L'urna che venne dal cielo - Il voto è segreto

Premio Speciale per la Regia al Festival di Venezia nel 2001, Il voto è segreto, è una "favola surreale, una commedia dell'assurdo" (Payâmi) che, in una dimensione onirica e a tratti di sapore felliniano, invita a riflettere sulla democrazia e sul suo esercizio in una società islamica.

 

 

 

 

Titolo originale: Raye makhfi. Regia e sceneggiatura: Babak Payami. Fotografia: Farzad Jodat. Montaggio: Babak Karimi. Musica: Michael Galasso. Scenografia: Mandana Masoudi. Costumi: Faride Harajl. Interpreti: Nassim Abdi (la ragazza), Cyrus Abidi (il soldato), Yossef Habashi, Farrokh Shojaii, Gholdbahar Janghali, Sohreh Hashemi, Mohamadreza Hamedani, Amir Harati, Mohamad Nasini, Reza Naderi, Robert Varani, Mehdi Mahmoudi, Soraya Ghoshchi, Bahiyeh Davoudi, Karim Movahed, Ali Mobareghi, Marjan Mansouri, Ziba Teymourian, Mohsen Akbari, Moein Zomorrodi, Saghi Soleymani, Zohreh Moghaddam, Nasser Monem, Mahmoud Shotorbani, Safiyeh Salili e gli abitanti dell'isola di Kish. Produzione: Marco Müller, Babak Payami per Payam Films/Fabrica Cinema/Sharmshir/Rai Cinemafiction/Televisione Svizzera Italiana. Distribuzione: Istituto Luce. Durata: 105'. Origine: Iran/Italia/Svizzera/Canada, 2001.

Lungo una spiaggia deserta dell'isola sperduta di Kish, a venti miglia al largo della costa meridionale dell'Iran nel Golfo Persico (ma la località non ha una relazione diretta con la narrazione), è collocata un'insolita postazione militare formata da due soldati che alternano momenti di riposo, su una branda a castello posta all'aperto, ad altri di guardia appoggiati ad una panca affacciata su un orizzonte azzurro solcato di rado da qualche barca di pescatori. Le loro giornate sempre uguali vengono turbate da un'urna silenziosamente paracadutata in una mattina serena. Non avevano ricevuto alcun preavviso che ci sarebbero state le elezioni né si aspettavano di venire coinvolti nelle operazioni di voto. L'urna contiene disposizioni per favorire il lavoro di un pubblico funzionario responsabile del seggio mobile, che si rivela essere una giovane donna avvolta in larghi abiti scuri, ovviamente con la testa fasciata coperta da un chador nero, che sbarca impartendo vigorosamente degli ordini che disorientano il soldato, poco più che un ragazzo probabilmente suo coetaneo, il quale deve assecondarla anche se fatica a riconoscerne l'autorità.

Controvoglia la accompagna con il fucile e la jeep in varie località dell'interno dove con ostinazione lei è decisa a raccogliere i suffragi. Il suo impegno è tenace e tenta di far rispettare le regole a tutti, ma non sempre con successo. I molteplici incontri si rivelano ricchi di sorprese assurde, talvolta anche spiacevoli. I due, però, nel loro disordinato girovagare imparano a conoscersi. Quando la funzionaria, giunta al mattino dal mare, al tramonto verrà prelevata da un aereo per andarsene con la sua urna, il soldato riprenderà i suoi turni di guardia con nel cuore la calda memoria di quella giornata per lui straordinaria trascorsa non in solitudine, ma con una ragazza affascinante anche perché tanto lontana negli atteggiamenti e nei comportamenti dal modello di donna a cui è stato educato.

Anton Giulio Mancino recensendo, circa un anno fa, Il cerchio di Jafar Panahi (il Leone d'oro di Venezia 57) ha fatto il punto sulla cinematografia iraniana, [...] evidenziando che l'incanto che aveva suscitato un tempo sembra definitivamente svanito [...] anche se è in corso una svolta significativa che segna il superamento della fase in cui le dimensioni politiche venivano accuratamente celate in metafore difficili da decodificare.

Tra i titoli di questa svolta («Contenenti un'esplicita valenza polemica, sociale e culturale, avendo scelto, programmaticamente, argomenti, situazioni e storie che non possono più prestarsi a fraintendimenti») indicava il poco noto Dastan Hay-e Jazireh (Racconti di un'isola), un film in due episodi presentato nel 2000 alla Mostra di Venezia ma poco visto, firmato da Moshen Makhmalbaf, Dariush Mehrjui e Shahabodin Farokh Yar. Nell'episodio Prove di democrazia, un mediometraggio di finzione girato con la macchina a mano sulla sesta elezione del Parlamento iraniano caratterizzata dalla trionfale vittoria del presidente Kathami, si narrano alcuni curiosi incontri lungo la via che dal set di Kish ha portato i registi a Teheran; in uno di questi una ragazza col chador viene paracadutata nel mare agitato con un'urna elettorale tra le braccia per raccogliere le schede dei cineasti a bordo della piccola barca che li porta verso la costa. Makhmalbaf ha trasformato quella ragazza in un'allegoria della democrazia iraniana: «Per noi in oriente, la democrazia è come l'immagine di una ragazza con il chador che atterra dal cielo sul mare agitato portando un'urna elettorale» ha scritto per il catalogo di Venezia 57.

