Gli insegnamenti del silenzio - Lavagne

Essenzialità, misura ed equilibrio per narrare la storia di due maestri, ostinati portatori di lavagne, tra le montagne del Kurdistan iraniano. Alternando le vicende dell'uno e dell'altro, le lavagne prendono vita per diventare barelle, scudi, fragili ripari contro i proiettili delle guardie di confine.

GLI INSEGNAMENTI DEL SILENZIOLavagne di Samira Makhmalbaf

 

Titolo originale: Takhte siah. Regia: Samira Makhmalbaf. Sceneggiatura: Mohsen Makhmalbaf, Samira Makhmalbaf. Fotografia: Ebrahim Ghafori. Montaggio: Mohsen Makhmalbaf. Musica: Mohamed Reza Darvishi. Interpreti: Bahman Ghobadi (Reeboir), Said Mohamadi (Said), Behnaz Jafari (Halaleh). Produzione: Mohsen Makhmalbaf, Marco Muller per Makhmalbaf Film House/Fabrica Cinema. Distribuzione: Istituto Luce. Durata: 85'. Origine: Iran/Italia, 2000.

Alcune persone sono in cammino per le strade polverose delle montagne del Kurdistan iraniano. Sono insegnanti, che, portandosi ognuno sulle spalle una lavagna, attraversano strade e villaggi dove non ci sono scuole, nella speranza di incontrare qualcuno che voglia essere loro allievo. Sentendo arrivare degli elicotteri si nascondono e, per mimetizzarsi meglio, coprono di terra le lavagne. A un certo punto si separano: il gruppo più consistente segue una strada, mentre Said e Reeboir vanno in un'altra direzione, prima insieme, poi a loro volta separandosi. Said incontra presto un vecchio contadino che, saputo che è maestro, gli chiede di leggere una lettera del figlio, probabilmente in carcere. Giunge poi al villaggio, ma nessuno vuole saperne niente. Successivamente incontra un gruppo di persone, perlopiù anziani, che sta tornando verso il paese di origine, che si trova dall'altra parte della frontiera. Si sono persi, ed egli si offre di fare loro da guida in cambio di 40 noci, le sole cose che possiedono. Reeboir incontra un gruppo di ragazzi che portano dei sacchi di merce di contrabbando sulle spalle. Si aggrega a loro, cercando di trovare un allievo tra i ragazzi. La storia dei due maestri procede con un montaggio che alterna le vicende dell'uno e dell'altro.

Said sposa, in una situazione totalmente straniata, una donna vedova con un bambino, che accetta con indifferenza il matrimonio che ha come pegno la lavagna. Di li a poco i soldati di frontiera sparano addosso al gruppo uccidendo un uomo. Scappano. Reeboir trova tra i ragazzi uno che vorrebbe imparare a leggere e scrivere. Si chiama Reeboir, come lui. "Reeboir – gli dice – significa quello che cammina sempre". In un momento di riposo le lezioni hanno inzio e proseguiranno durante il percorso, l'uno con in spalla la lavagna, l'altro il sacco di contrabbando. Ma le guardie avvistano i ragazzi ed essi devono scappare. Uno di loro si fa male cadendo. Un pezzo di lavagna verrà utilizzato per steccargli la gamba. Ancora i ragazzi, per fuggire le guardie, si nascondo in mezzo a un gregge. Sembra che ce l'abbiano fatta, ma all'appuntamento per la consegna della merce non si presenta nessuno. Mentre il maestro beve del latte appena munto da una bambina, Reeboir, l'allievo, scrive il proprio nome sulla lavagna e entusiasta lo dice al maestro, ma improvvisamente si sentono degli spari. Alcuni ragazzi cadono uccisi: tra loro c'e quello che porta il nome del maestro.

Said riesce infine a portare tutto il gruppo alla frontiera, ma lui dice di non potere oltrepassarla. Non potendo seguire la moglie, la lascia dunque libera, ma per il pegno promesso, dovrà lasciarle la lavagna.

