La forza delle cose vere

Scoperto l'anno scorso a Venezia con il dramma passionale The Isle, Kim Ki Deok ritorna alla Mostra con un film sulla storia del suo paese, Address Unknown.

LA FORZA DELLE COSE VEREintervista a Kim Ki-Deok, Venezia 2001

 

Such'wi in pulmyŏng (Address unknown)

Regia: Kim Ki-Deok. Sceneggiatura: Kim Ki-Deok. Fotografia: Suh Jong-Min. Scenografia: Kim Ki-Deok. Montaggio: Hahm Sung-Won. Musica: Park Ho-Joon. Interpreti: Yang Dong-Kun (Chang-Guk) Kim Young-Min (Jihum) Ban Min-Yung (Eunok) Cho Jae-Hyun (Dog-Eye) Pang Eun-Jin (la madre di Chang-Guk) Myung Kye-Nam (il padre di Jihum) Lee In-Ock (la madre di Eunok) Mitch Malum (James). Produttore: Kim Soo-Hee. Produzione: LJ 21 Film Co. Distribuzione: Tube Entertainment. Corea del Sud, 2001.

Scoperto l'anno scorso a Venezia con il dramma passionale The Isle, Kim Ki Deok ritorna alla Mostra con un film sulla storia del suo paese, Address Unknown, con alle spalle la realizzazione di un action movie, Real Fiction. Se The Isle aveva impressionato per la purezza delle geometrie visive, in cui s'innestava l'irruenza incontrollata della passione, Real Fiction (visto al marché di Cannes) ha sicuramente un esito più tradizionale. Tuttavia anche in questo caso la violenza come unica forma di comunicazione tra gli esseri emerge come tema principe nell'opera del regista coreano. Address Unknown sembra nascere dal connubio dei due. La natura di una Corea tutta da scoprire, in cui violenza e bellezza del paesaggio fanno tutt'uno - una caratteristica che aveva permesso un trattamento quasi geometrico in The Isle - si contamina con una struttura più articolata, per numero di personaggi (almeno tre sono quelli principali) e luoghi. Volendo fare i conti con gli ultimi cinquant'anni di storia del suo paese, Kim Ki Deok realizza un film, in cui il tono grottesco maschera a fatica la rabbia per una guerra civile che ancora si fa sentire. Se i personaggi dei suoi film sono carichi di passioni esuberanti, è forse perché essi nascondono il peso di una lacerazione interna. Il vero soggetto su cui Kim Ki Deok lavora è allora davvero la storia del suo paese: il suo essere metà di un'unità perduta. In The Isle e - ad un livello meno eccellente - in Real Fiction tutto era più semplice: lo scontro uomo-donna, buono-cattivo permetteva al regista di concentrarsi sulla messa in scena. Qui invece troppi sono i fili del lavoro: la divisione della famiglia, la relazione padri-figli, la genesi di una dominazione culturale e la conseguente perdita di un'identità nazionale... Address Unknown non è certamente il film più riuscito da un punto di vista artistico: tuttavia, proprio nei suoi difetti, in quell'esagerazione che è segno di una passione nell'impresa, nel voler abdicare ad una purezza stilistica per farsi simile ad una realtà resa sporca e marcia dagli avvenimenti, esso ci avvince. Se esiste un modo per trattare in fiction la storia, per portarla nelle strade senza snaturarla, Address Unknown fa di tutto per trovarlo.

