"La memoria nasce dal senso della perdita, dal sentimento della mancanza".

HAPPY TOGETHER - CHEUN GWONG TSA SIT

 

Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Wong Kar-Wai. Fotografia: Christopher Doyle. Montaggio: William Chang Suk-Ping, Wong Ming-Lam. Scenografia: William Chang Suk-Ping. Suono: Leung Chi-Tat. Musica: Danny Chung. Interpreti: Leslie Cheung Kwok-Wing, Tony Leung Chiu-Wai, Chang Chen. Produzione: Wong Kar-Wai, Hiroko Shinohara, T.J. Chung, Christophe Tseng e Ching-Chao per Block 2 Pictures/Prenom H Co./Seowoo Film Co./Jet Tone prod. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Hong Kong, 1997. Durata: 97 minuti.

"La memoria nasce dal senso della perdita, dal sentimento della mancanza". Ciò che colpisce in queste parole di Wong Kar-Wai è la congiunzione tra la nascita e la perdita. In Happy Together la memoria di Lai Yu-fai (i frammenti della suo sogno d'amore perduto con Ho Po-wing), pur indotta dal vuoto della mancanza, si configura proprio come un'«avventura», nel senso etimologico dell'andare verso qualcosa che verrà, oltre quel «frame stop» che chiude il film e, appunto, lo dischiude. Wong abbandona l'immagine declinata al passato remoto (gli anni Sessanta di Days of Being Wild, l'oltre-tempo di Ashes of Time), così come le voci di un presente veloce e metamorfico, assediato da minacce di scadenza (Hong Kong Express, Angeli perduti): il tempo che sorveglia Happy Together sembra piuttosto l'imperfetto. Nell'imperfetto di Happy Together l'angoscia della fine e il desiderio di una ricollocazione nel dopo coabitano mirabilmente: le lacrime di Lai, registrate su nastro, sono ancora udibili nel mondo, ma la loro persistenza è ammorbidita dalla loro ricollocazione in un altro luogo, con un nuovo punto di ascolto, quello del nuovo amico Chan, che scioglie questo dolore nel vento della Patagonia. Ricollocazione/persistenza: proprio in virtù di questa prossimità/distanza così calda il passato segnala la possibilità di un nuovo arrivo. Non casualmente proprio la costruzione di un «desiderio del ritorno» da parte di Lai è l'unico movente narrativo del film: una fertile contraddizione per un racconto che nasce da un desiderio di partenza, e che poi vuole spostarsi a tutti i costi verso i confini estremi del mondo e dell'amore. L'imperfetto, come osserva Genette rileggendo Proust, è il tempo elettivo della ripetizione, e nel passato di Happy Together, in effetti, tutto si ripete: il montaggio sacrifica la progressione verticale del racconto al principio orizzontale dell'analogia. (...) La passione della coesistenza è già consumata prima dell'incipit. Il potenziale «kammerspiel» amoroso si dissolve nel cielo illimitato delle strade argentine. Happy Together, quindi, nasce sul vuoto, inizia dalla fine, per tradurre nella pienezza della scena questa mancanza, quest'agonia invocata e temuta dell'amore. La scena allora si distende, diventa più lenta: i corpi degli attori, gli oggetti che toccano, la musica che danzano, i paesaggi che attraversano, tutto sostanzia fisicamente il colore teso dell'assenza, facendo a meno di indugi introspettivi. Ogni sensazione deve essere solo e soltanto visibile (come la luce equorea di Iguazù), oppure tangibile come il giaccone di Lai. La visibilità esteriore del senso trascura la leggibilità del racconto: la sequenza del coito tra Ho e Lai, in apertura, libera il film dal dovere di raccontare una storia tra gay, perché trasforma subito in abitudine ordinaria una scena potenzialmente provocatoria. L'eros abbandona la visibilità stanca del sesso domestico per tracimare immediatamente nella geografia lirica delle cascate. È la logica, ancora una volta, di un'immagine declinata all'imperfetto: ricordare da dentro per essere già fuori. Wong riesce a contenere nella stessa inquadratura, dentro lo stesso taglio di montaggio, questo ricordo iterativo e il sentimento opposto del cambiamento. L'uso mai gratuito dei fotogrammi in «slow motion», i raccordi su spazi ritornanti che si aprono alla possibilità dell'imprevisto, il contrappunto tra il fiume impetuoso del mondo e l'immobilità invivibile dell'interno, l'alternanza tra il colore e il bianco e nero trasformano questa tensione tra sospensione e movimento in una forma-cinema di inesorabile perfezione. Il ruolo stesso del tango diventa decisivo: questo «ballo ibrido di gente ibrida» (Ernesto Sabato), questo «pensiero triste che si balla» (Enrique Santos Discepolo), plasma il suo ritmo su una contraddizione del tutto analoga. I corpi si spostano, poi si bloccano, e si tendono nell'attesa del prossimo movimento. La stabilità di un corpo permette il movimento dell'altro: i due elementi della coppia intrecciano un abbraccio che li sostiene a vicenda. Ho e Lai, anche se ci provano spesso, non sanno più abbracciarsi come due tangueiros: Ho cerca in Lai un abbraccio materno mentre Lai cerca l'abbraccio degli amantes, il gesto della fusione, il passaggio dall'Io al Noi. Lai realizza questa idea dentro le braccia di Chan e il risultato è altissimo: da molti anni non si vedeva un abbraccio così profondo, un'immagine così pura, così priva di ogni ulteriore significazione, di ogni attribuzione di ruoli. Forse Chan non ha capito che Lai comincia ad amarlo, o forse sì. Forse Chan non è un omosessuale, o forse sì. Ma a Wong non interessa, perché vuole semplicemente scolpire senza ambiguità l'immagine dell'abbraccio in quanto tale, sospenderlo nel suo incanto prossimo al distacco, come in un tango argentino. È a questo punto, attraverso la percezione fisica dell'altro, che Lai finalmente ritorna a se stesso e conquista all'improvviso il coraggio della scelta. "Sognare un amore vero", ha scritto Fassbinder, "è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c'è bisogno di ossigeno". A Hong Kong, Lai potrà ricominciare a respirare il suo presente, e Wong Kar Wai saprà ancora una volta reinventarsi il mondo, senza smentire la sua generosa coerenza.

Silvio Alovisio