[...] La maggiore qualità del film è a mio parere, la misura, la calibrazione non solo dei tempi, dei ritmi, quanto delle atmosfere, di una condizione umana portata al limite attraverso una omogeneità e ripetizioni di parole e immagini che si concentrano e si chiudono totalmente sul presente, sull'azione che si sta compiendo, sull'avvenimento che si sta vivendo. Il film si presenta in questo modo come un blocco compatto, un impasto denso e viscoso da cui non è dato uscire. I personaggi, tutti i personaggi, sono carichi di passato, di un vissuto duro e incancellabile. Hanno evidentemente vissuto situazione tragiche, eppure di questo non viene fatto cenno. Semmai si accenna, sia pure per tratti sottili, a eventi che hanno colpito una collettività. Il passato è cosa collettiva, mai singola e individuale. E infine uno di quei film che si assumono il rischio di sviluppare una storia in cui, senza dire le cose esplicitamente, queste risultano comunque presenti e condizionano l'azione e i personaggi. In tal modo, ciò che veniamo a sapere dei personaggi e quel tanto che basta affinché ciò che viene narrato e mostrato sia comprensibile, quel tanto che basta affinché il personaggio risulti perfettamente caratterizzato. Il superfluo è bandito: si mira all'essenzialità. Da qui muove l'impegno registico di questo giovane talento. Ciò che è assente ha più forza di ciò che si vede, di ciò che si dice. In un certo senso si può dire che il tipo di assenza che tuttavia per essere tale non può che essere percepita, si costruisce come l'equivalente narrativo del fuori campo visivo. Qualcosa che non si vede eppure circonda l'azione, magari fino a influire su di essa. Così la quotidianità, l'apparente neutralità della vicenda fa in realtà trasparire realtà ben più complesse. Allo stesso tempo, Lavagne è anche un film che non arretra di fronte al rischio della ripetizione delle frasi e dei percorsi, alla lentezza, nel dare conto di un cammino faticoso che deve essere continuamente deviato per evitare i pericoli costituiti per lo più dalle guardie di frontiera. Un film che si costruisce tassello su tassello, fotogramma su fotogramma, senza che un'immagine sia più bella di un'altra, cercando di fare sì che le sequenze si equivalgano (ma in questo caso l'intento non è pero completamente riuscito), legando tra loro le sequenze non semplicemente secondo raccordi tecnici, secondo metodologie che fanno parte dell'apprendimento del mestiere, ma secondo una precisa scelta stilistica. Che ci fanno questi maestri, ostinati portatori di lavagne, in un posto come questo, dove la vita è solo lotta per sopravvivere, dove non c'e nulla da mangiare e si deve sempre fuggire? Dove ogni atto e oppresso da una condizione disumana? Non ci si può aspettare una morale sull'educazione, e, pur facendo capolino, questa è comunque molto defilata; anche i maestri in fondo devono sopravvivere, e l'insegnamento ondeggia tra missione e necessità, tra un impegno che sembrerebbe nobilitare l'azione degli insegnanti e la necessità di svolgere un lavoro che possa dare di che vivere. In questi luoghi brulli e montagnosi, dove misura dell'esistenza sono la povertà e la fuga, questi maestri venuti non si sa da dove, ma forse nemmeno da troppo lontano, sono fuori luogo. Lo rivelano i tentativi per lo più infruttuosi di trovare allievi. Tentativi spesso grotteschi, come quando Said, nelle pause del viaggio, cerca invano di insegnare alla moglie a leggere e a scrivere. Una moglie che dura per il tempo del tragitto, indifferente al marito e a tutto ciò che la circonda, tranne che al figlio e in qualche modo anche al vecchio padre ammalato. Indifferente a tutto, capace di dare l'impressione di tornare a vivere solo nel momento in cui è necessario salvarsi e salvare i propri famigliari, quando le guardie di frontiera sparano, quando si sente il rumore degli aeroplani e torna l'incubo dei bombardamenti, il terrore di una guerra combattuta contro i civili, contro la gente, contro le case della gente, contro i loro villaggi. È così che i profughi, una volta ricondotti da Said al proprio villaggio, stenteranno a riconoscerlo. Villaggio fantasma, che lo spettatore non vedrà neppure, nascosto dalla nebbia che