Il sentimento di chi guarda

In Corea, sino alla metà degli Anni Ottanta, non c'erano scuole di cinema, né esisteva un movimento politicamente orientato. Dalla metà di quel decennio sono state invece fondate molte scuole e molti studenti hanno iniziato a studiare cinema all'università. Io appartengo a questa generazione.

 IL SENTIMENTO DI CHI GUARDA

Conversazione con Lee Kwang-mo, Cannes 1998

 

Arumdaun shijŏl (Spring in my Hometown)

Regia e Sceneggiatura: Lee Kwang-mo. Fotografia: Park Hyun-chul. Scenografia: Kang Kim Hyung-Kyu. Montaggio: Ham Sung-Won. Musica: Won Il. Interpreti: Ahn Sung-Ki, Song Ok-Sook, Bae Yu-Chung. Produttore: Jeog Tae-Sung. Corea del Sud, 1998.

Dai film visti quest'anno a Cannes, e lo scorso anno alla Mostra di Pesaro, si ha l'impressione molto forte di una sorta di "nouvelle vague" coreana. Vorremmo sapere se esiste un movimento, o quanto meno un gruppo di giovani autori che si riconosce in una scuola, o se invece si tratta di una tendenza spontanea dei cineasti coreani di questa nuova generazione che, individualmente, si muovono in sintonia.
In Corea, sino alla metà degli Anni Ottanta, non c'erano scuole di cinema, né esisteva un movimento politicamente orientato. Dalla metà di quel decennio sono state invece fondate molte scuole e molti studenti hanno iniziato a studiare cinema all'università. Io appartengo a questa generazione, come pure Hong Sangsoo e Hur Jin-ho, i due cineasti presenti con me a Cannes, che sono più giovani di me. Effettivamente in Corea le nuove generazioni sono molto interessate al cinema, sia come pubblico sia come giovani che vi si dedicano. Secondo me, però, non si può dire che ci sia un vero e proprio movimento: piuttosto ci sono molti studenti che sono andati all'estero, per esempio negli Stati Uniti o in Europa, per studiare cinema; e, una volta tornati in Corea, hanno incominciato a lavorare come registi o in altri settori dell'industria cinematografica. In particolare i cineasti che iniziano a girare adesso hanno studiato molto e hanno cominciato facendo cortometraggi; mentre prima si diventava registi facendo gavetta, come assistenti e via dicendo. Anche per questo noi siamo un po' differenti dalla generazione precedente.

Ricordando quello che abbiamo scoperto a Pesaro nel 1992, il cinema coreano è segnato da una grande frattura a livello di memoria storica: dopo la separazione tra Nord e Sud molti dei film del vostro passato erano andati persi e a noi era parso di sentire in maniera molto forte questa mancanza di un legame, di un confronto con la memoria del vostro sguardo, o se preferite con la vostra storia anche cinematografica. L'impressione che abbiamo oggi è che questa nuova generazione di autori coreani cerchi un'identità per il proprio sguardo in una dimensione più asiatica. Per esempio, il suo film, Spring in my hometown, ci è parso molto vicino allo stile e alle tensioni del cinema taiwanese, quello di Hou Hsiao Hsien in particolare.
Il mio film si può avvicinare al cinema di Hou Hsiao Hsien per due motivi: da un lato - un po' come in Città dolente - si intrecciano elementi della storia privata dei personaggi e della Storia del Paese; dall'altro, sia lui che io cerchiamo un metodo per creare una realtà da raggiungere interiormente, piuttosto che in senso "neorealista"". A me sembra che in Città dolente Hou Hsiao Hsien abbia guardato la Storia da un punto di vista distante, ma trovo che allo stesso tempo mostri un'immagine della realtà molto vicina e dettagliata. Mentre facevo il montaggio del mio film, anch'io, rivedendo le mie immagini, ho trovato che esistono dei legami tra i due film, che si avvicinano molto. Allo stesso tempo so che c'è qualcosa di totalmente differente dal regista taiwanese: l'approccio è identico, ma Hou Hsiao Hsien dà rilievo ai dettagli, mentre io creo delle immagini lasciando poi che siate voi a entrare nel film per coglierne i particolari, piuttosto che mostrarli. È questa la differenza fondamentale tra noi due. Secondo me, infatti, ci sono tre modi di filmare: si può fare un film basato sulla storia, oppure sul carattere, che si fa tramite dei messaggi della personalità, oppure sull'immagine. Hou Hsiao Hsien gira nel secondo modo: crea dei caratteri e con i caratteri trasmette la storia. Ciò vuol dire che sono dei caratteri che vi comunicano le sue idee. Invece il mio film appartiene alla terza categoria, cioè crea delle immagini; e siete voi che dovete cogliere i caratteri. Amo molto Hou Hsiao Hsien (i suoi film mi hanno dato molto), ma personalmente credo che il mio film sia più vicino al cinema di Tarkovskij. Allo stesso tempo sono stato profondamente influenzato da T.S. Eliot e dalla sua teoria del "truly, objective, correlative", che mi ha insegnato che ogni autore deve creare le immagini attraverso le quali vuole esprimere le sue emozioni: non c'è soltanto il mondo, non c'è soltanto la ragione; ci sono delle immagini che l'autore scrive e che raggiungono lo spettatore come messaggio. Ho creato delle immagini che esprimono ciò che voglio dire e il pubblico entra nel mio film attraverso queste immagini: è questo che volevo ottenere. Per quanto riguarda poi la differenza tra la mia generazione e quella precedente, è chiaro che i cineasti precedenti hanno fatto dei film nel senso classico, narrativo, creando dei personaggi e delle situazioni secondo la storia che volevano raccontare. Ma a me non interessa seguire un percorso simile. Voglio invece creare delle immagini in cui inserire la mia storia, il mio messaggio, all'interno delle quali lo spettatore deve a sua volta cercare qualcosa. In Spring in my hometown volevo raccontare la generazione di mio padre, che ha vissuto la guerra. Ed è come se io guardassi quelle immagini. Non volevo raccontare quegli avvenimenti direttamente, come se io stesso avessi vissuto quel periodo: mi interessava piuttosto distanziare il mio punto di vista, come se guardassi degli album di fotografie di mio padre.

