Giunto al suo secondo anno di gestione Muller, il festival veneziano si conferma come il più importante punto di riferimento, tra le mostre cinematografiche internazionali, per la conoscenza della produzione filmica orientale, se non altro per la quantità delle pellicole proposte.

 

VENEZIA 2006: Breve cronaca a oriente

 

Giunto al suo secondo anno di gestione Muller, il festival veneziano si conferma come il più importante punto di riferimento, tra le mostre cinematografiche internazionali, per la conoscenza della produzione filmica orientale, se non altro per la quantità delle pellicole proposte (un'offerta che è eufemistico definire "generosa": quasi impossibile, in queste poche righe, enumerare e soprattutto citare tutti i film asiatici proiettati nelle sale del Lido). Venezia offre infatti la possibilità di ammirare un certo orizzonte nella sua totalità, e insieme di apprezzare qualità ma anche possibili limiti intrinseci alla cinematografia orientale contemporanea. Detto altrimenti, l'Asia si mostra ancora una volta come l'avanposto del miglior cinema degli ultimi anni. E tuttavia sorge spontaneo il sospetto che parte di questa filmografia – sostenuta e concepita, spesso e non a caso, attraverso produzioni europee (leggesi francesi, per intenderci) – rischi di canonizzarsi non solo nei tratti di uno stile sempre più "internazionale" e globale, ma nella maniera sempre più ripetitiva di quella che ormai si può tranquillamente definire "estetica da festival" – un vero e proprio genere, per così dire, che ha ormai il suo pubblico, il suo mercato, le sue aspettative e anche le sue regole.

L'assiduo frequentatore di quei mondi a parte che sono le mostre cinamtografiche (e non parliamo solo di Venezia) sta sviluppando ogni anno che passa un sentimento contradditorio. Si prendano i casi di due cineasti per certi aspetti inattaccabili come Tsai Ming-Liang e Apichatong Weerasethakul. I film che i due registi hanno proposto a Venezia (Hei yanquan  e  Sang sattawat) suscitano l'approvazione naturale di chi è capace di riscontrare una certa onestà intellettuale, e la riproposizione di un rigore formale e poetico ineccepibile, capace sempre di dare voce a una diversità che in tempi di omologazione generalizzata  va comunque difesa. Eppure, non si può non constatare quanto queste due pellicole non aggiungano molto al percorso espressivo dei due cineasti, fino quasi a inquadrarsi in un marchio d'autore così forte da farsi "marca", logo di un prodotto che è riconoscibile a priori, prima dell'acquisto e della visione stessa del film. Cosa che del resto accade anche nel caso di Fangzhu di Johnnie To: un film godibilissimo e divertente nel suo citare Sergio Leone e Peckinpah e nel suo ripercorrere con ironia gli stilemi dell'action movie hongkonghese, ma che in ogni caso fonda la sua forza proprio nella riproposizione di un meccanismo consolidato e circolare, destinato per sua stessa natura a riproporsi in una sorta di gioco infinito e inesauribile.

Ma per intenderci, si consideri soprattutto il caso del film che ha vinto il Leone d'oro, Still Life. Jia Zhangke ha fatto un film che deve la sua potenza innanzitutto alll'urgenza politica che lo contraddistingue, alla volontà di denunciare – soprattutto agli occhi dello spettatore occidentale – lo scempio davvero disumano conseguente al varo dell'immensa diga nella valle delle Tre Gole. Tuttavia, il tema della ferita inferta dalla modernità al tessuto tradizionale della Cina contemporanea è esattamente il nucleo tematico caratteristico di molti film orientali (o per meglio dire cinesi) preparati ad hoc per vincere i concorsi dei vari Cannes e Venezia, così come la dilatazione temporale ai danni dell'inquadratura e il gusto per l'ellissi narrativa non è altro che lo stesso segno che gà caratterizzava il passo di Platform, l'altro film che Zhangke aveva proposto al Lido qualche anno fa (e che guarda caso, se non sbagliamo, era stato premiato). Ne consegue il forte sospetto che il vero film che traduce autenticamente l'universo poetico del regista non sia Still Life ma Dong, il documentario sulla tragedia delle Tre Gole (presentato nella sezione Orizzonti), solo per certi aspetti preparatorio al film di finzione destinato al concorso. Un film, Dong, questo sì notevole, perché capace di unire la rappresentazione del dato storico (gli spazi, i personaggi, ritagliati spesso nelle medesime inquadrature, sono gli stessi di Still Life), con la speculazione estetica di stampo orientale, nella forma di una profonda riflessione sulla poetica del paesaggio, filtrata attraverso gli occhi (e il ritratto) di una straordinaria figura d'artista, il pittore Liu Xiao-dong.

