Spirit of the nation

Uno dei grandi film storici prodotti dall'hongkonghese Yonghua diretto dal veterano Bu Wanchang. Il film racconta una sconfitta, e la tenacia dell'onore patriottico pur nell'esilio.

 

 

Hong Kong, 1948, b/n
Con: Liu Qiong, Yuan Meiyun, Wang Xichun, Tao Jin, Wang Yuanlong

 

Uno dei grandi film storici prodotti dall'hongkonghese Yonghua; il film fu costosissimo, e ottenne un enorme successo di pubblico (in Cina, ma soprattutto nella diaspora cinese del sud est asiatico), che non bastò pur tuttavia a colmare il deficit della casa di produzione che andò incontro al fallimento. Diretto dal veterano Bu Wanchang (1903-1974), già regista di Mulan Joins the Army e interpretato da Liu Qiong (n. 1913), attivista del partito comunista che si fece espellere da Hong Kong a causa delle sue attività politiche; è protagonista di Girl Basketball Player n° 5.

Il film racconta una sconfitta, e la tenacia dell'onore patriottico pur nell'esilio. Il messaggio non poteva passare indifferente alle comunità di cinesi esuli dalla madrepatria nella colonia britannica. Il protagonista è Wen Tianxing, mitico primo ministro della dinastia Song che rifiuta di cedere le armi alla nuova dinastia mongola, gli Yuan. Nonostante sappia di andare incontro alla sconfitta, il dignitario incarna alla perfezione gli ideali confuciani del gentiluomo. Il film si apre con la duplice descrizione dell'ambiente corrotto della corte (topos di tutti i film storici dell'epoca, da Sorrows of the Forbidden City a Lin Zexu); il dignitario che si occupa delle frontiere è sordo agli accorati appelli che giungono dal fronte: è un ometto grasso e ridanciano, che passa le sue giornate a correre dietro alle sue concubine e a far lottare i grilli; si vede d'altronde un funzionario che gli porta in regalo un raro grillo da combattimento e una fanciulla in fiore, e diventa sull'istante ministro della giustizia. Al fronte la situazione è disperata: la città è assediata da sei anni, il generale a capo della guarnigione si dispera di non ricevere nessun aiuto dalla corte, e osserva, passeggiando per le strade in rovine, le scene più aberranti: mendicanti che rantolano le ultime preghiere, una madre che cerca di salvare il bambino dall'attacco di poveri disperati che lo vogliono mangiare, per non morire di fame... l'unico che pare avere interesse ad agire è il temibile Wen Tianxiang, che a corte svolge la funzione di bibliotecario, e sottopone all'imperatore dei memoriali accusando le malversazioni dei funzionari e domandando a gran voce la guerra. Ma l'imperatore è ritratto come un imbelle burattino nelle mani dei corrotti mandarini. La situazione precipita: la città di frontiera cade, e il generale passa dalla parte del nemico per vendicare la disattenzione che la corte gli ha tributato durante sei anni di battaglia. Allora il mandarino corrotto parte per la battaglia, in una serie di sequenze molto divertenti: si pavoneggia nell'armatura dorata, e nella sua tenda lo accolgono le sue concubine travestite da soldati; per gioco, il funzionario sottostà agli ordini della bella generalessa, che gli intima: "truccami le sopracciglia!". Ma nottetempo la flotta si fa attaccare, e il mandarino viene infine costretto alla fuga. L'imperatore deve allora ricorrere ai servizi di Wen, che si era ritirato nella sua villa in montagna. L'uomo non esita a prendere le armi e partire alla guerra con i due fedeli luogotenenti, Libao e Liwu. Come in Mulan, anche qui le scene di battaglia contrastano nettamente con la delicatezza poetica delle scene dialogate: esse sono disordinate, povere in costumi e sfondi, e sopratutto mal coreografate: gli eserciti di diecimila uomini risultano essere uno sparuto gruppo di cavalieri goffi che si muovono disordinatamente. Le