YI YI -A one and a two

Yi Yi ha una doppia bellezza,esteriore e interiore, che si traduce in una doppia lezione, di cinema e di vita. C'è la costruzione pittorica dell'immagine, e una regia limpida, espressiva.

«Da quando esiste il cinema si vive tre volte di più». Col rischio di moltiplicare malinconie e solitudini. Ma anche con la possibilità di vivere le emozioni limpide e abitare le immagini folgoranti di un film come questo. Edward Yang ha creato uno di quei mondi-cinema in cui perdersi è inevitabile (oltre che "giusto", bello e necessario). Ci si entra in punta di piedi, durante una festa di nozze, e per un po' ci si orienta a fatica (anche perché l'ago della bussola sentimentale non ha un Nord verso cui puntare). Ma ad ogni svolta c'è un pezzo di vita in più, un'indicazione di senso, anche solo il presagio di qualcosa che potrebbe accadere, e il film si arricchisce di un crescendo che non ha nessuna fretta di "arrivare". È così che, a poco a poco, si finisce per essere completamente assorbiti in questo universo "semplice" (quella semplicità di cui è fatta ogni nostra complessità), costruito con l'arte meticolosa e l'attenzione sottile di un esteta del bonsai (il regista taiwanese non ha la presunzione del grande affresco metaforico che tutto sa e tutto comprende, ma ha la sensibilità del particolare, della piccola evidenza). E le temute tre ore di cinema all'orientale scorrono "facili" e intense, prendendosi il rischio di indagare il nostro perplesso presente e facendone il motivo di un'epica del quotidiano con ambizioni esistenziali («Cosa sto cercando?», «Di cosa abbiamo paura?» «Cosa faccio ogni giorno?») e spunti sociali.

Siamo a Taiwan, tra i protagonisti di quella società piccolo borghese che si guadagna da vivere con la new economy d'assalto, o almeno ci prova. Ma questo è soltanto lo sfondo, il palcoscenico obbligato, che orienta e produce una realtà fatta di singoli egoismi e solitudini. La sostanza invece ha a che vedere con l'abc di ogni esistenza, con cose come il desiderio,la nostalgia del passato, la scoperta dell'amore, la colpa, la morte, la paura di invecchiare, l'amicizia, il dovere... Nj è un uomo di mezza età, uno come tanti, che all'improvviso comincia a domandarsi se la sua vita avrebbe potuto prendere un'altra direzione. E come spesso accade in questi casi, la risposta gli si materializza davanti, nel volto di una donna che non incontrava da anni, un amore abbandonato nel passato.

Ma i suoi dubbi, la sua paura di perdere tutto, sono solo un elemento del puzzle che Edward Yang costruisce attraversando tutte le età della vita, magari anche solo per scoprire che in fondo non importa avere 10, 40, o 70 anni, perché tutti ci chiediamo, a modo nostro, se forse non meritiamo di più (un'altra vita, un'altra possibilità). E la moglie di Nj, Min-Min, che si è resa conto di quanto siano vuote le sue giornate, dovrà rifugiarsi nel monastero di un santone per scoprire che non conta quale vita stai vivendo ma in che modo la vivi (anche là le giornate scorrevano tutte uguali, ma i ruoli erano invertiti, erano gli altri a preoccuparsi per lei di ogni cosa). Mentre il piccolo Yang-Yang fotografa la gente di spalle per aiutarli a scoprire «L'altra faccia della verità», quella che solitamente non possono vedere. Spetterà a lui riassumere nel finale le paure e le speranze di tutti, con una sincerità di cui è capace solo un'anima che non ha ancora imparato l'arte del compromesso.

Yi Yi (tradotto letteralmente sarebbe "uno uno") sta per il massimo della semplicità. Anche i nomi dei personaggi (spesso doppi) sono ridotti ai minimi termini. Ma se Yang ci suggerisce di tradurre «A one and a two», come un jazzista che dà il tempo prima di attaccare un pezzo, è interessante l'osservazione di Jean-Michel Frodon («Le Monde») secondo cui il titolo Yi Yi riflette una giustapposizione di storie individuali in cui «i legami (marito e moglie, genitori e fi-gli, fratelli e sorelle, amici, amanti, colleghi...) contano meno dell'isolamento definitivo a cui ciascuno sembra costretto». Solitudini messe di fronte a se stesse in monologhi recitati alla nonna in coma, occasione di sincerità dopo tanti mascheramenti o ennesima menzogna dietro cui nascondere la propria paura (magari per andare poi a rifugiarsi in un disperato tentativo di suicidio...). Yi Yi ha una doppia bellezza, esteriore e interiore, che si traduce in una doppia lezione, di cinema e di vita. C'è la costruzione pittorica dell'immagine, il gusto sopraffino (proprio dell'estremo Est d'autore) con cui è studiata la composizione interna ad ogni inquadratura. E una regia limpida, espressiva, che misura ogni movimento, che conosce i segreti della suspense (c'è anche la sorpresa shock di un delitto) e usa l'ellissi con grande naturalezza (Yang sa dosare tempi e silenzi con maggiore libertà di altri colleghi orientali: sa essere ostinato, straziando a lungo uno sguardo in primo piano fino a quando non ha più nulla da dire, ma sa anche schizzare via da un gesto che deve essere solo accennato).

Insieme a questa estrema cura formale però c'è anche la sensibilità psicologica e l'intensità emotiva di una messinscena che non lascia mai indifferenti, che sa come pedinare un sentimento senza sporcarlo con le parole e organizza la scena in modo che ogni immagine abbia un suo "tono" speciale.

La forza di Yi Yi sta proprio nell'incastro perfetto di questi due elementi, nella sua "verità". Sta nel modo in cui tutto risulta teneramente malinconico, anche quando diventa tragico o comico (un pessimismo ottimista che lascia di buon umore). E sta nella speciale "utopia" di una vita accettata nella sua incorreggibile imperfezione. Yang dissemina il film di specchi, volti riflessi, trasparenze. C'è un uomo che riprende in video il suo bebè attraverso un vetro e finisce per registrare se stesso. C'è una donna riflessa in una finestra contro le luci di Tokyo, proiettata in una finta speranza. Ci sono due amanti che fingono di nascondersi dietro la vetrata di un bar. È tutto un gioco di illusioni, di esistenze vissute di riflesso, di vite sdoppiate, di paure e sogni trasparenti, di improvvise rivelazioni... La seconda, la terza e la quarta vita in più che il cinema ci consente di vivere.

Fabrizio Tassi