Ma non generalizziamo: il globale, l'intenazional-festivaliero offre i suoi vantaggi, anche quando si sporge ad oriente. Può capitare quindi di imbattersi in un film davvero unico, come l'indonesiano Opera Jawa di Garin Nugroho. Anche qui si tratta di una coproduzione europea-asiatica (c'è l'investimento dell'austriaca New Crowned Hope, la stessa casa di produzione che sostiene il film di Tsai). Ma è uno sforzo che si giustifica in un'operazione di affascinante sincretismo estetico, all'interno della quale una tradizione sconosciuta ai più può rivelarsi, e anche mostrare tutta la sua modernità potenziale. Il film è infatti l'adattamento musicale, ci informa il press book, "di un capitolo del classico Ramayana, il "wayang", attraverso l'ausilio di canzoni giavanesi, danza, recitazione, arte visuale e installazioni". Nugroho può quindi sovrapporre la musica indonesiana con quella dance, coinvolgere compagnie internazionali di balletto moderno sulla tradizione più arcaica balinese. Il risultato non ha nulla di esotico né di insopportabilmente avanguardistico. Al contrario, è straordinariamente vivo ed intenso. La confusione degli stili è in realtà rispetto della tradizione autoctona, e niente rimanda alla superficialità del postmoderno, come a prima vista si potrebbe sospettare. Ne nasce un film meravigliosamente strabico, nel suo coniugare il linguaggio e l'occhio avanti e indietro, verso il passato e verso il futuro.

Diverso il discorso per la proposta veneziana proveniente dal Giappone, nel senso che, come ben sappiamo, quella nipponica è davvero industria che sa porsi indipendentemente dalla logica formale e contenutistica spesso cercata dai festival internazionali occidentali. Il cinema giapponese sa muoversi nella varietà di proposte, di stili e di generi,  anche se, per dirla tutta, il risultato non è sempre all'altezza. Per esempio, la ricca offerta di pellicole d'animazione giapponesi vista qui al Lido, seppure di ottimo livello, sembra soffrire del partito preso di giocare, comunque, con il piacere estetico derivante dall'indistizione tra realtà e finzione, dalla commistione tra mondi paralleli (è il caso di Paprika  di Kon Satoshi; mentre da parte sua Tachiguishi retsuden – una sorta di inerrestabile delirio "pop" di Oshii Mamoru – soffre di una sorta di ipertrofia logorroica nel commento fuori campo, almeno per chi, come noi, è costretto a seguire il racconto attraverso i sottotitoli). Tornando al cinema live action,  Koorogi  di Ayomama Shinji conferma invece tutte le perplessità nei riguardi di un autore forse un po' sopravvalutato da certa critica (soprattutto francese). E tuttavia ogni riserva cade quando si passa davanti all'ultima opera di Kurosawa  Kiyoshi. Sakebi è un altro necessario capitolo sul "ritorno del fantasma" che ossessiona tutto il suo cinema. Magnifica opera di "genere", pienamente moderna e al tempo stesso inserita in una consolidata tradizione narrativa, ma soprattutto capace di cogliere quell'essenza cinematografica inconfondibile, nella quale il vuoto delle architetture e del paesaggio solcato dall'ombra del fantasmatico si fa misura della solitudine umana, e dell'enigma irresolvibile dello statuto incerto dell'immagine contemporanea. Grande film!

Roberta Parizzi