L'immobile ritualità dell'esistere - Conversazione con Kawase Naomi, Taormina, 1997

Kawase Naomi e Moe no Suzaku (Suzaku, 1997), ovvero "creare finzione a partire da uno spazio reale", senza perdere il contatto con le cose vissute. "Faccio film su cose che sento vicine, che mi appartengono, su quella parte che manca nella mia vita". Naomi racconta il suo amore per un mondo che l'ha vista bambina, la realtà si tinge del colore del ricordo, l'intimità trabocca da ogni singola imagine, nel volto dei vecchi, nel fremito del bosco al passare del vento.

L'IMMOBILE RITUALITÀ DELL'ESISTEREConversazione con Kawase Naomi, Taormina 1997

 

 

Quello di Kawase Naomi è un cinema della discrezione, che chiede tempo, che dà alle inquadrature il tempo di esistere. Un cinema «fuori dal tempo» di «domani» o di «ieri», inscritto in immagini della tradizione ma contemporaneamente libero, moderno, dotato di un respiro universale. Perché la giovane regista di Nara, nel descrivere la sopravvivenza di una famiglia giapponese in un luogo di montagna - reso sempre più inospitale dalla mancanza di lavoro che produce irreversibile spopolamento - parla di sentimenti e disagi del cuore, di complicità e sofferenze, di desideri e sogni infranti, di assenze e vuoti con i quali i personaggi (sia chi parte, sia chi decide di restare) devono confrontarsi ad ogni istante delle loro esistenze.

Moe no Suzaku è un film dall'ambientazione particolare, e rara per il cinema giapponese contemporaneo, «arroccato» negli spazi di un villaggio di montagna che va sempre più spopolandosi. Un luogo documentario che diventa set ad alto grado di finzione.
Tre anni fa nessuno osava sponsorizzare il mio progetto. Così, da sola, ho iniziato le ricerche per individuare una zona dove non abitasse più nessuno, dove trovare una casa disabitata e affacciata sulle montagne - una casa significativa della tradizione giapponese - da trasformare in set cinematografico. Poi, un cameraman ha visto i miei lavori in 8mm e mi ha presentata al produttore di una tv satellite che produceva quattro film all'anno. Sono stata chiamata come quarta regista. Stavano cercando qualcuno che realizzasse proprio un soggetto su una famiglia di campagna. Ho lavorato fin da subito in questa direzione - creare finzione a partire da uno spazio del reale, senza trascurare quest'ultimo - perché volevo essere sempre vicina alla realtà, mantenere uno stretto contatto con le cose vissute, far sentire la naturalezza dei gesti e delle espressioni di chi si è trovato a convivere quotidianamente con quegli ambienti.

A questo proposito gli attori contribuiscono in maniera esemplare alla messa in scena del tuo progetto.
Tutte le fasi del film sono state pensate ed elaborate con loro, persone straordinarie che vivono in quei luoghi e che - a esclusione di Jun Kunimura, nel ruolo di Kozo Tahara, il padre della famiglia - non sono attori professionisti. Proprio per questo fatto determinante mi sono trovata nella condizione di dover riscrivere la sceneggiatura originale, per riuscire a riflettere meglio le personalità di ogni attore e attrice. Siamo diventati una grande famiglia che ha lavorato per lungo tempo in stretto contatto. Abbiamo rifatto il giardino, coltivato le piante, lavorato insieme il campo durante il tempo della preparazione. In questo modo, quando si trattava di girare, gli attori potevano esprimersi con naturalezza, conoscendo alla perfezione ogni cosa. La mia intenzione era di filmarli nella loro vita quotidiana, senza far sentire l'occhio della macchina da presa.

Torniamo alla ricostruzione del villaggio e alla presenza di alcuni elementi che ricorrono con ossessiva precisione nel testo. Fra questi, i tunnel, piccoli o grandi, si fanno da una parte segni della memoria e da un'altra brevi luoghi di confine - tra gli spazi, il tempo, la vita nel piccolo villaggio e quanto esiste al di là di esso - da attraversare, anche più volte, quotidianamente.
Nella zona dove ho girato Moe no Suzaku c'era un tunnel inutilizzato, costruito per metà e poi abbandonato, per una futura ferrovia mai terminata. Questo fatto mi ha incuriosita. Quando ho visto quel tunnel-buco nero, senza vita, ho pensato di realizzare un film che avesse come argomento la memoria. Il villaggio un tempo è stato popolato da montanari, la cui indipendenza è progressivamente sparita per via della mancanza di lavoro: i giovani sono sempre più andati verso Osaka o altre città, qualche anziano è rimasto, ma ormai i sopravvissuti sono pochissimi. Nella maggior parte dei casi si tratta di gente che è passata, che non c'è più, ma che ha lasciato qualche cosa. Questo buco nero è pregno di spiriti, dolori, emozioni. Volevo visualizzare i sentimenti di persone che non esistono più o che stanno scomparendo. Per questo sono andata alla ricerca di un luogo che non fosse più abitato. E mi sono trovata in sintonia con la natura, con quella casa e con quanto la circonda.

