Pak'a Sat'ang - Peppermint Candy

Peppermint Candy è un viaggio all'indietro nel tempo. Però, curiosamente, non è banalmente un film sulla memoria, né un lamento generazionale...

PEPPERMINT CANDY di Lee Chang-Dong

 

 

Regia: Lee Chang-dong. Sceneggiatura: Lee Chang-dong. Fotografia: Kim Hyung-koo. Scenografia: Park Il-hyun. Montaggio: Kim Hyun. Musica: Lee Jae-jin. Interpreti: Sol Kyung-gu, Moon So-ri, Kim Yeo-jin. Produttore: Myling Kaynam. Produzione: East Film Productions. Distribuzione: Shindo Film. Corea del Sud, 1999, 35 mm, colore, 129'.

La cosa più bella di Peppermint Candy è che il primo ralenti riesce ad imbrogliarti. Devi tener d'occhio dei fiori che cadono da un albero – o meglio, che da terra risalgono sull'albero – per capire che è montato alla rovescia. Queste inquadrature rallentate, e a ritroso, sono la chiave narrativa e stilistica del film. Ne scandiscono la struttura e ne spiegano l'ideologia. Peppermint Candy è un viaggio all'indietro nel tempo. Però, curiosamente, non è banalmente un film sulla memoria, né un lamento generazionale (anche se sappiamo troppo poco del regista, Lee Chang-Dong, per negare qualsiasi implicazione autobiografica: che comunque, nel film, non si nota, e fa quindi parte del background, non del film in sé e per sé). Indubbiamente è un film sul tempo. Ma ha ragione Lee, nelle note di regia, a sottolineare che non si tratta né di un tempo astratto, né del tempo quotidiano. Pur nella sua rarefazione stilistica, Peppermint Candy ci parla del tempo della storia.

Si parte dal 1999 e, in 7 capitoli, si va indietro fino al 1979. Vent'anni di storia della Corea del Sud. È bellissimo averlo visto alcuni giorni prima dell'incontro fra le due Coree, che hanno di fatto avviato le "pratiche" per la riunificazione. Non tanto paradossalmente, Peppermint Candy è un monito tutt'altro che banale sui rischi che tale riunificazione comporta. E del resto la Germania dovrebbe insegnare.La Corea del Nord è stata, soprattutto nella sua ostinata e grottesca chiusura, forse la peggior degenerazione che l'idea di comunismo abbia conosciuto durante la sua avventura nel mondo reale; ma Lee Chang-Dong ci dice a chiare lettere che al Sud non si è certo costruito il paradiso. Tutt'altro. E le storie di questo purgatorio in terra si condensano tutte nel percorso politico ed esistenziale di Yongho, il protagonista. All'inizio, nel 1999, Yongho sale su un viadotto ferroviario e aspetta impavido il treno. Verrebbe subito da dargli ragione: piuttosto che partecipare al ridicolo picnic sul greto del fiume, organizzato dai suoi amici, chiunque sceglierebbe il suicidio, anche il più cruento e doloroso. Stiamo scherzando, ma è il film a darcene il "la". L'approccio di Lee è infatti dichiaratamente grottesco: c'è una feroce ironia nel "divertimento" perpetrato da questi poveri travet coreani. Ma dopo questo inizio tragicomico, ecco il primo, suddetto ralenti: come dicevamo, quell'albero che si riveste di fiori e di foglie è un segno del tempo che si riavvolge e, al tempo stesso, di una coscienza che tenta disperatamente di ricomporsi. È la coscienza di Yongho e, forse, della Corea tutta. Seguiamola.

Tre giorni prima del picnic, siamo ancora nel 1999, a due passi dalla fine del millennio. Yongho è un "nuovo povero": vive in una baracca ma si capisce che ha conosciuto tempi migliori. L'idea del treno non si è ancora affacciata e Yongho, per farla finita, vorrebbe usare una pistola. Ma il secondo marito della sua ex-moglie, Sunim, lo viene a cercare. Sunim giace moribonda in ospedale e ha chiesto di vedere Yongho, il quale si reca da lei con delle caramelle alla menta, le stesse che lei gli spediva – assieme alle lettere – quando lui era militare. In ospedale lo attende anche una macchina fotografica, che Sunim gli ha lasciato.

