La superficie delle cose - Conversazione con Jia Zhang Ke, Adriaticocinema 1999

"Amo riprendere la superficie delle cose, senza entrare in esse. Perché, filmando una superficie, riesco a captare umori, contrasti, respiri: lasciandoli trasparire, ma senza stimolarli ad uscire."

 

LA SUPERFICIE DELLE COSEConversazione con Jia Zhang Ke, Adriaticocinema 1999

 

Jia Zhang Ke non è figlio di Chen Kaige e Zhang Yimou, anche se anagraficamente è ascrivibile alla cosiddetta sesta generazione di cineasti cinesi. Nell'opera d'esordio di questo regista non ancora trentenne, l'eterno contrasto fra tradizione e modernità, che impregna la cinematografia cinese, è completamente assorbito, quasi introiettato a livello esistenziale, dal personaggio cui è (amorevolmente) dedicato il film: il timido, asociale, Xiao Wu, «artisan pickpocket», come recita il titolo francese che invita così, non senza una punta di malizia, a «cercare Bresson» in Cina. D'altronde il riferimento al maestro - e alla cinematografia francese in generale - è inevitabile, dalle prime inquadrature, che colgono Xiao Wu al lavoro su un autobus, fino all'affresco della vita di provincia tratteggiato nei suoi spostamenti. Ma nell'«europeità» di Jia Zhang Ke non vi è nulla di accademico: è chiaro che egli non cerca tanto un terreno di sperimentazione più o meno narcisistica, quanto le radici del cinema, la sua essenzialità materica ed espressiva. Vuole spogliarlo di ogni ufficialità, alleggerendo la macchina da presa: tendenza radicalmente innovativa in una produzione come quella cinese, nel suo complesso ancora appesantita da numerose zavorre, culturali e censorie.

Pericolosamente vicino al "nemico" (il cinema dell'incomunicabilità della vicina Taiwan), Jia Zhang Ke trascura gli aspetti istituzionali nel rappresentare il proprio paese, condensandone la storia in volti anonimi, corpi "disadatti" e luoghi dismessi, e la tradizione in gesti e oggetti di nessun valore. Ne risulta un itinerario nel silenzio (dell'anima, dei sentimenti, delle cose), ritagliato come per miracolo nel rumore confuso di una "civiltà" che avanza inesorabile, capace di produrre nello spettatore un forte coinvolgimento "da tempo reale" e un senso di acuta nostalgia, veicolata dal mestiere d'altri tempi di Xiao Wu, dalla sua inadeguatezza nei confronti della donna che ama e dell'amico di un tempo (ora dedito ad attività illegali più redditizie), dal suo bisogno di tornare a casa.

La vera forza di questo film davvero indipendente, girato con attori non professionisti (a eccezione dell'attore e dell'attrice principali) in luoghi familiari al regista senza nascondere le crepe nei muri e il disordine degli interni, è il suo respiro. Lungo, profondo, regolare. Come ritmato da quel continuo fumare dei personaggi. Pulsazioni del tempo - come afferma lo stesso Jia Zhang Ke - ma anche battito cardiaco di un mondo destinato a scomparire.

In Xiao Wu lei fa ricorso alla camera a mano per stare molto vicino ai personaggi, per trasmettere un profondo senso di "contatto". Ci sembra una precisa scelta di stile, al di là di eventuali esigenze produttive legate al basso budget.
Innanzitutto questa scelta è nata dal fatto che prediligo il documentario. Inoltre, nel contesto della storia, essa mi ha permesso di lavorare con elasticità, di cogliere "sul momento" dei particolari, delle idee che scaturivano durante le riprese. Con l'uso della camera a mano ho cercato anche di trasmettere la convulsione, originata dal cambiamento economico, che la Cina sta vivendo a partire dagli anni Ottanta e che in noi ha prodotto un fermento, un'agitazione nell'anima.

I rumori sembrano sottolineare questo stato interiore, mentre le canzoni rimandano più alla tradizione.
In effetti il rumore rappresenta la non-pace interiore. La canzone sta invece a significare la presenza dei sentimenti oltre quella tensione vissuta dai personaggi e diffusa negli ambienti.

A questo proposito nel suo film c'è una sequenza esemplare. Xiao Wu va a casa dell'amica e la trova a letto malata. La macchina da presa, frontale, registra silenzi e voci, canzoni e rumori, creando un legame fra quanto accade nella stanza e quello che, non visto, si manifesta oltre la finestra, in strada.
Si tratta di una sequenza molto importante. Serve per delineare meglio i sentimenti di Xiao Wu e della ragazza, il rapporto che si sta costruendo, ma che non è ancora chiaro, essendo pieno di disordine. Quindi, i vari elementi che coesistono in quella sequenza rendono l'instabilità emotiva e le incertezze dei personaggi.