Il lavoro sulla memoria è accresciuto anche da una straordinaria presenza di volti, raccolti in una specie di inserto home movie per preservarli, attraverso il cinema, dalla fine, dalla sparizione.
In precedenza ho realizzato alcuni documentari per testimoniare, e fissare dei ricordi, per lasciare qualcosa di me. Ogni attimo che passa andiamo via, lasciamo dei ricordi importanti, si dimentica tutto. È stato a partire da questa necessità di preservare momenti della mia vita, ma anche di altre persone, che ho cominciato a girare film in 8mm, fin dai tempi della scuola di regia a Osaka. Per non dimenticare. E ho continuato anche con il mio primo lungometraggio. Così, finite le riprese di Moe no Suzaku, sono tornata sul set per filmare quello che mancava delle scene in 8mm - cioè la maggior parte, perché durante la lavorazione ne avevo girate solo alcune - e che costituiscono, appunto, quello che tu hai definito un home movie all'interno del film.

Hai detto di avere avuto un'esperienza di cinema documentario. Di cosa si tratta?
Sono nata a Nara - ho sempre vissuto lì e desidero rimanerci - in un posto molto particolare, dove abitavano gli dei, che dista seicento chilometri da Tokio. Mi sento vicina ai personaggi raccontati in Moe no Suzaku e alle situazioni e ai luoghi dove hanno vissuto. Questo film rappresenta una tappa ulteriore nel mio percorso intorno alla memoria. Embracing, cortometraggio documentario in 8mm, è del 1993. Io non ho conosciuto i miei genitori: così, immaginando mio padre, ho compiuto un viaggio alla ricerca della figura paterna che mi era venuta a mancare. Sono stata allevata da due persone anziane, che sono diventate, in particolare la nonna, protagoniste di un altro capitolo di ambientazione familiare, Katatsumori, del 1995.

Esiste quindi una profonda continuità di argomenti...
Faccio film su cose che sento vicine, che mi appartengono, su quella parte che manca della mia vita. E desidero proseguire in questo modo. Voglio sempre convivere con l'animo umano, insieme ad esso, e affrontarlo e scoprirlo ogni giorno. E con il cinema credo che questo sia possibile.

Il tuo è un cinema essenziale, che permette allo sguardo di osservare e di riposare, carico di mistero, di cose accennate, non dette.
Facendo documentari sono stata abituata a sottarre, a togliere. Quando si ricava una cosa dalla realtà essa viene già trasformata in finzione. Con Moe no Suzaku ho pensato di fare una finzione-non finzione, di far coesistere i due aspetti della ricerca. Ma sempre partendo dagli insegnamenti ricevuti. Sono stata vicina fin da piccola a persone anziane, che appartenevano a una vecchia generazione. I tempi riflessivi del mio cinema derivano da lì, dalla mia formazione a contatto con persone di altre età e da quel modo di vivere il tempo.

Da cosa deriva il titolo del film?
Suzaku è uno dei quattro grandi dei cinesi e controlla la zona sud dell'universo. Nishiyoshino è il luogo da sempre protetto da questo dio. Ho tentato, attraverso lo sguardo di questa divinità, di captare i rapporti fra i personaggi - il punto di vista della macchina da presa non appartiene nello specifico a nessuno dei personaggi - di descrivere le montagne e il vento che ha soffiato nel villaggio portando via l'anima della nonna da qualche parte nell'aria.

Non hai influenze filmiche? Autori con i quali sei artisticamente cresciuta?
No, non mi interessano le tendenze, né mi sono soffermata sul cinema prodotto in Giappone. Non ho fatto la regista perché sono stata influenzata da altri. Ma perché, toccando la pellicola 8mm, ho pensato di poter prendere parti di realtà e filmarle. Attraverso il rapporto, il contatto con la pellicola, poter realizzare qualcosa di personale.

a cura di Giuseppe Gariazzo