È significativo il suo uso delle didascalie, che sono sempre doppie, con una parte riferita alle vicende storiche coreane e l'altra che fa riferimento agli avvenimenti privati dei personaggi, alla loro storia personale. Ciò le consente di non appesantire lo sguardo con riferimenti storici diretti...
Esattamente. Non si tratta tanto di un'indicazione, quanto di un suggerimento. Così lo spettatore è più libero di entrare nella storia e darne la propria interpretazione.

Nel suo film, tra la storia personale e quella ufficiale c'è di mezzo sempre la figura del padre, che è quasi un trait d'union tra Storia e famiglia. È come se i figli fossero ad un tempo separati dalla Storia, ma anche uniti ad essa, proprio grazie alla figura paterna, che infatti, per quanto presente, resta sempre una figura piuttosto lontana. Sembra quasi che la distanza dei bambini dal padre e dalla Storia sia la distanza della sua generazione...
Il punto di partenza del film è la riflessione sulla realtà coreana. La nostra storia è veramente caotica, perché, dopo l'annessione al Giappone nel 1910, l'imperialismo giapponese ha distrutto la nostra tradizione e la nostra società; cosa che poi si è ripetuta anche quando, dopo la seconda guerra mondiale, ci siamo ritrovati sotto l'influenza degli americani. Noi ci troviamo dunque ad essere parte di una società che non riconosciamo, che non ci appartiene culturalmente. E questo era vero per la generazione di mio padre, come è vero per la mia generazione. E' come se di generazione in generazione ci trovassimo a vivere nella stessa storia, con gli stessi problemi. Il punto di partenza del film è questo e il mio tentativo è quello di capire perché oggi ci troviamo in questa condizione. Ho rivolto lo sguardo indietro per analizzare il nostro passato e comprendere la situazione contemporanea, anche perché la nostra storia è così complicata e così fraintesa che ci sono ancora parecchie cose da capire. E io non posso separarmi da tutto ciò.

Torniamo a quanto dicevamo prima sullo sguardo: in rapporto a certo altro cinema coreano più "classico", che riempie il quadro partendo dall'elemento melodrammatico, ci sembra che invece il suo film, pur mantenendo un certo strato di dramma o melodramma in alcuni momenti, tenda a sottrarre, a togliere visivamente. E questa ci pare una scelta precisa di "nouvelle vague": non diciamo la volontà di rompere col passato, ma almeno di rifare certe cose del passato andando allo stesso tempo in un'altra direzione di stile.
Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura c'erano molti elementi melodrammatici. Poi però ho tagliato molto, perché temevo che il mio film fosse classificato come un altro melodramma. Così ho cambiato direzione: non volevo che lo spettatore entrasse nel mio film senza pensare e poi ne uscisse. Piuttosto volevo fare un film che rendesse partecipi gli spettatori sul piano dell'interpretazione. In questo senso sì, volevo cambiare indirizzo ed evitare tutti gli elementi che riempissero l'immagine, lo schermo. Ero molto cosciente di questo problema.