È una situazione di disordine che si estende anche alla qualità dei luoghi, al loro mostrarsi senza abbellimenti, quasi a testimoniare ulteriormente la condizione esistenziale e sociale. Lei filma le "periferie": case abbandonate, scrostate dal tempo, che portano i segni della memoria e dell'antico. In questo senso si può parlare di documentario.
Ho girato, in 16mm, a Fenjang, il paese dove sono nato, situato a sud di Pechino, lungo il fiume Giallo, in una regione dell'interno, la provincia di Shaanxi. Quel luogo rappresenta in maniera significativa una realtà della Cina. La rivoluzione economica, iniziata una ventina d'anni fa, ha portato una disparità enorme tra ricchezza e povertà. E le differenze sociali sono aumentate. Così, a parte lo sviluppo urbano delle grandi città, come Pechino o Shanghai, che hanno beneficiato di questo cambiamento, tutte le altre zone della Cina si accostano a quanto ho descritto nel mio lavoro. Girare un film simile è difficile, perché è difficile rappresentare la vera realtà. Per questo ho voluto mostrare questi aspetti, sapendo che avrei avuto problemi. Inoltre da noi non esiste una scuola per il documentario, perché gli istituti di cinematografia non prevedono spazi per questo genere. Ma, a partire dagli anni Novanta, alcuni registi indipendenti hanno incominciato a dedicarsi con interesse al documentario; per cui le cose potrebbero migliorare.

La quotidianità è sempre rappresentata senza enfasi, nei suoi tempi - comprese le pause, che di solito al cinema vengono tagliate - in un modo al tempo stesso "oggettivo" e partecipato.
Il mio obiettivo era proprio ritrarre la vita reale dei personaggi, nella maniera più neutrale possibile. A me piace molto fare delle riprese lunghe, riempite dallo spazio, dal vuoto. Mi piace dilatare le immagini per cogliere degli elementi, delle relazioni fra le immagini stesse. Il fattore-tempo, la durata, è fondamentale. Attraverso tutto il film cerco di scolpire il tempo. Ci sono registi, come Chen Kaige o Zhang Yimou, per i quali sono importanti, ad esempio, i chiaroscuri e l'aspetto pittorico. Io invece dò priorità al discorso sul tempo. In questo senso, più che espandere il tempo, mi interessa sottolinearlo.

Pur trattando una materia drammatica, il film ha un ritmo piano, seguendo l'andamento naturale delle cose: la drammaticità "è" nelle cose, non in scene madri.
Il motivo per cui non emergono momenti di tensione o di scontro è dato dal fatto che le contraddizioni, che pure esistono (come nel caso dei due amici che nutrono un sentimento di rabbia), vengono interiorizzate. Ciò è tipico della vita e del modo di essere cinese. Poi, filmando con questo stile documentaristico, ho potuto mantenere una distanza tra me e i personaggi. Infatti, se mi fossi avvicinato di più, avrei rischiato di trasformare uno sguardo oggettivo in qualcosa di troppo soggettivo. Amo riprendere la superficie delle cose, senza entrare in esse. Perché, filmando una superficie, riesco a captare umori, contrasti, respiri: lasciandoli trasparire, ma senza stimolarli ad uscire.

Ma questa, più che un distacco dai personaggi, ci pare una forma di amore verso di loro, un rispetto della loro verità.
È vero. Con questo procedimento rispetto il modo di essere dei personaggi.

Alcuni passaggi sono dati da lunghi stacchi in nero, dove i rumori, i suoni della scena precedente continuano, creando una specie di collegamento nel tempo e nello spazio.
Con quegli stacchi ho proprio voluto interrompere le scene del film, facendo anche sì che il senso della storia fosse vissuto in maniera continuativa attraverso i rumori.

Prima parlavamo di un'agitazione del vivere quotidiano in Cina. Questa sensazione è resa anche dai traslochi continui, riferiti a personaggi o a luoghi che cambiano, provocando smottamenti fisici e interiori.
Il cambiamento che si sta registrando nella vita quotidiana si rispecchia anche in piccole situazioni reali, come quella che avete ricordato: un trasloco, una casa che deve essere demolita... Nel mio paese stanno abbattendo tutte le vecchie case, per costruirne altre nuove, che saranno tutte uguali. Si rischia di non riconoscere più i luoghi. In questo senso, Xiao Wu può anche essere visto come un documentario su un luogo che tra poco non esisterà più. Anzi, certe abitazioni che ho filmato sono già sparite. L'opera tradizionale, rappresentata in un antico edificio e che ho inserito in una scena, non va più di moda. Le tendenze, i generi, le mode cambiano con rapidità. Xiao Wu diventa così una sorta di archivio.

