Il cinema giapponese tra guerra e propaganda, 1931-1945

Tra il 1931 e il 1945 le varie forze politiche che si erano succedute al governo in Giappone misero a punto precise misure per rendere il controllo sui media più rigido. Il cinema, all'epoca il media che per le sue caratteristiche intrinseche aveva il maggior impatto propagandistico, divenne uno dei componenti fondamentali del sistema di costruzione del consenso.

IL CINEMA GIAPPONESE TRA GUERRA E PROPAGANDA, 1931-1945 Sunto della relazione presentata per gli Atti del XXVI convegno Aistugia (Torino Settembre 2002), in corso di pubblicazione.

 

Tra il 1931 e il 1945 i governi giapponesi non solo attuarono misure per rendere il controllo sui media più rigido, ma mutarono radicalmente gli indirizzi politici che informavano tale controllo. In questi anni si passò da un atteggiamento in prevalenza censorio a uno di indirizzo attivo dei media, la cui cooperazione era essenziale per ottenere il consenso del popolo e per mobilitarlo attorno alle iniziative del regime.

Difatti, l'impegno militare in Cina e, dal 1941, in tutto il Pacifico, imponeva di dedicare settori sempre più vasti dell'apparato produttivo giapponese al sostegno dell'economia di guerra, a discapito del livello di vita dei singoli cittadini. Ma lo Stato non si limitò a chiedere ai giapponesi di sopportare i sacrifici: essi, al fronte come in patria, furono chiamati a contribuire incondizionatamente alle scelte del regime. La miscela di strumenti coercitivi e propagandistici con cui tale adesione fu ottenuta scaturì da un lento processo che, in modo strisciante, tolse ogni valore alle già deboli garanzie costituzionali, cancellando ogni forma di libera espressione.

Il cinema, all'epoca il media che per le sue caratteristiche intrinseche aveva il maggior impatto propagandistico, divenne uno dei componenti fondamentali del sitema di costruzione del consenso.

Il cinema giapponese dopo l'invasione della Manciuria
L'invasione della Manciuria coincise con l'introduzione del cinema sonoro in Giappone: nel 1931 fu infatti prodotto il primo film sonoro giapponese. L'anno seguente, i film sonori giapponesi furono 45, ancora pochi rispetto alla produzione complessiva, ma un progresso non trascurabile in termini assoluti.

Dal 1933 al 1935 l'industria cinematografica intraprese un notevole sforzo di modernizzazione e di adeguamento delle strutture per la produzione di film sonori. L'impegno economico e logistico fu notevole perfino per Nikkatsu e Shōchiku, la cui stabilità finanziaria fu scossa dalle spese affrontate per il rinnovo delle attrezzature e degli studi di posa. In questa fase di forte competizione molte piccole e medie società di produzione cinematografica fallirono o furono assorbite per cui, tra il 1936 e il 1937, il mercato sarebbe stato sostanzialmente egemonizzato da Nikkatsu, Shōchiku e dalla Tōhō eiga, nata dalla fusione di quattro case di produzione.

Gli effetti dell' "incidente" mancese sull'industria cinematografica furono inizialmente marginali e i film a soggetto militare, come Manmō kenkoku no reimei (L'alba della fondazione nazionale per la Manciuria e la Mongolia) di Mizoguchi, relativamente pochi, anche perché la funzione propagandistica era affidata soprattutto ai cinegiornali, ai film di attualità e a quelli culturali (bunka eiga). Queste produzioni erano in gran parte appannaggio di società collegate ai grandi gruppi giornalistici Asahi, Mainichi, Yomiuri e, dal 1936, all'agenzia di stampa unificata Dōmei. Cinegiornali, documentari e film culturali, spesso commissionati dai ministeri dell’Esercito e della Marina, erano proiettati prima dell'inizio dei film "regolari", oppure in apposite sale a prezzi estremamente popolari.

Un esempio di queste produzioni, commissionata al Mainichi dall'esercito, fu il "celeberrimo" film culturale Hijōji Nippon (Il Giappone in tempo di crisi), tanto platealmente propagandistico da essere utilizzato come prova a carico degli imputati nel processo di Tōkyō nel 1945. Il film, sonoro, era una lunga concione patriottica del ministro della Guerra Araki Sadao, nella quale veniva esaltata la missione divina delle armate giapponesi che si battevano per difendere e diffondere la "via imperiale" (kōdō) e per portare la pace in Asia. Araki poi passava a condannare l' "occidentalizzazione" (intesa come perversione dello spirito nazionale).

