Il palloncino bianco

Il palloncino bianco è un film che non solo si interroga sul concetto di realismo, ma come molti altri film iraniani lavora sulla dimensione del desiderio e sui meccanismi della delusione e delle attese tradite, per trasmettere allo spettatore una sottile sensazione di solitudine.

IL PALLONCINO BIANCOdi Jafar Panahi

 

Regia: Jafar Panahi. Soggetto: da un'idea originale di Jafar Panahi e Parviz Shahbazi. Sceneggiatura: Abbas Kiarostami. Fotografia: Farzad Jowdat. Montaggio: Jafar Panahi. Scenografia: Jafar Panahi. Suono: Majtaba Mortazavi, Said Ahmadi. Interpreti: Aida Mohammadkhani (Razieh), Moshen Kalifi (Ali), Fereshteh Sadr Orfani (la madre), Anna Bourkowska (la vecchia signora), Mohammad Shahani (il soldato), Mohammad Bahktiari (il sarto). Direttore di produzione: Kurosh Mazkouri. Produttore delegato: Ferdos Films. Produzione: Irib. Distribuzione: Mikado. Durata: 85'. Origine: Iran, 1995.

 

È il 21 marzo, primo giorno di primavera. Come in ogni casa iraniana, anche la famiglia della piccola Razieh è presa dai preparativi per festeggiare l'inizio del Nuovo Anno. La bimba, che è uscita con la mamma, è tutta presa invece da un'unica preoccupazione: ottenere dalla madre il denaro necessario per comprare un pesciolino rosso delle feste che ha visto in un negozio. Riesce a distrarla per un attimo solo lo spettacolo degli incantatori di serpenti, ma la madre le impedisce di fermarsi: «Non è bene che tu veda!» le dice. A casa, il padre fa la doccia e si lamenta in continuazione. Ali, il fratello maggiore di Razieh, mentre aiuta la madre ad occuparsi del padre subisce le lamentele della sorellina, che lo implora di convincere la mam­ma ad acquistarle il pesciolino rosso. Alla fine Razieh. ha la meglio: avuto il denaro, corre al negozio. Per strada, però, si lascia attrarre dagli incantatori di serpenti, che con uno stratagemma si fanno consegnare i soldi. La piccola protesta e alla fine l'anziano incantatore, divertito, le restituisce il denaro. Ora Razieh corre al negozio, ma scopre che il pesciolino tanto desiderato costa più di quanto credesse. Ad ogni modo riesce a convincere il negoziante a venderglielo. Tornando a casa, però, la piccola fa cadere la banconota nella botola di un negozio chiuso. Disperata, Razieh cerca di recuperarla in tutti i modi, ma è inutile. A nulla serve l'intervento di una anziana signora, che intercede presso il vicino sarto: questi non può che prometterle di avvertire il proprietario del negozio al suo rientro in città. Sopraggiunge Ali, che s'ingegna inutilmente per recuperare da sé il denaro, utilizzando un bastone. Fallito il tentativo, non gli resta che andare a casa del proprietario per chiedergli di aprire il negozio. Mentre Ali corre, Razieh resta di guardia. Un soldato che ha assistito alla scena le si avvicina per fare amicizia: Razieh dapprima è diffidente, come la mamma le ha insegnato a fare con gli sconosciuti, ma poi entra in confidenza. Anche il tentativo di Ali s'è intanto rivelato inutile, ma quando i due bambini, sconsolati, stanno per arrendersi, un ragazzo afgano che vende palloncini si offre di aiutarli: acquista della gomma da masticare e, attaccandola alla canna dei suoi palloncini, recupera la banconota. Ali e Razieh prendono i soldi e corrono verso casa. La festa li attende, mentre il ragazzo afgano resta tutto solo con i suoi palloncini...

Come in tutto il cinema iraniano attuale che ci è dato di vedere, anche in un film come Il palloncino bianco la questione del "realismo" non è poi così semplice e diretta. Nel senso che un re­gista come Jafar Panahi aderisce di sicuro alla perplessità sull'argomento espressa da Abbas Kiarostami in un'in­tervista del 1990, quando, alle sollecitazioni dell'intervistatore sul realismo di un film come Dov'è la casa del mio amico, rispondeva: «A volte non capisco cosa si intenda con la parola realismo, o espressioni simili. Francamente non credo si possa dare nessun credito alla realtà in sé e per sé». E in effetti c'è da fermarsi un attimo a riflettere sull'argomento, perché poi bisogna fare i conti con le differenze prospettiche, con le sovrastrutture culturali e anche con la realtà di quella realtà che si presume di ritrovare sullo schermo. Nel senso che, evidentemente, il concetto stesso di realismo nella cultura iraniana si muove su coordinate differenti dalle nostre, non potendo che spaziare nel perimetro tracciato dall'islamismo sull'ampiezza di campo di un'arte intesa come ontologicamente antinaturalistica, ritenuta impotente a ricreare con qualunque mezzo la realtà e dunque estranea a qualsiasi suggerimento realistico.