sequenze dialogate rivelano una cura molto maggiore: Wen viene introdotto al cospetto del generale mongolo, e si svolgono una serie di dialoghi preziosissimi; Liu Qiong dà un ritratto di Wen superbo, austero, inflessibile, solenne. Discetta con il nemico con linguaggio forbito a colpi di citazioni classiche, proponendogli la resa con decisione e sprezzo del pericolo; non manca poi di accusare di tradimento il generale che è passato al nemico: non importa quanto la corte possa essere corrotta e meritevole di sdegno, il soldato lotta per la patria! La corte è invero corrotta, poiché arrivano i suoi emissari che si arrendono al generale mongolo; Wen è tratto prigioniero. Ma riesce a fuggire grazie all'aiuto prezioso dei lealisti. Inizia un lungo viaggio verso il sud, per raggiungere la capitale della neonata dinastia dei Song del Sud. Nel tragitto Wen deve lottare contro la disperazione: vorrebbe entrare in una città, ma il suo ritratto è appeso proprio all'esterno delle mura, è ricercato e minacciato della pena di morte. Il suo fedele Liwu cede alla disperazione, e si chiede il perché continuare un viaggio destinato al fallimento. Questo squarcio lirico è prezioso e raro (il film è girato a Hong Kong, non in Cina popolare), poiché mostra dei sentimenti certamente condivisi dal pubblico: perché combattere, quando la dinastia imperiale stessa ha dato forfait? Eppure, lo spirito della nazione che Wen incarna è appunto votato al patriottismo puro e indefesso, nonostante tutto (ovvero: anche se si vive sotto il giogo della colonia britannica, è ancora possibile restare fedeli all'idea della patria e dei suoi valori); è un momento toccante e di grande umanità. Wen riesce infine a raggiungere la capitale del Sud, combatte dopo aver giurato fedeltà ad un imperatore bambino; ma è troppo tardi, la dinastia Yuan è vittoriosa. Wen saluta la moglie e il figlio prima della battaglia decisiva. Dopo la sconfitta, il generale avversario gli offre di ottenere un posto nell'esercito mongolo, ma naturalmente Wen rifiuta. Si trova così a passare tre anni in ascetica solitudine in una casa-priogione alle porte della capitale. Riceve la visita dell'antica servitrice e di Liwu, che si è pentito del tradimento alla patria ed espia con devozione illimitata nei confronti del maestro. Wen ha i capelli bianchi, e il cuore di ferro. Declama la sua filosofia (i caratteri del suo discorso appaiono in sovrimpressione, testamento del film): fedeltà assoluta nei confronti della nazione, speranza imperitura, dirittura morale e costruzione indefessa del proprio spirito. Enuncia insomma i principi confuciani del gentiluomo al servizio dello stato. Viene chiamato una volta di più al cospetto dell'imperatore, che gli offre di diventare primo ministro della nuova dinastia. Con sguardo lucido e implacabile, Wen decina ancora l'offerta, proclamando che tutto ciò che può fare per la nazione è, ora, morire. Viene così condotto al supplizio mentre la telecamera carrella sui volti sconvolti degli astanti e declama le virtù di Wen Tianxiang.

Nonostante, dunque, le scene di battaglia siano nettamente inferiori come potenza visiva al resto del film, curatissimo, e il messaggio politico-ideologico sia più volte declamato, il film parla ancora oggi grazie alla cura dei dettagli, al carisma inalterato di Liu Qiong, e alle fessure di dubbio che si aprono e fanno respirare la pellicola: tanto il generale che passa, dopo anni di lotte inutile, al nemico, quanto il servitore che riconosce la sconfitta e cede le armi, non sono ritratti come collaborazionisti malvagi (come sovente accade in Cina popolare), ma mantengono una forte carica di umanità che instilla al film un dubbio, e rende, certo, più maestoso ancora l'eroe e più tragica la sua vicenda.