Il soggetto di Il voto è segreto ha trovato la sua ispirazione originaria, per affermazione dello stesso autore, da questo episodio con lo scopo «di rappresentare l'assurdità delle elezioni».

Il film di Payami, fra le opere che segnano questa svolta più esplicitamente politica, è interessante perché è il primo centrato su un tema politicamente fondamentale quale quello della democrazia e del suo esercizio in una società islamica, che molte speranze ha posto su questa forma di governo per costruire il proprio futuro, e perché al di là dei suoi toni espressivi da favola surreale e da commedia dell'assurdo propone una riflessione disincantata che acquista particolare significato dopo l'attentato dell'11 settembre, con la sua spinta a guardare con occhi più attenti anche a questo problema (lo sceneggiatore-regista ha negato, secondo il costume ricorrente dei cineasti iraniani preoccupati per la censura in patria, che il film abbia a che fare in qualche modo con la realtà del loro paese). Tra l'altro, quella iraniana è l'unica cinematografia di un paese islamico che lascia trasparire, tra simboli sfuggenti e estetismi ripetitivi, le difficoltà e le contraddizioni nel conciliare religione e politica, tradizione e modernizzazione, identità culturale e globalizzazione.

Sull'inserto domenicale del 21 ottobre scorso del «Sole-24 ore», Seyed Farian Sabhani, recensendo due volumi appena usciti (L'Islam. Fondamenti e dottrine di Sabrina Mervin, Bruno Mondadori, Milano, e Iran: L'illusion riformiste di M.R. Djalili, Presses de Sciences Po, Parigi), fornisce alcuni spunti utili per ragionare sulla pellicola di Payami, cercando di decifrare il suo percorso metaforico e di dare senso al suo "racconto da un'isola" [...]

Osserva Djalili che proprio in Iran a partire dal 1979 si afferma per la prima volta l'Islam politico e lo stato teocratico con effetti quali la diminuzione del prodotto interno lordo pro capite, l'aumento della disoccupazione, la fuga dei cervelli, la droga e l'aumento del tasso di suicidio. È emersa, soprattutto da parte dei giovani, intanto una resistenza sotterranea che si esprime nella trasgressione sistematica delle regole, «i figli della rivoluzione sono più avidi di cambiamen-to che di fondamentalismo». I giovani iraniani sarebbero «la prova dell'insuccesso della re-islamizzazione dall'alto della società iraniana». Perduto il fascino originario ed esaurite le fonti di legittimità, l'Islam politico non ha più il dinamismo di un tempo. In questo contesto il presidente riformatore Khatami è un uomo «animato da buoni propositi ma incapace di trasformarli in realtà... con Khatami gli iraniani hanno capito che nella Repubblica Islamica votare non serve, visto che elezioni sono precedute da una selezione di candidati da parte del regime».

Sabahi chiude il suo articolo citando le parole dell'hojatolleslam Moshen Kadivar, secondo il quale l'esperienza iraniana dimostra che la democrazia è incompatibile con una lettura fondamentalista dell'Islam. «In un sistema democratico l'ultima parola spetta infatti al popolo, mentre in teocrazia è privilegio dei religiosi. E forse alla base del ritardo dei musulmani vi è proprio questa incompatibilità».

Torniamo al film, surreale dalla prima all'ultima sequenza a significare l'assurdità di un universo composto da atomi sociali che faticano a comunicare fra loro, che trovano talvolta insensate le credenze e i comportamenti degli altri e che non comprendono uno stato so-stanzialmente assente, che ciclicamente si presenta con trovate bizzarre e inutili (memorabile, al riguardo, la sequenza del semaforo rosso collocato in mezzo ad un territorio piatto e disabitato, una presenza pubblica di regolazione di qualcosa che non esiste). Insieme al semaforo lo stato è rappresentato dai due soldati che fanno la guardia all'orizzonte (non si sa da quanto e per quanto tempo). Il più giovane, pur di evitare di accompagnare la funzionaria del seggio mobile (aspettava un uomo e intimamente è convinto, come gran parte della gente dell'isola che incontrerà, che l'autorità è maschile), farfuglia di possibili sbarchi di criminali e che non può abbandonare il suo posto.