Quale realismo?
È d'altro canto vero che il cinema iraniano più recente ci ha mostrato opere in cui lo sguardo veicola un tasso elevato di aderenza al reale,sia esso inteso dal punto di vista umano che sociale, ma lo fa lasciandolo pur sempre slittare sul piano inclinato di un'espressione che non aspira ad un approccio propriamente realistico. L'esempio immediato che viene in mente è un film bellissimo e purtroppo invisibile sul nostro mercato dal titolo Det, Yani Dokhtar ("Det, si­gnifica ragazza", 1994) di Abolfazl Jalili, passato nella solita distrazione all'ultima Mostra veneziana eppure opera di straordinaria complessità espressiva: anche questo un "film per ragazzi" (il pellegrinare del giovane protagonista di medico in medico per guarire la sorellina caduta in una orma di autismo), dove, appunto, l'espressività tendenzialmente soggettiva e coscienziale messa in gioco dall'autore viene significativamente dilatata sino ad aderire sensibilmente alla realtà della scena metropolitana su cui i personaggi si muovono silenziosamente.

Ecco, se quello di Jalili (che pure è un artista complesso e controverso sulla scena iraniana) è un cinema polifonico per così dire, che si pone sulla strada tracciata nella produzione iraniana da un autore straordinario come Amir Naderi, quello di Panahi (che del resto è un esordiente) è un cinema più immediatamente affabulatorio, che ha la sua chiara e dichiarata matrice nell'opera di Abbas Kiarostami: in entrambi i casi la realtà appartiene di diritto all'orizzonte espressivo delle opere, ma bisogna pur riconoscere che ciò accade non certo per un presunto approccio "realista" alla materia, bensì per una dilatazione osservativa dello sguardo e per effetto della collocazione sociale stessa dei "set". Il che, d'altro canto, risponde ad una chiara istanza ideologica del cinema irania­no, programmaticamente proiettato verso quadri umani e sociali popolari, sia pure con una persistente opzione edificante.

Un film realista?
Tornando al film di Jafar Panahi, è del resto evidente che, anche al di là di questi presupposti, nella sostanza Il palloncino bianco piuttosto che di "realtà" vive di "affabulazione" e che la sua dinamica sottende più un vettore metaforico-rappresentativo che un vettore mimetico-osservativo. E anche vero che la sua struttura è chiaramente antinarrativa, nel senso che si regge su un'impalcatura situazionale e che l'accadere è legato a una meccanica evidentemente poco "drammaturgica"; ma poi si resta innegabilmente impigliati nelle maglie di un racconto che sa tenere il ritmo.

Nella materia di una affabulazione antinarrativa come quella messa in atto da Jafar Panahi, rientra in effetti quella straordinaria capacità di orchestrare l'accadere più semplice e diretto che è tipica di chi si confronta con la dimensione quotidiana degli eventi, ma ciò che colpisce maggiormente in questa sua opera d'esordio è piuttosto la sottile e vibratile costituzione fabulosa dei livelli espressivi più intimi. Il film ha una sua mirabile semplicità strutturale, che è poi quella che gli discende da Kiarostami, nume tutelare di un'opera realizzata grazie alla sua intercessione e da lui stesso sceneggiata (anzi dettata viaggiando in auto, come ha rivelato il regista...) sulla base di un soggetto di Panahi stesso. Dello stile-Kiarostami in effetti, Il palloncino bianco detiene l'immediatezza umana, la trasparenza di un confronto alla pari tra lo sfondo e le figure, che poi si riversa anche nella diafana riflessione tra l'architettura del racconto e i suoi personaggi, l'uno agli altri aderenti per una consequenzialità strutturale sempre intrigante e prolifica – ci riferiamo all'evidenza tutta formale e funzionale che i protagonisti assumono pur senza perdere d'umana immediatezza, risaltando quasi come funzioni di una struttura narrativa che le ha pensate e messe al mondo.