Come stile, e per le sue peregrinazioni esistenziali, Xiao Wu si avvicina al cinema di Taiwan. Qual è il suo rapporto con il cinema asiatico?
È vero, mi sento vicino ai registi taiwanesi, soprattutto a Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang, che descrivono la realtà attingendo più alla tragedia che alla commedia e all'azione, come fanno quelli di Hong Kong. Con quest'ultima ho invece avuto un altro tipo di rapporto, a livello produttivo. Una società hongkonghese, dopo aver visto i miei cortometraggi, ha deciso di intervenire nel finanziamento di Xiao Wu. Avevo iniziato a girare il film tre mesi prima della fine dei corsi all'accademia cinematografica di Pechino, ma al di fuori della scuola, che non è intervenuta nella realizzazione. È un'autoproduzione artigianale e indipendente.

Parlando di riferimenti e amori per altre cinematografie e autori, viene spontaneo pensare a Robert Bresson, anche per il modo di lavorare sui silenzi e sulle solitudini. Inoltre, fin dalla prima sequenza sull'autobus, costruita sui dettagli, viene in mente Pickpocket.
Conosco bene il cinema di Bresson: è il regista che preferisco in assoluto. Ma, facendo Xiao Wu, non mi sono reso conto di farvi riferimento in modo così esplicito. A lavoro terminato, rivedendo il film, penso che sia possibile individuare alcuni punti di contatto. Quindi, direi che, se ho ricevuto un'influenza, il tutto è avvenuto inconsapevolmente. E poi non c'è solo Bresson: gli altri due autori che ammiro di più sono italiani, Vittorio De Sica e Federico Fellini.

A proposito di scelte di stile - ricollegandoci ancora a Bresson - ci ha colpito la sua decisione di lavorare, al primo lungometraggio, con attori non professionisti. Cosa l'ha portata a questa scelta?
Mentre per Bresson qualsiasi attore non professionista poteva andare bene, per me l'idea di lavorare con persone senza esperienza di recitazione è nata da un'altra esigenza, quella di rappresentare un atteggiamento e delle situazioni naturali, reali. Tutti gli attori sono di Fenjang, il paese dove ho girato il film, tranne l'attore che interpreta Xiao Wu, che studia sceneggiatura all'accademia cinematografica di Pechino, e l'attrice nel ruolo dell'amica Mei Mei, che è una modella per prodotti di bellezza, sempre di Pechino. Ho dovuto chiamare lei, perché a Fenjang nessuna ragazza sarebbe stata disposta a interpretare la sua parte.

Prima di Xiao Wu ha realizzato altri lavori. Di cosa si tratta?
Nel 1994 ho girato il cortometraggio documentario Un giorno a Pechino, su piazza Tien An Men. Dell'anno seguente è invece Xiao Shan torna a casa, mediometraggio di finzione con protagonista un uomo che dalla periferia si trasferisce a Pechino per trovare lavoro. Attualmente lavoro a La giovinezza sull'altopiano, un film documentario al quale sto dedicando molto tempo e che dovrebbe vedermi impegnato ancora per due-tre anni. Si basa su un fatto realmente accaduto: la storia di un emigrato che va a Pechino deciso a fare la rivoluzione, ma non vi trova alcuna rivoluzione. Contemporaneamente, cercherò di fare nuovi film che rispecchieranno lo stile di Xiao Wu, legato al realismo. In particolare, vorrei raccontare la vita movimentata di un gruppo di cantanti nel corso di una tournée.

Xiao Wu è stato applaudito in molti Festival, da Berlino a Rotterdam, a Adriaticocinema. In Francia è addirittura uscito nelle sale di prima visione. In Cina è stato visto o ha avuto problemi di distribuzione?
A tutt'oggi nella mia nazione Xiao Wu non è ancora stato mostrato ufficialmente, perché la censura non ha concesso il visto per la circolazione nei cinema. Sono state effettuate quattro proiezioni in un circuito underground di Pechino, frequentato da numerosi artisti: la sala dell'università, quella dell'istituto d'arte, quella dell'ambasciata francese, la "camera oscura" di una casa privata. Comunque, attraverso questi circuiti o, soprattutto, la diffusione delle videocassette la distribuzione è abbastanza facile, anche se, ovviamente, informale, tra amici. Nei cinema di Hong Kong ha invece avuto una regolare distribuzione. Sono invece uscite moltissime critiche del film su riviste cinesi, sia commenti di critici locali sia traduzioni di articoli scritti all'estero. Questo è possibile perché ai giudizi critici non si fa quasi caso. Sono le proiezioni pubbliche a dare fastidio.

a cura di Giuseppe Gariazzo e Adelina Preziosi
con la collaborazione di Alessandra Pesaresi