Il secondo passaggio nel tempo ci porta nel 1994, quando Yongho è un uomo d'affari di successo, sposato (non con Su-nim! Sua moglie si chiama Hongja). Ma in un ristorante, dove si è recato con l'amante, incontra un tizio che gli ricorda il suo passato. E questo tizio è visibilmente spaventato quando lo vede. Che cosa diavolo faceva, Yongho, prima di darsi agli affari?

Terzo passo all'indietro, quarto capitolo: 1987. Yongho è un poliziotto. Lo vediamo interrogare, e poi torturare, l'uomo del ristorante. Lo vediamo anche tornare al suo quartiere di origine, la zona popolare di Kunsan, e incontrare una giovane barista che gli ricorda Sunim.

Quinto capitolo: 1984. Yongho è appena entrato in polizia e il suo primo incarico è reprimere un'organizzazione sindacale. È sposato con Sunim, ma quando la porta a mangiare la tradisce spudoratamente con la padrona del ristorante,che è poi Hongja. Sunim tenta inutilmente di dargli una macchina fotografica che gli ha comprato come regalo.

Sesto capitolo: 1980. Yongho è militare. Riceve le caramelle alla menta che Sunim gli ha spedito. Lui e i suoi commilitoni vengono mandati al massacro di Kwangju. C'è la legge marziale. La Corea del Sud non è una democrazia. Settimo capitolo: 1979. Siamo di nuovo sul greto del fiume, dove tutto è iniziato. Gli stessi amici dell'inizio, compagni di lavoro, hanno organizzato un picnic. Yongho e Sunim si stanno innamorando e lui le dice che gli piacerebbe molto diventare un fotografo.

Aspirante uomo dei media, poliziotto, torturatore, uomo d'affari, homeless travolto dalla crisi economica della Tigre coreana. È fin troppo facile leggere, nella parabola di Yongho, il fallimento morale di un paese. Se Peppermint Candy ha un difetto (veniale), è la limpidezza, la facilità con cui lo si può decodificare. Però tale semplicità è avvolta in una forma narrativa che sa diventare profonda e complessa senza essere artefatta. È un equilibrio quasi miracoloso. Vi sembrerà strano (e nemmeno tanto, avendo letto la trama), ma vederlo ci ha fatto ripensare a un film italiano per altro notissimo nel mondo e quindi, forse, anche in Corea: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri.La struttura creata da Petri & Pirro era più lineare, ma il senso di giudizio morale era analogo; e la similitudine è, naturalmente, indirizzata dalla fase in cui Yongho è uno sbirro addetto alle torture. Sta di fatto che entrambi i film parlano di democrazie imperfette: perché tale era anche l'Italia degli anni '60 e '70, e d'altronde la ferita del terrorismo è rimarginata solo per le anime belle. Probabilmente Petri lavorava maggiormente su uno spirito polemico e sessantottino, l'atteggiamento di Lee è più meditativo. Non è un caso che sia un romanziere, prima che un cineasta.

Peppermint Candy è quindi un forte apologo storico, con un punto di vista preciso e privo di compromessi; ed è un'analisi fenomenologica, oseremmo dire "behaviorista", del comportamento di un personaggio in cui – come avremmo detto noi italiani una ventina d'anni fa – il privato e il politico coincidono totalmente. In questo senso ci potrebbe apparire un film ideologicamente "vecchio", ma è sempre meglio non trasferire le nostre categorie interpretative su culture così differenti dalla nostra. Il percorso a ritroso del tempo potrebbe portarci a definirlo l'esatto contrario di un bildungsroman: un romanzo di "deformazione" (della vita, dei sentimenti, della realtà che quella macchina fotografica non riuscirà mai a catturare) in cui è possibile leggere tutte le contraddizioni della modernità.

Alberto Crespi