Anche nel cinema di intrattenimento, tuttavia, la pressione governativa sia attraverso i canali istituzionali sia attraverso le organizzazioni di destra, non tardò a produrre i suoi effetti. Dopo un avvio stentato, il numero dei film dedicati direttamente o indirettamente le vicende belliche sul continente aumentò: nel 1933 la Nikkatsu produsse Sakebu Ajia (L'Asia alza la voce) di Uchida Tomue, nel 1934, la Shōchiku Omoiokoseyo Nogi Shōgun (Ricordiamo il generale Nogi!) di Yoshimura Misao. Negli stessi anni i film ritenuti "non ortodossi", anche se muniti del visto della censura, furono sottoposti a forti pressioni. Nel gennaio 1934 il film Machi no hi (Fuochi della città), prodotto dalla Shōchiku, fu duramente contestato da gruppi di destra perché ritenuto una critica indiretta allo spirito nazionale nipponico. Nello stesso anno il governo creò il Comitato per il controllo della cinematografia (Eiga tōsei iinkai), aumentando così la capacità di controllo statale sul cinema.

La guerra sul continente cinese e il cinema
La guerra in Cina stimolò, abbastanza prevedibilmente, la produzione cinematografica di film a sfondo bellico. Tra questi, Shingun no uta (La canzone dell'esercito vittorioso, diretto da Sasaki Yasushi e prodotto dalla Shōchiku nel 1937), Gonin no sekkōhei (I cinque esploratori, Tasaka Tomotaka, Nikkatsu, 1938), Tsuchi to heitai (Soldati e terra, Tasaka Tomotaka, Nikkatsu, 1939), Nishizumi senshachō den (La storia del comandante di carri Nishizumi, Yoshimura Kōzaburō, Shōchiku, 1940) e Moyuru Ōzora (Cielo in fiamme, Abe Yutaka, Tōhō, 1940).

Shingun no uta, la cui canzone era una marcetta patriottica sponsorizzata dal Mainichi, ha per protagonista un giovane destinato alla perdizione, in quanto "criminale di pensiero". Dopo una notte passata in cella nella stazione di polizia, il protagonista viene illuminato dalle parole del commissario e decide di dare una svolta alla sua esistenza, arruolandosi nell'esercito come volontario. Abbandonati la moglie e il bambino in fasce, diventa un coscritto e viene mandato sul fronte cinese. Dopo un primo scontro, facilmente vinto, con l'esercito nazionalista, vi è il rischio che il grosso delle truppe giapponesi venga tagliato fuori da una controffensiva cinese e il protagonista si offre per andare a avvisare il comando, nonostante il fuoco incrociato delle mitragliatrici nemiche. Verrà colpito, ma il suo sacrificio permetterà a un suo commilitone di completare la missione. Sul letto di morte al protagonista resta il tempo per pronunciare la fatale battuta: "ho fatto il mio dovere per il Paese". A casa, la moglie riceve il telegramma con la notizia del decesso e promette solennemente al marito defunto: "non preoccuparti, mi occuperò io di nostro figlio". Al fronte le truppe riprendono l'avanzata, cadenzata dalla canzone tema del film.

Il messaggio propagandistico piuttosto rozzo di Shingun no uta, un film irrisolto anche dal punto di vista cinematografico, fu invece perfezionato da Tasaka Tomotaka con Gonin no sekkōhei e con il successivo Tsuchi to heitai. In questi film la crudeltà e la durezza della guerra non vengono nascoste e i soldati non sono rappresentati come eroi. Il tema centrale è invece il gruppo, una comunità il cui comune denominatore è la devozione all'imperatore e alla "missione civilizzatrice" del Giappone. Gonin no sekkōhei, in particolare, avrebbe stabilito i canoni espressivi dei futuri film di guerra. La componente propagandistica non è evidente, tanto che, avulso dal contesto storico in cui fu generato, potrebbe quasi sembrare un film contro la guerra. In realtà, come in tutta la propaganda più efficace, il messaggio arrivava allo spettatore in maniera indiretta, attraverso episodi e caratterizzazioni calibrati abilmente. La storia è semplicissima: una pattuglia, inviata in missione esplorativa in territorio cinese è attaccata e uno dei cinque soldati, disperso, non fa rientro. La notte i camerati lo danno per morto, ma egli ritorna, illeso anche se stremato. Il soldato riesce a completare il rapporto al comandante, poi le ginocchia non lo reggono per la stanchezza. Segue un momento di forte commozione in cui gli altri soldati gli si stringono intorno, offrendo cibo, sigarette e conforto. Qualcuno piange. La tensione drammatica si scioglie quando uno dei soldati intona il Kimi ga yo, immediatamente seguito dagli altri che si ricompongono. Anche gli ufficiali, nella loro stanza, si mettono sull'attenti. Il mattino seguente, completati i preparativi per la partenza verso il fronte, il comandante fa un semplice discorso ai soldati, nel quale ricorda loro che potrebbero perdere la vita nel combattimento, ma che le loro famiglie, fratelli e sorelle, mogli e figli li guardano, e così l'imperatore.

