Ziré Nouré mâh (alla luce della luna) – L'abito non fa il monaco

Una satira sul mondo dei religiosi, un tentativo di mostrare un'umanità che il clero finge di non vedere, una riflessione sul processo di laicizzazione in atto nell'Iran di Khâtami.

ZIRÉ NOURÉ MÂHSotto la luce della luna di Reza Mir-Karimi

 

Alla vigilia della sua ordinazione religiosa, un giovane di provincia scopre un'umanità derelitta che fa vacillare le certezze della sua educazione. Ziré Nouré Mâh, opera seconda di Mir-Karimi, è pudica ed elementare, come nella migliore tradizione del cinema iraniano, ma contrabbanda coraggio e generosità. È la prima volta che la cinematografia del Paese degli hayatollah squarcia il velo sul mondo dei religiosi.

Mir-Karimi ritrae la scuola coranica e la varia umanità che la popola. L'abito non fa il monaco, lo sapevamo, ma dirlo dall'interno della teocrazia sciita, è francamente un'altra cosa. Satira e humour si manifestano largamente e apertamente. Le tribolazioni del giovane provinciale Sayyed Hassan (il nome lo indica come discendente del profeta) offrono l'occasione per una vivace commedia di costume nella scuola dove si studia per diventare hoyatoleslam: seminaristi zelanti convivono con quelli tifosi di calcio, riviste e libri laici passano di mano in mano in alternativa al Corano, chiacchiere nelle celle bisticciano con preghiere notturne ad alta voce. Ma il regista va oltre: vuole affermare la sua fede nell'uomo, fino ad approdare a una visione spirituale. Bagnate da una luce acre e densa, le scene dove il seminarista scopre attonito che la religione occulta l'esistenza di un altro mondo, fatto da mendicanti ciechi, poeti alcolizzati, ragazzini ladri e prostitute, sono delicate e dene di verità. Riconoscibilissimi, in questa descrizione di un lumpen-proletariato che il film definisce genericamente come «il polo che vive sotto il ponte», i tributi a De Sica (da Sciuscià al Giudizio universale) e (ovviamente) a Kiarostami. Con, in più, un'opzione per la commedia difficilissima da gestire.

La farsa filosofica, giocata sulle corde profane del lecito e dell'illecito, un po' Nazarin un po' La via lattea, è alle porte. Purtroppo il film non arriva a varcarle. Anzi indietreggia, come pentito da tanta audacia. La fine si risolve non nell'apologia dell'impegno dei religiosi a favore degli umili, ma in quella del clero islamico, del suo apparato e delle sue pratiche, al di fuori delle quali ogni azione si rivelerebbe velleitaria. E così la libertà di interpretazione del fenomeno religioso e, allo stesso tempo, lo slancio emotivo del film, si disperdono. Pazienza: è solo un tributo alle censura iraniana (che peraltro non ha ancora ammesso il film nelle sale). L'opera che ci interessa è prima. Nel processo di laicizzazione in atto, marcato dalla riconferma di Khatami, il cinema iraniano può aprire spazi ancora preclusi. I talenti non mancano.

Giorgio Rinaldi