Alla verità dei personaggi e delle situazioni di questo film, all'immediatezza del suo impianto narrativo si assomma dunque sul piano espressivo una quasi impercettibile proliferazione affabulatoria, che trova nelle disavventure della piccola protagonista un suo semplicissimo incanto. Resta insomma sempre forte, quasi tangibile, l'impressione di trovarsi di fronte ad un racconto, la cui meccanica rappresentativa scivola su quella strada-set e sui corpi-personaggi chiamati ad interagirvi. C'è, in tutto questo, un qualcosa di proliferante, un surplus di senso, che probabilmente passa per gli occhi della piccola Razieh, attraverso il suo rapportarsi desiderante alla realtà, ma che più concretamente ci sembra che passi per la dinamica totalmente scenica della regia imbastita da Panahi, immobilizzata sul luogo unico dell'azione e costruita sulla continua irruzione in esso di eventi e personaggi. Quel marciapiede ha tutta l'evidenza "scenografica" di un sipario aperto su un palco senza quinte, in cui la scena si rivela come tale dichiarando ad un tempo la sua nuda realtà e la sua artefatta finzione: Panahi gioca su questo bordo della messa in scena e il risultato accarezza una dimensione rappresentativa in cui l'accadere si struttura naturalmente e semplicemente come Racconto.

Un film sui desideri
Il regista, del resto, pur mantenendo attiva la sua sensibilità, si guarda bene dall'aderire del tutto alla sua piccola protagonista, evita di affidarsi ad essa e mantiene le distanze per preservare un ambito di oggettività che gli consenta lo spazio di un intervento finale, come vedremo. Perché poi Il palloncino bianco è un film su un desiderio, nel senso che nasce e si costruisce sul progressivo desiderare di Razieh. Dinamica, questa, che, pur nell'ottica educativa della produzione per l'infanzia, ha verosimilmente una sua singolarità nel panorama iraniano, nel senso che presenta una vicenda in cui la piccola protagonista agisce spinta da un bisogno velleitario (vuole un pesciolino delle feste più grosso di quelli che ha in abbondanza nella propria vasca), da un desiderio che esula dall'ambito di quel comportamento moderato e saggio al quale, salvo eccezioni, siamo stati abituati dal cinema per ragazzi iraniano.

Ma interessa soprattutto che l'autore costruisca tutta una storia attorno a de­sideri che hanno l'effetto di allargare l'orizzonte della piccola Razieh. Perché poi Il palloncino bianco è un film che propone essenzialmente un percorso conoscitivo, è un racconto d'educazione alla vita in cui la bambina protagonista impara a conoscere gli altri. Panahi, infatti, segue Razieh lungo un cammino desiderante che si rivelerà anche un cammino illusorio e deprivativo: questa ragazzina di sette anni è in qualche ma­niera una piccola ribelle, perché non ac­cetta la volontà materna e lotta (sia pure con le lacrime, ma quale altro strumento di ribellione ha una bimba di sette anni?) per ottenere ciò che del tutto velleitariamente vuole.

La sua piccola rivolta, del resto, passa non solo per il desiderio del pesciolino rosso ma anche per la voglia di vedere lo spettacolo degli incantatori di serpenti. E in effetti il film è tutto costruito sull'incanto, sull'illusorio appagamento dei desideri della piccola protagonista, la quale è destinata a scoprire inesorabilmente il limite reale di ciò che cerca di ottenere: la delusione passa prima per il bonario tentativo di raggiro subìto ad opera dell'anziano incantatore di serpenti, il cui spettacolo Razieh s'è fermata a vedere nonostante la proibizione materna, e poi per la scoperta delle vere dimensioni di quel pesciolino che a lei era sembrato così grande ma che in realtà non è molto diverso per taglia dai suoi.

Eppure il film ha una sua dinamica tutta proiettata su questa struttura de­siderante così squisitamente infantile, in cui la lezione di realtà passa proprio per il sostanziale "egoismo" della piccola protagonista, tutta tesa esclusivamente all'ottenimento del suo obbiettivo. In questa tensione le sfugge proprio il rapporto con quel mondo nel quale i suoi desideri si collocano e dal quale è continuamente sfiorata, toccata, persino travolta, se è vero che la banconota le scappa di mano a causa dello spintone di un passante. Panahi costruisce un universo in cui i con­tatti umani passano attraverso gli egoi­smi che si toccano e qualche volta interagiscono senza però mai aprirsi davvero agli altri. E, in questo senso, la sequenza — bellissima — degli incantatori di serpenti sembra davvero voler dare il tono a tutto il film, perché descrive que­sta magica e illusoria seduzione, questo attirare con l'incanto il serpente, la bambina, tutti gli spettatori, questo continuo aprirsi e chiudersi, darsi e ritirarsi, con la trovata di mettere la bambina nella condizione di doversi fare coraggio ed allungare la mano verso il serpente per riprendere quella banconota che, non sa bene come e perché, ha dato all'incantatore o forse le è stata tolta... C'è qui tutto il confronto di questa piccolina con la realtà, un confronto fatto ovviamente di desiderio e paura, di fascino e illusione; che sarà poi un po' il confronto suo col venditore: un contrattare il suo desiderio, spingendo l'uomo a darle il pesciolino tanto bramato ad un prezzo inferiore.