Nel suo film c'è una notevole sensibilità nel filmare sia i luoghi sia i personaggi. Ci riferiamo in particolare a due sequenze, molto diverse tra loro: la prima, che colpisce maggiormente a livello di sguardo, è quella straordinaria con i panni neri stesi al vento, che offrono un gioco cromatico bellissimo, molto emozionante; la seconda, che invece parte dai sentimenti, dal cuore, è quella in cui il padre picchia sui polpacci il figlio e ne butta all'aria i quaderni, ma lo fa controvoglia, più per dovere che per crudeltà. Infatti, quando poi il bimbo va via, raccoglie i fogli sparsi per terra. Ecco, sono due modi molto diversi di filmare: l'uno nasce dal piacere della visione, l'altro da un'emozione. Eppure abbiamo trovato che nel suo film queste due maniere vanno insieme, si miscelano a vicenda...
È quello che volevo creare. Non volevo solamente delle belle immagini: mi interessava piuttosto che ogni immagine che ho scritto corrispondesse esattamente al sentimento di chi guarda il film. Può essere mio padre, posso essere io, potete essere voi… Mi interessava che le immagini costruissero delle scene, che non funzionassero solo per essere belle, ma che fossero soprattutto dettate da una questione di sguardo sulle cose. In ogni scena che ho girato ho cercato di creare delle immagini che corrispondessero sia ai sentimenti sia allo sguardo; perché ogni scena è anche qualcosa che dobbiamo sentire, o piuttosto che sentiamo ma non esprimiamo apertamente. La cosa più importante per me è dare uno sguardo che appartenga a qualcuno. Molti mi hanno detto che nel film c'è soprattutto lo sguardo del bambino. Per me invece non è esattamente così, perché vi sono parecchi sguardi. Per esempio c'è lo sguardo del bambino protagonista, ma anche quello di mio padre. Oppure ci sono io che guardo lo sguardo di mio padre... Così, se volete, grammaticalmente, questo film può essere "presente", ma anche "passato". Insomma, c'è una certa complessità dello sguardo e credo di aver creato un film nel quale il pubblico può percepire proprio questa complessità. Quando ho iniziato a girare mi chiedevo veramente come avrei potuto dotarmi di uno sguardo non semplicemente "di qualcuno" ma "di più persone", uno sguardo molto più complesso.

In effetti ci sembra che nel cinema di questa "nouvelle vague" coreana ci sia un lavoro sullo sguardo più preciso, soprattutto perché trasforma quella che era una coralità molto forte, per esempio quella del cinema di Im Kwon-taek, in una dimensione più intima, più raccolta, più personale. Il villaggio, per esempio, nel suo film è mostrato per nuclei ben distinti, - una serie di famiglie ben precise, ognuna con la sua determinata connotazione - laddove nel cinema coreano della generazione precedente il villaggio era una sorta di "coro", un insieme di persone che agiva nella sua globalità.
Mi sembra che la differenza tra Im Kwon-taek e me sia che Im Kwon-taek utilizza i luoghi in una maniera realistica, mentre io non voglio solo dare un tono di realtà. Il mio è piuttosto un realismo interiore, che appartiene a ogni personaggio. Così in ogni scena che ho girato nel villaggio c'è un punto di vista ben determinato, un legame molto preciso tra il sentimento del personaggio e il luogo in cui la scena è filmata. Molte cose che utilizzo mi servono per rendere un sentimento assolutamente necessario, legato al luogo e ai personaggi: è questa fondamentalmente la differenza tra me e Im Kwon-taek.

Visto che non conosciamo troppo quello che succede oggi nel cinema coreano, come si colloca il suo film nel contesto produttivo del suo Paese?
Possiamo dire che a livello produttivo il mio non è un film indipendente, perché un grande imprenditore ha investito nella produzione. Ma c'era un accordo tra me e il produttore, secondo il quale io avrei lavorato in maniera totalmente indipendente, senza alcun intervento da parte sua. Questo è stato chiarito subito ed è stato rispettato. Possiamo dire che ho lavorato da indipendente, anche se avevo un produttore. Ma era un'esperienza nuova e non so come catalogare il mio film... Di certo però non è un film commerciale.

A cura di Massimo Causo e Giuseppe Gariazzo
(con la collaborazione di Ancha Flubacher-Rhim)