Il film non fa mistero del fatto che i soldati siano uomini con debolezze e sentimenti umani, e proprio questa è la sua forza: l'aver mostrato come le debolezze e i sentimenti possano tramutarsi in vigore e in determinazione con le quali superare ogni pericolo e ogni sfida. La vita in sé non ha valore, se non può essere offerta alla suprema causa imperiale. Curiosamente, questo tipo di messaggio, tanto efficace in patria in quanto stimolava le giuste corde emotive del popolo, fu giudicato inadatto dai burocrati del ministero degli Esteri ad un uso propagandistico esterno, come aveva proposto il governo dopo il riconoscimento ottenuto dal film a Venezia nel 1940. Mostrare alle platee straniere, in particolare occidentali, il soldato giapponese in tutte le sue dimensioni, compresa quella della debolezza e dello sconforto, sarebbe stato una pericolosa ammissione di vulnerabilità.

In questo montante clima militaresco, un regista che andava in controtendenza era Yamanaka Sadao, specialista di jidaigeki. In Ninjō kami fūsen (Umanità e palloni di carta, P.C.L., 1937), Yamanaka fornì una rilettura in chiave demistificatoria dell'etica del guerriero che fu ritenuta inammissibile dal governo, nonostante il film avesse ottenuto il visto della censura. Yamanaka fu improvvisamente richiamato alle armi e spedito sul fronte cinese, dove morì un anno dopo.

Un altro film dedicato a un tema potenzialmente pericoloso fu Tsuzurikata kyōshitsu (Lezioni di composizione, Tōhō, 1938), diretto da Yamamoto Kajirō e ambientato tra il sottoproletariato di una città del Giappone moderno. Grazie al tocco leggero del regista, il film non divenne esso stesso un caso. Tsuzurikata kyōshitsu si inserisce nel filone del "neorealismo" giapponese, come fu battezzato dai critici dell'epoca, di cui altri notevoli esempi furono Tsuchi (La terra, Nikkatsu, 1939) di Uchida Tomu e Uma (Cavalli, Tōhō, 1941) diretto dallo stesso Yamamoto Kajirō che si avvalse di un promettente aiuto regista, Kurosawa Akira.

Gli esempi di film su tematiche indipendenti erano però destinati a diventare sempre più rari, in particolare dopo l'approvazione della Eigahō (Legge sul cinema) il 5 aprile 1939. Lo spettro di una legge di controllo del cinema, sul modello di quella approvata in Germania nel 1934, incombeva da tempo sul mondo del cinema giapponese. C'era chi la paventava, come il critico Iwasaki Akira, e chi la vedeva come un'opportunità, come i vertici della traballante Nikkatsu. Il sentimento prevalente era, anche nel cinema, quello della rassegnazione. In una tavola rotonda (zadankai) pubblicata nel numero di settembre del 1936 di Kinema junpō, si poteva leggere il seguente passaggio:

A: ritengo che il governo, gradualmente, abbia intenzione di imporre un rigido controllo sulla produzione cinematografica.
D: Non vi sono dubbi al proposito. E lo farà anche sull’aspetto artistico del cinema.
A: Se è così, non resta più alcuna speranza.
E: Speranza? Certamente no

Quando finalmente la legge fu approvata, i presentimenti degli anonimi partecipanti allo zadankai divennero una realtà. L'art. 5 della legge prevedeva che coloro che desiderassero lavorare come attori, registi o operatori dovessero sottoporsi a attitudinali, passati i quali avrebbero ottenuto una certificazione professionale.

L'art. 9, vero cardine della legge, introduceva la censura cinematografica preventiva, mentre gli artt. 12 e 16 regolavano qualitativamente e quantitativamente l'importazione di film esteri. La legge, oltre alla produzione controllava anche la distribuzione dei film e la loro proiezione nelle sale. Dopo l'entrata in vigore della legge, solo i film che davano un contributo "positivo" alla politica nazionale poterono essere prodotti. Per questo, e per la scarsità di pellicola, il numero di film girati in Giappone, che nel 1939 era 513, scese a 497 nel 1940, a 232 nel 1941, per crollare a 26 nel 1945.

Inoltre la legge introdusse il sistema dell'approvazione preventiva dei progetti cinematografici, dai soggetti ai copioni, e un registro obbligatorio per le case di produzione, i registi e gli attori, che non potevano operare senza la licenza governativa. Furono poi rese obbligatorie le proiezioni di bunka eiga e posti dei limiti alla durata degli spettacoli.