Nei tuoi ultimi tre film, The Isle, Real Fiction e Address Unknown la violenza è un elemento ricorrente. Nello stesso tempo ognuno di questi potrebbe essere letto come una love story. Come riesci a combinare questa contraddizione?
La violenza presente nei miei film - sebbene questo possa sembrare assurdo – è sempre in relazione con una certa idea del sublime. Se poi si considera il tema dell'amore, io credo che esso abbia più affinità con l'infelicità che con l'appagamento. Al pari dell'amore, la violenza è una sorta d'energia, molto importante nella vita degli uomini. Nei miei film c'è sempre un motivo scatenante della violenza, che si pone come una risposta – a volte l'unica possibile – agli interrogativi e ai problemi che la vita ci pone, giorno dopo giorno. Non vorrei essere frainteso: quando dico che la violenza è una forma di energia fondamentale, non intendo giustificarla; cerco piuttosto di interpretarla e di vedere le manifestazioni ad essa connesse da un'altra prospettiva. Io vedo la violenza come una forma di linguaggio del corpo. Lo scontro esprime un dialogo tra due persone, in cui qualcuno può essere danneggiato, colpito o ferito, ma da cui scaturisce sempre qualcosa di nuovo. Avviene così nel corpo di ognuno di noi: ogni ferita lascia il posto ad una nuova pelle. Differente, ma non meno bella della precedente. La forma estrema di violenza – la violenza diffusa ed estesa ad un'intera nazione, la violenza che esclude lo scontro tra due corpi ed impedisce quindi questo dialogo fruttifero - è la guerra. È questo il vero soggetto «osceno» del mio film. Non a caso in Address Unknown la violenza più forte e, in un certo senso, difficilmente sopportabile è quella costituita dalla presenza dell'armata Usa. Per questo essa è trattata in maniera indiretta e punteggiata con molta ironia.

Questo tema ha anche una ragione autobiografica?
Sì, nel corso della mia vita sono spesso venuto a contatto con la violenza. A partire da quando ero piccolo, passando poi attraverso l'esperienza – comune a molti - del servizio militare - dove gli scontri con i compagni di corso o gli altri soldati erano frequentissimi - per arrivare alla repressione della polizia. In un primo momento ho creduto di essere una persona molto sfortunata. Poi sono venuto alla conclusione che la violenza è un'espressione connaturata alla nostra epoca e alla società. Avendola vista come una forma d'interazione tra le persone, ho iniziato a comprenderla. Nei miei film non uso la violenza per creare sensazione o scandalo. Non voglio che essa diventi uno spettacolo fine a se stesso e nemmeno che sia la metafora per parlare d'altro. In ogni sequenza dove compare della sopraffazione cerco di introdurre l'idea che attraverso il dolore qualcosa di nuovo può nascere.

In Address Unknown ogni personaggio, attraverso una risposta violenta, comunica con il prossimo. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, la sopraffazione non risponde tuttavia ad una manifestazione di potere, ma più spesso ad una richiesta di aiuto. Più i personaggi si sentono vuoti dentro, più esprimono un comportamento violento.
Sì, quello che dici è corretto. Nel film ci sono tre adolescenti, che ricoprono i ruoli principali. Ognuno dei tre impara, a poco a poco, cosa sia e come si eserciti la violenza. All'inizio sono solo vittime della violenza altrui. Poi ne diventano gli artefici. In questo senso si potrebbe dire che il film racconti un'iniziazione alla violenza. I tre ragazzi capiscono a loro spese che bisogna conoscerla ed esercitarla, per poter comunicare nel mondo in cui vivono. Capiscono che in ogni forma d'interazione è racchiuso un certo grado di violenza. La loro storia – forse tragica, forse solo umana – racconta anche questo.

Da questo film si comprende che la violenza appartiene alla storia della Corea, alle esperienze di occupazione subite in epoche più o meno recenti. Volevo sapere se ha uno sviluppo proprio anche nelle forme culturali tradizionali: dal folclore alla letteratura, dal teatro al cinema.
Quando si guarda all'immagine che tradizionalmente si attribuisce al nostro paese, si vede che la Corea è considerata come una nazione tranquilla, ordinata, dai costumi calmi e pacati. Il popolo coreano è conosciuto per il suo alto senso morale e per i suoi intellettuali, più che per i suoi guerrieri. Il cambiamento verso costumi più violenti è avvenuto con la colonizzazione giapponese, che ha apportato un altro tipo di moralità e un modo diverso di relazione con il prossimo. Oggi quell'insieme di valori, che tradizionalmente ci caratterizzavano, è andato perduto. Questa è anche una delle ragioni dello stato di confusione in cui viviamo; e questo era in parte ciò che volevo rappresentare. L'epoca confusa e violenta, che il film mette in scena, non è però solo il frutto di una visione storica, ma è anche un'immagine che traduce il tentativo, da parte di noi coreani, di tornare indietro a recuperare quel sentimento perso per strada.

