmente leggere e godibile.

In generale le cose migliori sono apparse sul versante documentaristico. A parte l’insostenibile Xiashuo (di Lü Yue, a ben vedere un docufiction) la sezione Orizzonti ha offerto due tra i più interessanti film apparsi al festival: non solo il Jia Zhangke di Wuyong, ma soprattutto San di Du Haibin. Due documentari a stretto contatto con le trasformazioni del sistema industriale cinese,  che dimostrano quanto i maggiori spunti creativi in ambito cinese sembrano venire dalla disamina, a tratti impietosa, delle conseguenze sociali imposte dalla grande crescita economica delle tigri asiatiche. Dove – ed è questo il dato più interessante – non si tratta di dare sfogo a un’analisi globale del fenomeno, ma di dare voce al singolo cittadino, alle individualità di vari personaggi che resistono e reclamano la propria diversità, proprio all’interno della piatta uguaglianza imposta dal sistema geopolitico ed economico dell’estremo oriente contemporaneo.

Roberta Parizzi