ingoia i profughi che tornano. Anche il ritorno è comunque senza speranza. I vecchi tornano al villaggio per morire dove sono nati, quei pochi che non sono anziani perché non sanno dove andare, perché non hanno alternative, e ormai non gli importa più di averle. Assieme a questi personaggi, ora con l'uno ora con l'altro, ora solitari o in gruppo, viaggiamo sempre in spazi aperti e apparentemente deserti. Spazi verticali, lungo sentieri sassosi che si inerpicano tra sole e nebbia, che si aprono a un cielo che improvvisamente illividisce inghiottendo anche la luce. Spazi comunque, sempre, claustrofobici, privi di orizzonte. La fuga, come la ricerca dell'antico villaggio natio, procede per linee curve. Quando si prova una scorciatoia troppo diritta, bisogna tornare indietro, bisogna lasciare la strada principale, abbandonarla, per poi ritornarvi, ma da un'altra parte. Non si finisce mai, non c'e inizio, non c'e fine. Alla fine del viaggio, poi, cosa rimane? Reeboir vede morire il suo unico allievo e anche gli altri bambini mentre cercano di scappare. Said torna indietro, mentre il gruppo di profughi rientra festante al proprio villaggio, invisibile, ma che possiamo immaginare, nient'altro che un ammasso di macerie. Entrambi hanno perduto le proprie lavagne: o sono inservibili, o sono servite per altri scopi; quella di Reeboir, per esempio, per steccare la gamba di uno dei bambini che si e ferito cadendo in un dirupo. Si capisce che i personaggi hanno più fame e sete di quanto lamentino. Non c'e lamento, se non per il dolore o la paura. Paura che si trasforma presto in terrore, perché il presente è nutrito da ciò che è gia vissuto e che nessuno dice. Quali parole, del resto, trovare, e perché? Perché poi questi uomini strani ma non estranei si ostinano a portare sulle spalle delle lavagne per scrivere parole, mentre anche dalle parole si fugge? Noi, qui in Occidente, possiamo anche dire che probabilmente questo silenzio, soprattutto relativo ai bombardamenti sui villaggi curdi, è stato adottato per evitare forme di censura, e questo potrebbe anche essere più che plausibile. Ma, se cadiamo in questo tranello, che altro non è se non un modo di razionalizzare la pratica espressiva del film, se ne svilisce in qualche modo anche la potenza, perché in realtà Lavagne è un film che parla, eccome! Lo fa attraverso le immagini e con scelte stilistiche non improvvisate, e, d'altro canto, tutt'altro che innovative. In primo luogo, una macchina da presa portata a spalla che segue sobbalzando i personaggi, si inerpica, scivola e fugge assieme a loro. Questo uso della macchina da presa può anche disturbare un occhio ormai abituato alle flessuosità e alla morbidezza della steady-cam, ma vuole condividere la fatica di percorsi incerti. In secondo luogo, i personaggi interpretati da non professionisti, tranne Behnaz Safari, cosa che contribuisce sempre a creare un'atmosfera particolare: quell'autenticità di volti, di gesti, che contribuisce profondamente a creare il tessuto delle storie, a garantirne la credibilità, e chiama tutti i vari aspetti che compongono il film, dalla sceneggiatura alla regia, ad adeguarvisi, ad aderirvi. Bisogna infine considerare che tutti gli aspetti pratici della realizzazione del film sono guidati da un'idea precisa di quello che si desidera ottenere. In questa giovane regista è già matura la consapevolezza del tipo di cinema che si intende fare e che viene, di fatto, realizzato, ed è questa la cosa che si è portati a plaudire di più. La rivendicazione di un tipo di cinema che non sia solo lasciato nelle mani di tecnici abili, ma che possa crescere e modellarsi anche con l'aiuto di artisti di vari ambiti, di poeti, di filosofi, di sociologi, secondo le sue stesse affermazioni. Un cinema che solleciti e che sia a sua volta sollecitato da intenti creativi, e non meramente tecnici. Per contro un cinema, di quello che noi chiamiamo terzo mondo, che sappia trovare al suo interno una ricchezza che si contrapponga al dominio della tecnologia che invade tutti gli spazi. Un cinema che non vada a porsi sullo stesso terreno delle cinematografie occidentali, ma che rivendichi e che dimostri identità e la propria ricchezza creativa.

Fabio Matteuzzi