Vorrei sapere qualcosa sulle location, che mi sembrano un elemento centrale nella concezione e nello sviluppo dei tuoi film. Il lago in The Isle e qui la terra desolata che circonda la città e il campo militare apportano elementi indispensabili alla storia e al suo trattamento. Che importanza ha la scelta dei luoghi nel processo di creazione?
Tanto il lago con le case galleggianti dei pescatori quanto la piccola città con la base militare alla sua periferia non sono solo il background dei miei film, ma ne rappresentano una parte centrale. La genesi di un mio film, infatti, non può prescindere dall'individuazione di uno o più luoghi in cui l'azione si svilupperà. Prima ancora di scrivere lo script, io ho bisogno di individuare le location. Solo dopo averle trovate, posso dedicarmi alla definizione dei personaggi, che rappresentano il secondo polo del mio cinema. Dalla combinazione tra personaggi e luoghi emergono i temi che il film tratterà. Da un punto di vista concreto le location sono il frutto di lunghi viaggi compiuti all'interno del mio paese. La scelta di un determinato luogo scatena la voglia di scrivere una storia, dove determinati personaggi metteranno in campo i loro sentimenti, intesi come azioni e reazioni reciproche.

In questo contesto quale importanza ha lo stile di ripresa? I tuoi due ultimi film, in modo particolare, sviluppano due stili estremamente diversi: Real Fiction è un action movie, girato con molte videocamere digitali, di una velocità impressionante se paragonata al respiro più calmo e alle riprese più classiche di Address Unknown...
Molti registi si focalizzano sulle tecniche di ripresa per sviluppare un soggetto. Io non faccio così, perché questa non è la mia preoccupazione principale. Il mio cinema è composto dai temi che voglio trattare (temi che si sviluppano nello script e che trovano la loro forma visiva nei personaggi e nel loro agire), dagli oggetti e dallo spazio che desidero riprendere. In Real Fiction né la macchina da presa né l'illuminazione erano così importanti: in quel caso mi sono concentrato sulle azioni dei personaggi, sui loro dialoghi e sul trattamento dello spazio. Real Fiction è – come dice il titolo - una storia vera. Con situazioni e personaggi verosimili. Nel cercare di raggiungere questo obiettivo, la preoccupazione per un particolare stile di ripresa o per un certo tipo di illuminazione rischia di essere un ostacolo. In Address Unknown la situazione è simile: sebbene sembri un film più impegnativo, anch'esso è stato realizzato con un budget molto contenuto. Non volevo un'opera ricca di tecniche e di soluzioni visive, che finiscono per allontanare lo spettatore dallo spirito del film. Io non ricerco la raffinatezza, ma la forza che proviene dalle cose schiette, rudi e dirette. In una parola, vere.

Per quanto riguarda la struttura dei tuoi film, mi pare che la claustrofobia sia un dato ricorrente. In Address Unknown essa si sviluppa secondo la forma della ripetizione: sebbene il film lavori su più luoghi, i personaggi tornano sempre negli stessi spazi a compiere le stesse azioni. Questo – oltre a dati scenici, come gli aerei che volano e i personaggi che con i piedi piantati al suolo li osservano – accentua la sensazione che nessuna via di fuga sia concessa...
Io lavoro su spazi molto limitati, che effettivamente producono la sensazione di claustrofobia. In questo film in particolare volevo che i miei personaggi fossero come animali in gabbia. D'altra parte questa è un'immagine che ho usato per rappresentare Chang-Guk, il personaggio che più di altri incarna il desiderio di ribellione e la rabbia dell'animale catturato. Ma anche gli altri due protagonisti (il giovane apprendista fotografo e la ragazza che ha la relazione con il soldato americano) mostrano la stessa tensione ad evadere lo spazio, senza poter mai trovare una vera via di fuga. In un certo senso l'immagine potrebbe essere estesa all'uomo in generale. C'è poi un altro livello in cui si può leggere la metafora: la Corea è letteralmente ingabbiata dalle numerose basi militari americane, che ne controllano l'intero territorio. Per quanto un coreano scappi o fugga, non riuscirà mai a trovare un luogo in cui non sentire il peso dell'occupazione militare esterna. Lo spazio intero della Corea è dominato, se non oppresso, dalla presenza americana. Per quanto riguarda invece la figura della ripetizione, è vero che fa parte del progetto del film: essa coinvolge la stessa idea in un'altra dimensione, quella temporale. In questo caso, la mia intenzione era quella di mostrare come poco cambiassero le situazioni a distanza di anni. È la storia stessa che si ripete, portando personaggi diversi a contatto con le medesime situazioni. In cinquant'anni di dominazione americana, sono pochi i cambiamenti sostanziali avvenuti.