La democrazia, fin dalla prima sequenza con l'urna paracadutata senza preavvisi, viene imposta dall'alto, da qualcuno che sta lontano. Ma non è una forma di governo che permea i rapporti quotidiani dei cittadini. La democrazia di un giorno per dei cittadini per un giorno. Gran parte dei potenziali elettori non vuole saperne di votare e le motivazioni dei singoli sono più che comprensibili. Perché votare per dei candidati che non si conoscono, che sono imposti e non si sono nemmeno presentati agli elettori dichiarando gli obiettivi del proprio impegno? Perché esprimere qualche fiducia per chi non rispetta la tua etnia e la tua lingua e per chi si comporta come fosse una divinità (e così c'è chi si dice disposto a dare il proprio suffragio solo a Dio, l'unico che veramente lo meriti)? Perché perdere tempo quando si è consapevoli che i propri giorni futuri saranno uguali a quelli passati e che tutto è vano sia per chi vuole che per chi teme il cambiamento?

La giovane funzionaria, come una novella pasionaria, scortata dal giovane soldato sempre più perplesso, con coraggio e non senza petulanza va a caccia dei possibili elettori, li incita, spiega, tenta di vincerne la diffidenza, loda la democrazia ed esprime con entusiasmo la propria fiducia riformistica nel futuro, convinta che «passo dopo passo» si raggiungerà la meta e che «non si può realizzare tutto subito». Giunge persino a sollevare un masso per cercare delle schede di voto. Ma alla fine della giornata i suoi sforzi si dimostrano deludenti nei risultati. Quando invita il giovane soldato a votare, lui le confessa che lei sarebbe la sua candidata ideale, ora che la conosce e che ha potuto apprezzarne le qualità (ma la ragazza, ovviamente, non è in lista). L'immenso aeroplano che la raccoglie e la porta in cielo con la sua urna (è una sequenza di sapore felliniano) rafforza l'idea dell'inutilità di quanto è accaduto.

Payami (che vive in Canada dalla metà degli anni '80 e confessa di avere uno sguardo più distaccato di chi ha continuato a vivere in patria) ha realizzato sotto il profilo politico un film feroce, il cui pessimismo è solo parzialmente attenuato dagli umori favolistici paradossali della narrazione e dalle situazioni buffe (che non sempre funzionano e che con lo snodarsi del disordinato girovagare dei due protagonisti alla lunga risultano ripetitive e non sempre efficaci). Non si può intendere la democrazia come una sorta di concessione formale fattualmente vuota, con un potere che non si mette in discussione e con un popolo che non può partecipare: in questo senso in Iran la democrazia non esiste, è solo il fantasma di un futuro ancora lontano se non impossibile. Infatti, come può affermarsi la democrazia in una società economicamente e culturalmente arretrata e socialmente frantumata, nella quale lo stato non riesce a svolgere una funzione di aggregazione comunitaria e di regolazione dei processi che riguardano l'esistenza quotidiana? Lo Stato teocratico iraniano con i suoi contraddittori equilibri fra potere religioso e potere eletto è prigioniero di un immobilismo sospeso nel tempo (espressivamente accentuato da un cielo sempre terso, accecato dal sole che pare non mutare nell'arco della giornata, e dal girovagare senza condizionamenti di orologio dei due protagonisti). L'Iran come luogo lontano e indefinito, tenuto segregato e isolato, carico di contraddizioni e, per estensione, le società dell'Islam politico che nelle "guerre sante" cercano forse di rimuovere i propri conflitti interni e le proprie contraddizioni. [...] Un film che provoca interrogativi importanti e attuali per i quali non esistono facili risposte.

Primo esempio di collaborazione cinematografica tra Iran e Occidente, la produzione ha molti associati, da Fabrica di Benetton alla tv della Svizzera italiana, dal Montecinema-verità di Locarno al Fondo Hubert Bals di Rotterdam, da Raicinema a Celluloid Dreams. Il che fa supporre che l'autore abbia pensato più a un pubblico europeo che iraniano nel porre i suoi interrogativi e saremmo curiosi di sapere come si differenzierebbero le comprensio-ni e le reazioni fra i pubblici occidentali e quelli islamici. La scelta di puntare sulla commedia dagli spunti comici (cosa francamente inconsueta per il cinema iraniano, e ancor di più per quello seriosamente aggressivo e stilisticamente realistico della svolta della politica) può essere interpretata in molti modi. Non ultimo come tentativo di rivitalizzazione di una concezione del cinema che rifiuta i moduli narrativi che esaltano l'azione e i colpi di scena, che pratica la noncuranza nella recitazione (gli interpreti sono degli attori casuali) e una certa ricercatezza noiosamente rituale nella messa in scena. Quella concezione tanto ammirata in passato che molti oggi considerano una maniera sciatta e gratuitamente estetizzante, che ha consumato ogni originalità espressiva ed efficacia narrativa. Payami ha cercato di contraddire questi detrattori in buona parte riuscendovi. Almeno per una volta, con Il voto è segreto.

Gianluigi Bozza