Il venditore di palloncini
Nella sostanza, del resto, è questa una storia di desideri ribaltati in una continua richiesta d'aiuto. Perché poi la piccola Razieh si trova sempre nella condizione di dover chiedere soccorso, confrontandosi con un mondo che la ignora, preso dal suo frettoloso egoismo.

Paradossalmente accade che ad accorgersi di lei sia però solo chi di aiuto non può darne. Perché poi questo è anche un film sulla solitudine e sul bisogno di solidarietà: in questo senso sintomatica è la figura del soldato, cui è affidato uno dei momenti più belli della pellicola. Questo giovane, che si avvicina a Razieh col solo desiderio di parlarle, è l'unica richiesta di contatto senza contro-partita che attraversa l'arco della storia, è l'unico personaggio che si offre in ragione di una solitudine alla quale non c'è risposta. E infatti la bimba in principio lo guarda con diffidenza: non capisce, la piccola, cosa esattamente quell'uomo voglia da lei, perché nel suo universo desiderante ogni rapporto con la realtà passa per una richiesta concreta, costituisce un prendere dagli altri piuttosto che un dare.

In questo equilibrio di disattenzione e minimo egoismo, tenuto in bilico con la freschezza osservativa e la precisione caratteriale così tipica di questo cinema iraniano, l'ago della bilancia finisce dunque col coincidere con un personaggio che fa il suo ingresso sulla scena della strada solo nel finale, ma che significativamente finisce poi col dare il titolo al film. Il venditore di palloncini diviene infatti il termine di confronto sul quale si gioca la unica vera possibilità di un contatto umano per la piccola protagonista. Questo ragazzo è un profugo afgano, che è un po' come dire un extracomunitario per noi: su di lui Ali agisce con prepotenza, pretendendo che gli presti la canna dei suoi palloncini; eppure, fallito il primo tentativo, sarà proprio lui ad avere l'idea di usare della gomma da masticare per recuperare la banconota e addirittura ad andarla ad acquistare per aiutare Razieh e suo fratello. E una autentica occasione, questa, offerta dalla vita ai due bambini, una possibilità di entrare in contatto con chi è più solo di quanto, in quella circostanza, sono loro.

Ci si aspetterebbe che, recuperata la banconota con l'aiuto del ragazzo afgano, Razieh e suo fratello lo invitino a casa loro, dove sono attesi per il pranzo della festa. E invece Panahi tradisce questa aspettativa, che, in un'ottica meramente "educativa" come quella produttiva del film, sarebbe pure legittima. Anzi, non solo segna l'uscita di scena di Razieh e suo fratello con un gesto d'egoismo e indifferenza che fa quasi male (i due prendono i soldi e scappano verso casa senza neanche salutare il venditore di palloncini, non degnandolo della minima attenzione), ma anche sottoli­nea questo atto d'indifferenza con un fermofotogramma del ragazzo, colto mentre va via coi suoi palloncini, che ha l'effetto di bloccarci — freddarci, quasi — non tanto su quella solitudine (visto che il ragazzo non sembra poi ferito dal comportamento dei due bambini), quanto sulla nostra delusione per quell'occasione di entrare davvero in contatto umano col mondo che la piccola protagonista e suo fratello hanno sprecato.

Delusione che riecheggia, amplificandola, quella che, pensandoci bene, già ci aveva sfiorato al termine della sequenza del soldato, quando pure Panahi aveva sottilmente mandato disattesa la sensazione che quell'incontro potesse in qualche maniera pareggiare il conto della piccola protagonista col mondo. [...] Sicché, alla fine Il palloncino bianco è forse soprattutto un film sulla delusione, sulle attese tradite, sulle occasioni perse; un film che ci lascia soli come il ven­ditore di palloncini, traditi ma in realtà non feriti, semmai un po' stupiti per aver scoperto di sapere ciò che in fondo già sapevamo sulla vita e sul suo egoismo.

Massimo Causo