La famiglia in Address Unknown è una delle istituzioni più colpite. I vari nuclei familiari sono tutti incompleti e divisi al loro interno tra giovani e vecchi. In questa visione è possibile leggere un'immagine della guerra civile che ha colpito la Corea?
Nel film, la generazione degli adulti ha sperimentato la Guerra di Corea: ci sono donne che vivono con militari americani (lo si vede nelle sequenze dal fotografo, oltre che dall'esperienza della madre di Chang-Guk), altre che sbarcano il lunario grazie alla pensione del marito morto, altre ancora che portano impressi sul loro corpo i segni della guerra. In questa situazione, i figli non hanno alcuna cognizione di ciò che la guerra può aver rappresentato per i loro genitori. Tutto ciò crea indubbiamente un gap molto forte tra le due generazioni. Ciò nondimeno io credo che essi siano influenzati dal destino patito dai loro genitori. Il loro stesso desiderio di ribellione spiega il peso che l'esperienza subìta dalla generazione precedente ha su di loro. Durante lo sviluppo del film ho voluto suggerire l'idea che, attraverso i dolori sopportati, i figli possano comprendere il significato e l'importanza delle cicatrici dei loro genitori. Nel gesto del giovane fotografo che, consegnandosi alla giustizia, restituisce la medaglia al genitore – che si era accusato al posto del figlio - vi è la precisa comprensione del significato e dell'importanza che la medaglia ha per il padre.

Per quale motivo nell'ultima parte del film, quando lo sviluppo della storia prevede i momenti più tragici, hai impiegato un tono così volutamente grottesco?
L'ironia e il grottesco fanno parte del sentimento con cui vediamo e interpretiamo il reale. Così sono le immagini dei cani: a seconda del modo in cui le impiego appaiono strazianti o ridicole. È vero però che alcune situazioni esasperano questa tendenza: in particolare il trattamento della morte si presta a questo sviluppo. Altre volte, però, è la realtà stessa ad essere grottesca. Se, ad esempio, prendiamo la morte di Chang-Guk, il cui corpo, dopo l'incidente in moto, rimane sepolto a metà nella terra, essa riproduce abbastanza fedelmente la fine che ha fatto un mio amico. L'idea con cui ci rappresentiamo la morte è spesso convenzionale, ma non altrettanto vera. Questa fine così particolare bene rappresenta l'ironia che lega vita e morte: l'energia che il giovane aveva mostrato in vita si è ora rovesciata, fino a portarlo a questa morte grottesca. La sua fine poi mi è sembrata una buona metafora per riassumere ciò che il personaggio è stato in vita. Chang-Guk, in quanto mezzo sangue, sentiva con dolore la sua parziale appartenenza a quella terra. Solo una parte di lui viveva in Corea. L'altra era lontano, nella terra del padre. La fine grottesca di Chang-Guk non permette però di riderci sopra: questo mélange di tragedia e comicità è qualcosa che ho cercato, perché ritengo sia uno degli aspetti della nostra vita che la morte mette in evidenza.

Perché hai scelto di ambientare la vicenda in autunno?
L'autunno in Corea è una stagione fantastica. È il momento in cui la natura rivela tutte le sue potenzialità. Dopo i furori dell'estate, terminato il raccolto, l'autunno è il momento del riposo. La stagione adatta a raccogliersi, pensando al passato. È un momento dell'anno molto carico di emozioni. Scegliendo una stagione in cui la natura è bella, ho voluto anche enfatizzare le cicatrici che ancora segnano il nostro paese. La base militare – accampata nel mezzo della pianura, con i suoi soldati che attraversano i campi autunnali – è il segno tangibile di questo feroce contrappunto che anima la Corea.

a cura di Carlo Chatrian