La guerra del Pacifico
Il processo di semplificazione e di "adeguamento" dell'industria del divertimento ebbe una forte accelerazione a cavallo dello scoppio della guerra nel Pacifico. Il razionamento dei materiali strategici, anche a cuasa delle sanzioni commerciali imposte dagli Stati Uniti, comportò la drastica riduzione di pellicola disponibile per il settore cinematografico. Nell'agosto del 1941 il Naikaku jōhō kyoku elaborò un programma di drastica riduzione della produzione cinematografica. Con qualche modifica il piano divenne operativo e impose la riduzione a tre delle case di produzione cinematografica e a sei il numero massimo complessivo di film prodotti mensilmente. Il numero di copie stampate per ogni film fu fissato in 30 e la distribuzione organizzata in due canali, rosso e bianco, la cui programmazione era decisa dai burocrati governativi. Il numero dei film importati fu altresì contingentato e, praticamente, ridotto a pellicole provenienti dai Paesi dell'Asse.

Il regime non si limitò a utilizzare le leve della coercizione, ma operò abilmente per cooptare gli operatori del settore cinematografico. Stanchi della continua incertezza in cui dovevano lavorare a causa di direttive vaghe e spesso contrastanti, la maggioranza degli operatori del settore cinematografico accolsero con sollievo misure più restrittive, se servivano a rendere espliciti i limiti del consentito. Uno strumento che creò un canale di comunicazione diretto tra burocrati e mondo della cinematografia fu la Nippon eiga kyōkai (Associazione del cinema giapponese), ma gli incontri tra funzionari dell'Ufficio informazioni, produttori e cineasti, presero anche la forma di "tavole rotonde" o zadankai, in cui erano "discussi" temi quali "Il furturo della cinematografia giapponese" o "La politica nazionale sul cinema". In queste sedute, i cui resoconti erano stampati dalla rivista filogovernativa Nippon eiga, organo della Nippon eiga kyōkai, i funzionari governativi applicavano abilmente tecniche di persuasione psicologica, blandizie e velate minacce. In questo modo gli zadankai servirono a trasformare gli intervenuti in zelanti applicatori delle direttive ministeriali.

Tra i film a soggetto bellico prodotti dopo l'attacco a Pearl Harbour l'aspetto propagandistico ebbe il sopravvento su ogni altra considerazione e non fu più temperato dalla componente umana dei film dedicati al conflitto in Cina. In questo senso Hawaii marei oki kaisen (1942), diretto da Yamamoto Kajirō e Kaigun (1943) di Tasaka Tomotaka possono essere presi a modello delle produzioni commissionate dal regime. La riduzione nel numero delle pellicole prodotte e l'impoverimento nei contenuti, totalmente asserviti alle direttive governative, non impedì che proprio nel periodo di guerra debuttassero alla regia Kurosawa Akira, e Kinoshita Keisuke. Tuttavia anche i loro film non poterono sottrarsi alle condizioni generali del tempo e pagarono un pesante tributo alla "politica nazionale"

Con la conquista del Sud-Est asiatico e delle Filippine, si aprirono nuove frontiere alla produzione cinematografica e alla propaganda. Un'analisi dettagliata di questi aspetti non è qui possibile, ma è interessante ricordare il film Ano hata wo ute (Colpite quella bandiera!), una coproduzione nippo-filippina. i cui stilemi rappresentativi, dividendo chiaramente i personaggi in "buoni" e "cattivi" è quanto di più vicino ai film occidentali di propaganda sia stato prodotto in Giappone.

Conclusioni
Il cinema ha dato un contributo fondamentale alla diffusione e al rafforzamento dell'ideologia del regime, anche e soprattutto attraverso i film di intrattenimento. Vi furono importanti eccezioni, quali i registi Kamei Fumio nel settore documentaristico e Yamanaka Sadao in quello dei jidaigeki. Più diffuse furono forme di resistenza "passiva", come quelle adottate da Mizoguchi Kenji e da Ozu Yasujirō che si rifugiarono in film tratti da testi letterari o ambientati nel periodo Meiji. Tuttavia l'intero settore cinematografico fu costretto ad uniformarsi alle direttive governative e solo rarissime crepe al sistema si rivelarono dopo il 1939.

Non sono pochi i film a soggetto, prodotti in questo periodo, che nonostante il pesante condizionamento ideologico, mantengono un notevole impatto cinematografico. Anche i meno riusciti, tuttavia, con il loro stile quasi documentaristico costituiscono una preziosa testimonianza e una insostituibile fonte di analisi di questo tormentato periodo della storia giapponese.

Marco Del Bene